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Iaia Forte: “Più incline agli estremismi che al conforme” – Intervista esclusiva

iaia forte
In un mondo in cui le donne sono spesso relegate a ruoli marginali o stereotipati, Iaia Forte rende omaggio a una pioniera del cinema, la regista Elvira Notari, ricordandoci l'importanza di recuperare la memoria di figure femminili che hanno rotto gli schemi e aperto la strada a nuove generazioni di artiste.

Quando chiedi a Iaia Forte come sta, la sua risposta è un riflesso del suo stato d'animo in perenne movimento: "Un po’ frullatina", dice sorridendo, con quella nota di ironia che da sempre caratterizza il suo modo di affrontare la vita e il lavoro. È un periodo intenso, carico di progetti stimolanti, ma questo non sembra turbarla. Anzi, come lei stessa ammette, la mole di lavoro, pur impegnativa, le restituisce energia perché si tratta di progetti che la rispecchiano profondamente. È una dichiarazione che racconta molto del suo approccio alla carriera: Iaia Forte è un’attrice che ha sempre scelto con cura i ruoli, evitando di piegarsi a lavori che non sentiva affini al proprio mondo interiore.

Questo approccio trova una corrispondenza perfetta nel progetto di Donne di Campania, una docu-serie targata Anele che porta sullo schermo storie di donne straordinarie e coraggiose, legate profondamente al loro territorio. Tra queste donne c'è, al centro della puntata che vede protagonista Iaia Forte, Elvira Notari, la prima regista cinematografica italiana, una figura quasi dimenticata dalla storia, ma che ha segnato profondamente il panorama culturale del suo tempo.

Iaia Forte ha incontrato per la prima volta il personaggio di Elvira Notari dieci anni fa, grazie al lavoro della studiosa Giuliana Bruno, che le ha fatto scoprire questa donna visionaria. Da allora, la fascinazione per la sua figura non l'ha mai abbandonata, portandola non solo a raccontarne la vita nella docu-serie, ma anche a dedicare a lei uno spettacolo teatrale.

Elvira Notari non è solo un personaggio storico per Iaia Forte: è un simbolo di indipendenza e autodeterminazione, un modello di forza creativa in un’epoca in cui le donne erano raramente riconosciute come protagoniste nel mondo dell’arte. Notari fondò una propria casa di produzione, la Dora Film, e fu anche pioniera nell’educazione cinematografica, aprendo una scuola di recitazione per il cinema. "È paradossale", riflette Iaia Forte, "come una donna del primo Novecento avesse un’autonomia così grande, in un settore che sarebbe poi diventato molto più difficile da conquistare per le donne nei decenni successivi". Questa riflessione mette in luce l’evoluzione del ruolo delle donne nel cinema, ma anche i limiti culturali e psicologici che molte artiste hanno dovuto affrontare per affermarsi in un mondo dominato dagli uomini.

Ma non solo. Nel rendere omaggio a Elvira Notari, Iaia Forte non si limita a raccontare la storia di una regista dimenticata, ma solleva una questione più ampia: quella della difficoltà, per le donne, di esprimere la propria visione artistica in un mondo che spesso le ha messe ai margini. "C'è sempre stato un problema culturale e psicologico", dice, "anche noi donne, in qualche modo, abbiamo contribuito a limitarci, faticando a credere nella nostra capacità di esprimerci come esseri autonomi". Questo pensiero la riporta al tema centrale del suo percorso: l'importanza di superare i propri limiti, non solo quelli imposti dall'esterno, ma anche quelli interiori, per liberare la propria creatività.

Iaia Forte, che ha sempre interpretato ruoli complessi e fuori dagli schemi, trova in Elvira Notari un’affinità profonda. Le sue parole rivelano quanto questo progetto sia personale per lei: "Ho sempre incarnato personaggi eccentrici, scellerati, non convenzionali. Preferisco interpretare un’assassina piuttosto che una mogliettina", scherza. È una scelta che riflette la sua natura, una ricerca continua della verità nei personaggi che interpreta, spesso andando contro le rappresentazioni tradizionali del femminile.

