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Il fenomeno delle baby gang: Il lato oscuro dell’adolescenza – Intervista esclusiva a Roberta Lippi

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Baby Gang è il titolo del podcast di Roberta Lippi che cerca di raccontare un fenomeno sempre più dilagante in Italia dando voce alle vittime, alle forze dell’ordine, agli educatori e agli stessi ex componenti di una baby gang. Un lavoro completo che getta luce su quello che è definito il lato oscuro dell’adolescenza.

Il fenomeno delle baby gang in Italia è in preoccupante aumento. Ce lo dicono i dati di uno studio del Ministero dell’Interno, Le gang giovanili in Italia, pubblicato lo scorso ottobre. I casi che hanno visto coinvolte le baby gang sono passati dai 25.261 dei primi dieci mesi del 2019 ai 28.881 dello stesso periodo del 2022. Un dato che trova conferma nel numero di articoli di giornali che hanno provato a raccontare il fenomeno baby gang: erano 932 nel 2019, sono diventati 1909 solo nei primi quattro mesi del 2022.

Contrariamente a quanto si può pensare, i dati forniti dal Ministero ci mostrano come il fenomeno baby gang abbia una certa prevalenza al Centro-Nord rispetto al Sud dell’Italia ma ricordiamo che si tratta pur sempre di informazioni che spesso non rispecchiano la vera natura dello status quo, a causa di tutti quei reati e crimini sommersi che le vittime non trovano il coraggio di denunciare.

Spesso composte da adolescenti in un’età compresa tra i 15 e 17 anni, le baby gang mettono in atto reati violenti come risse, percosse e lesioni, atti di bullismo, disturbo della quiete pubblica e atti vandalici, ma anche furti e rapine soprattutto ai danni di coetanei tra i 14 e i 18 anni. I casi più eclatanti finiscono raccontati al telegiornale o nei programmi di infotainment, catturando l’attenzione per un paio di giorni prima di cadere nel dimenticatoio in attesa della prossima notizia.

Ed è al fenomeno delle baby gang che è dedicato il podcast Baby Gang – Il lato oscuro dell’adolescenza di Roberta Lippi. Nei sei episodi della produzione targata Publispei (la casa di produzione di Fiori sopra l'inferno) e StorieLibere, Roberta Lippi racconta il fenomeno delle baby gang attraverso differenti punti di vista: quello delle vittime e dei loro familiari, ma anche degli operatori che cercano di recuperare i giovani criminali, delle forze dell’ordine e degli psicologi che si occupano specificamente del problema. Un quadro corale, con testimonianze dirette provenienti da varie zone d’Italia, in grado di restituire l’ampiezza del fenomeno e le sue tante sfaccettature, che non possono essere ricondotte a un “sono solo dei bambini” se non si mettono in atto misure di prevenzione ed educazione.

Da tempo impegnata a indagare la nostra società con il suo sguardo da autrice e giornalista, Roberta Lippi è reduce da un premio importante per il podcast Respiro. Storie di orfani di femminicidio, ideato da Terre des Hommes ed eletto come miglior podcast branded dell’anno. Ma per sua natura Roberta Lippi non sa star ferma, dal momento che proprio in questi giorni debutta con un nuovo podcast (Non farmi male) sul maltrattamento infantile e sta già pensando a una nuova edizione di Love Bombing (incentrato sulla manipolazione).

Abbiamo intervistato Roberta Lippi per capire come ha lavorato al podcast Baby Gang, un podcast a cura di Matteo B. Bianchi ("io e Matteo ci confrontiamo continuamente", ci dice) e il suo punto di vista sul fenomeno.

Roberta Lippi (foto di Lorenza Daverio).
Roberta Lippi (foto di Lorenza Daverio).

Intervista esclusiva a Roberta Lippi

Cosa porta te, Roberta Lippi, a interessarsi al fenomeno delle baby gang, esponendoti anche in prima persona a rischi e pericoli?

Come sempre, mi infilo in gineprai rischioso. L’ho fatto molto spesso per gli altri miei podcast partendo da un’idea mia. Nel caso di Baby Gang, invece, il progetto è partito dalla comunione tra Publispei e Storie Libere. Publispei, società di produzione nel campo dell’audiovisivo, era interessata a far ricerche sull’argomento per una serie tv ma si era resa conto che non esisteva praticamente nulla: c’era tantissima cronaca ma pochissima analisi del fenomeno. Ha quindi contattato Storie Libere e ha intercettato il mio interesse perché si tratta di una piaga che interessa tutti.

Vivo in una città come Milano, in cui il fenomeno baby gang negli ultimi anni si è reso protagonista di tante notizie di cronaca devastanti. E ciò ha spinto ulteriormente la mia curiosità ma non sapevo realmente da dove cominciare. Il proposito allora è diventato quello di fare un viaggio a 360° intorno al fenomeno: prendere in considerazione tutti i punti di vista, a partire da quelli delle vittime per poi concludere con la testimonianza di un ragazzo che ha fatto parte di una baby gang. Era difficile parlare con uno dei ragazzi ma, come dimostra il sesto e ultimo episodio del podcast, ci siamo riusciti.

A lavoro ultimato, sono molto contenta del risultato. Ho l’impressione di aver realizzato qualcosa di abbastanza completo sul fenomeno, dal momento che abbiamo anche incontrato le forze dell’ordine (in particolare, quelle della questura di Rimini e Riccione), le vittime, i colpevoli e coloro che sono adibiti al recupero dei ragazzi stessi (come il responsabile della comunità Kairos). Sono felice di aver accettato la missione e di averla portata a termine.

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Studiando il tuo percorso, non è la prima volta che ti occupi di giovani. Hai mosso i tuoi primi passi in un altro contesto tra coloro che appartenevano alla cosiddetta MTv Generation: edulcorata, divertente e scanzonata.