L’intervista a Iaia Forte diventa, così, una riflessione non solo su una figura storica come Elvira Notari, ma anche su cosa significhi essere una donna creativa, capace di superare i propri limiti, affrontare il dolore e trasformarlo in arte. Il suo percorso personale, segnato da esperienze forti come la perdita del padre in giovane età, l'ha spinta verso una maturazione interiore che oggi la rende una delle interpreti più intense del panorama italiano. La sua inclinazione verso personaggi "notturni", come li definisce lei stessa, non è solo una scelta artistica, ma un modo di esplorare la complessità dell'essere umano, di dare voce a quegli aspetti dell'esperienza femminile che spesso rimangono inesplorati.

Iaia Forte.
Iaia Forte.

Intervista esclusiva a Iaia Forte

“Un po’ frullatina”, risponde Iaia Forte quando le si chiede come sta in questo periodo. “Quando si ricomincia, parte tutto ciò che era rimasto fermo e sconti tutto l’oblio che hai vissuto in estate. Però, bene”, sorride. E del resto per Iaia Forte è un momento molto pieno dal punto di vista professionale. La vedremo in tv il 4 ottobre in Donne di Campania, la docuserie Anele in onda su Rai Storia (e prossimamente su Rai 3) alla scoperta di sei esemplari figure femminile diventate simbolo per il loro territorio, prima della full immersion alla Festa del Cinema di Roma, dove sarà presente in Marko Polo, nuovo film di Elisa Fuksas, e nel cortometraggio Il presente, accanto ad Alberto Boubakar Malanchino e Barbara Chichiarelli.

“È un periodo sì carico ma piacevole perché, comunque, pieno di progetti che mi corrispondono”, aggiunge Iaia Forte. “Ci sono anche delle volte in cui per lavorare accetti cose verso cui non hai una corrispondenza totale. In questo caso, invece, parliamo di opere verso cui la corrispondenza è piena e questo aiuta, anche energeticamente a livello personale”.

Per Donne di Campania, diretta da Valerio Ruiz, vai sulle tracce di Elvira Notari, una delle figure che ha fatto la storia del Cinema non solo italiano ma pressoché sconosciuta anche a chi mastica pane e cinema.

Completamente sconosciuta… io ho avuto la fortuna di conoscerla dieci anni fa grazie a Giuliana Bruno, insegnante di Cinema ad Harvard che, da mia estimatrice, mi ha inviato un suo libro dal titolo Rovine con vista proprio su Elvira Notari. Ed è grazie al suo lavoro che mi sono appassionata a questa figura incredibile non solo prendendo parte al documentario di Rai Storia ma portando anche a teatro uno spettacolo su di lei. Elvira Notari è stata la prima regista di cinema donna al mondo, insieme ad Alice Guy-Blaché e Lois Weber, ma è caduta completamente nell’oblio della dimenticanza.

A cosa pensi sia dovuta la dimenticanza?

Rispetto ad altre, non ha avuto dei familiari interessati a spingere la sua immagine o a recuperarne la memoria. Elvira Notari è stata una pioniera rispetto alla concezione di cinema stesso: è stata anche la prima donna ad aver aperto in Italia una scuola di recitazione cinematografica, ad esempio. Aveva capito che le sue doti erano principalmente artistiche e di ciò si interessava, lasciando al marito che faceva l’operatore quelli più tecnici.

Nell’approfondire la sua storia, mi ha colpito come agli inizi del Novecento ci fosse già una certa autonomia produttiva, elemento fondamentale, libertà e capacità imprenditoriale. Lo dico senza alcuna retorica: è paradossale come nei tanti anni successivi, in periodi che potremmo immaginare più evoluti, per le donne sia stato molto più difficile far cinema. Sarebbe inutile nascondersi: è sempre stato più complesso per le donne avvicinarsi al medium, eppure Elvira Notari, in tempi non sospetti, aveva un’autonomia incredibile grazie al fatto di aver creato una sua casa di produzione, la Dora Film.

Riusciva così a far quello che voleva, un particolare di non poco conto che mi ha fatto riflettere anche su quanto le ingerenze produttive siano limitanti per l’espressività.

Oggi assistiamo a un bel fermento intorno alle registe donne. In Italia, abbiamo i casi di Paola Cortellesi e di Maura Delpero che sono sotto gli occhi di tutti. Ma stupisce come ad esempio per aver riconosciuto il talento di una donna alla regia anche oltreoceano si sia dovuto attendere il 2010 con il Premio Oscar a Kathryn Bigelow.

Non credo che si sia trattato di un caso solo ideologico ma anche di un problema numerico. Da sempre, su dieci registi solo due erano donne. E questa minoranza non è stata dettata solo dall’impedimento ideologico da parte del potere in mano agli uomini… c’era anche un aspetto psicologico molto preponderante, ovvero la capacità stessa delle donne di ritenersi in grado di poter esprimere un proprio punto di vista. Alla base, c’è stato un problema oggettivo e culturale: noi abbiamo fatto più fatica ad accreditarci come esseri autonomi. Comunque condizionate da una cultura che in qualche maniera induceva tale pensiero, siamo state anche noi molto artefici dei nostri limiti.

Tu quando hai capito che questi limiti andavano superati?

Credo di appartenere a quella genia di donne tipicamente meridionali. Ritengo che il meridione sia un territorio di stampo matriarcale e, quindi, sono stata sempre virile come natura e personalmente non ho mai sentito limiti se non relativamente. Sarà per tale motivo che ho sempre amato incarnare personaggi femminili eccentrici, non sentimentali, scellerati… Da attrice, preferisco un’assassina a una mogliettina, collocandomi se vogliamo usare una metafora televisiva in fascia notturna anziché in prima serata.

La mia inclinazione è stata meno al tinello e più al notturno in quanto portatore di cose più distorte, più strane e meno convenzionali. Il mio personale schieramento è stato a favore della diversità, incarnando personaggi diversi da un’immagine convenzionale del femminile e dando loro vita e complessità proprio per permettere alla complessità dell’essere femminile e anche ai suoi sprofondi di avere un disegno recitativo che non fosse personale.

Non hai mai pagato lo scotto di questa scelta?

In realtà, no. Rispetto al lavoro, mi sono sempre considerata super fortunata perché ho incontrato le persone che avrei voluto incontrare. Se penso al cinema, mi vengono in mente i nomi di Pappi Corsicato, Mario Martone, Paolo Sorrentino o Marco Ferreri, mentre se penso al teatro non posso non ricordare Luca Ronconi, Carlo Cecchi o Federico Tiezzi. Ho incontrato tutti quelli che erano nella mia cosmogonia e, quindi, non ritengo di averne pagato lo scotto.

Se ho lavorato meno di quello che avrei potuto è proprio perché non mi interessava farlo: per un sano principio di realtà, dentro di me capisco che sarebbe stato più difficile per la mia tipologia di attrice prestarsi a personaggi o lavori più “rassicuranti”. Ogni tanto ci ho provato (come in Vivi e lascia vivere, la serie tv a fianco di Elena Sofia Ricci, ndr) e lo rifarei perché, comunque, ho un enorme rispetto del lavoro, ma credo di non essere mai stata chiamata tanto dalla televisione forse perché ho una tipologia molto simile a quelle delle personaggi con cui mi identificano.

Ne ho fatte veramente di tutti i colori: in un film di Corsicato, venivo persino fatta sverginare con un tacco! Forse è difficile immaginarmi in ruoli “diversi” ma ne sono felice: la mia natura è sempre più incline agli estremismi che al conforme.

Essere inclini agli estremismi comporta anche avere un’ottima cognizione di chi si è, padronanza della propria femminilità e controllo dei propri lati oscuri.

Ci si lavora costantemente: occorre non avere paura di spingersi oltre i limiti del conosciuto o del rassicurante. La conoscenza è un processo in continuo movimento!

Donne di Campania: Elvira Notari

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Non credi che in qualche modo che nel tuo caso tale processo sia stato inficiato dalle esperienze personale che hai vissuto sin da quando eri giovanissima? Famiglia matriarcale la tua dettata anche dalla vita stessa: hai perso tuo padre a quattordici anni.

Certo ma in qualche modo tenti a rimuovere un’esperienza dolorosa così precoce: non ci fai veramente i conti per una questione inconscia di sopravvivenza. Avendo perso mio padre così giovane, ho vissuto in prima persona la capacità di mia madre di farsi comunque carico, da tutti i punti di vista, di tutta la famiglia, dalle esigenze economiche a quelle affettive. Improvvisamente tutto si reinventa e io ho visto improvvisamente cambiare tutto…

Ma hai rimosso il dolore…

Per mia tendenza, l’istinto mi ha portato a rimuoverlo. Ma pago oggi le conseguenze di quella rimozione… il conto arriva continuamente: la memoria biologica trattiene ma il principio di realtà è ben differente.

Ti sei trasformata in quella che in un’intervista a La Stampa hai definito un’adolescente ribelle. In cosa consisteva tale ribellione?

Ne ho fatte di tutti i colori: sono stata molto rock’n’roll, sono scappata, ho viaggiato… ho avuto un’adolescenza abbastanza spericolata ma poi sono arrivati il teatro e la recitazione a rettificare la mia tendenza alla ribellione. Il mio essere ribelle si è placato nel momento in cui ho trovato un canale dove far circuire le mie strane energie inquiete: ho una natura energica, per cui tendenzialmente vitale, ma inquieta. Nel teatro e nel mio lavoro ho trovato la possibilità di canalizzare sia l’energia sia l’inquietudine.

Cosa ti ha permesso la recitazione di scoprire di te che prima non sapevi?

Al teatro più che al cinema ci si confronta sempre con personaggi che sono più grandi di noi nella loro manifestazione esistenziale. Avendo interpretato tanti classici sempre da protagonista e sempre con grandi registi, ho potuto amplificare la mia immaginazione grazie anche alle grandi parole degli autori e ho toccato corde che forse altrimenti non avrei mai sfiorato. L’esperienza dell’altro da te, se vissuta umanamente e non solo professionalmente, ti porta in contatto con mondo più grandi e più estremi: la tua esistenza si amplifica, conosci più profondamente la vita stessa e i movimenti dell’umano e riesci ad affrontare tutto con una capacità diversa. E sì, aiuta anche a canalizzare il dolore: la creatività è sempre salvifica.

C’è stato un momento particolare in cui hai detto “grazie” alla creatività?

Lo dico spesso. Come lo dico alla letterature e a tutte quelle forme che fanno appello al mito, in grado di trascinarti in territori non comuni.

Ti ha mai fatto paura la vita?

Sì, tantissime volte. Più che di paura, parlerei di una condizione implicita dell’essere umano, a partire dalla consapevolezza di dover morire. Consciamente o inconsciamente, conviviamo con questa paura che non si supera mai: semmai, la rimuoviamo o la trasformiamo in amore. Perché a volte l’amore ti dà un’illusione di strana eternità o di sospensione del dolore e della paura stessa.

Amore: ti sei sempre amata?

Foss’ ‘a Maronna (ride, ndr). Diciamo abbastanza spesso ma mai sempre, purtroppo, proprio per il fatto di non essere totalmente risolta...

Iaia Forte.
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