Ho sempre tenuto in mente le due mie due diverse anime: mi hanno sempre rimproverata perché non riesco a scegliere una direzione precisa tra l’intrattenimento e la cronaca contemporanea. Ma entrambi i campi appartengono al mio modo di essere e al mio lavoro. Se scrivo per la televisione o per una rivista, mi piace mantenere quel lato scanzonato. Ma, quando lavoro per un podcast, per qualche strano motivo, preferisco confrontarmi con l’inchiesta toccando temi dolorosi come il femminicidio o la condizione dell’infanzia.

La Generazione Z è molto diversa dalla MTv Generation: ha vissuto sulla propria pelle due anni di pandemia che hanno modificato il modo di pensare di noi adulti, anche se facciamo oggi finta di nulla, figuriamoci quello dei ragazzi. In quei due anni, abbiamo tenuto in casa, in cattività, dei ragazzi che, mentre crescevano ed entravano nel mondo dell’adolescenza, non potevano andare a scuola, vedere di presenza i loro compagni e stare con gli amici. Nessuno ha pensato alle conseguenze sulla loro psiche o a delle soluzioni pratiche da attuare per il fatto che i ragazzi avevano bisogno di parlarsi, di vedersi, di litigare, di stare insieme al parchetto.

La cattività ha esacerbato il fenomeno delle baby gang. Non sono madre ma posso immaginare quanta rabbia potesse montare in un ragazzino costretto a casa a rinunciare a quella spensieratezza che può dare l’adolescenza. E nessuno, a fine pandemia, si è preso cura di come quell’esperienza può aver impattato sulla sua psiche.

Così come sulla psiche può aver impattato l’essere stati lasciati da soli davanti a uno smartphone, incapaci di discernere il confine tra ciò che era reale e ciò che era virtuale.

C’è stato uno scollamento dalla realtà. I ragazzi hanno iniziato a vivere e a comunicare tra loro soltanto attraverso i loro telefonini. Non che non lo facessero prima ma la pandemia ha amplificato una condizione già in essere che ha portato a vivere il mondo attraverso uno schermo e ad allontanarsi dal reale. E non è un’ipotesi, lo conferma il racconto del giovane che ho intervistato per l’ultimo episodio del podcast: non aveva la percezione di stare facendo qualcosa di particolarmente grave.

Roberta Lippi (foto di Lorenza Daverio).
Roberta Lippi (foto di Lorenza Daverio).

Cosa secondo te spinge un giovane a far parte di una baby gang? Mettendosi nelle mani di un gruppo, non perde di individualità?

Di solito, è il desiderio di essere più forti e di vedersi riconosciuti un valore che qualcun altro – la famiglia la scuola – non gli riconosce. Dietro può esserci anche una condizione di solitudine che andrebbe affrontata e approfondita. La baby gang permette di sentirsi parte di un qualcosa che si basa sulla condivisione: anche la colpa può essere condivisa, non ricade solo sul singolo individuo ma su tutti quanti, così come l’eventuale angoscia per aver commesso qualcosa di grave è condivisa.

Ai ragazzi che fanno parte di una baby gang, come mi viene spiegato dalla polizia, a oggi non è imputabile l’associazione a delinquere se la baby gang non è strutturata. Ed è difficile che lo sia: a comporta sono quasi sempre i ragazzi del parchetto sotto casa, spesso minorenni a cui diventa anche difficile attribuire la responsabilità dei reati a causa della loro età.

All’educatore incontrato per il podcast ho chiesto cosa sia meglio per il recupero, se lavorare sul gruppo o sull’individuo. E lui non aveva dubbi: come primo step, occorre lavorare sempre individualmente, è solo così che si lavora sulla persona e si calamita un’attenzione che poi può essere riportata nel gruppo. Ricordiamoci che il gruppo è sempre più forte e tende a fare muro: è solo prendendo i ragazzi singolarmente che può esserci una speranza di redenzione.

Il primo episodio del tuo podcast si apre con la storia di Arturo, un minorenne napoletano finito nel mirino di una baby gang senza un motivo ben preciso. Non stiamo parlando di bullismo o di vittima designata per chissà quale torto: siamo semmai di fronte a un target scelto a caso, un modus operandi che le baby gang tendono a mettere in atto.

Purtroppo, sì. La vittima solitamente ha qualcosa che tu vedi e vuoi (un cellulare, una felpa, un paio di scarpe). La colpa di Arturo Puoti è stata quella di non essersi piegato al branco e di essersi ribellato. La vittima poteva essere lui o qualcun altro, non aveva importanza, tanto che le indagini hanno fatto progressi grazie alla testimonianza di un altro ragazzino scampato all’aggressione: il suo è stato un atto di grandissima forza perché spesso di ha anche tanta paura a denunciare.

Ma capitano anche dei casi in cui gli atti di violenza sono rivolti contro chi reputi inferiore a te: pensiamo ai poveri barboni o vecchietti che vengono aggrediti senza alcuna motivazione o spiegazione logica se non quella di essere considerati inferiori. Quindi, non sempre la vittima è scelta a caso: spesso è osservata da lontano.

Oltre a dedicare due puntate del podcast a educatori e poliziotti non era forse il caso di dedicarne una interamente ai genitori? Spesso è proprio in casa che bisogna intervenire per evitare, come accade nel caso di Arturo, che i genitori dei carnefici siano conniventi dei loro stesso figli.

È vero ma, ascoltando il podcast per intero, non c’è episodio in cui l’aspetto genitoriale non venga toccato. Così come è altrettanto vero che si dovrebbe lavorare tra le mura domestiche per capire quali sono i punti di riferimento dei ragazzi e chi è la persona che dovrebbe vigilare su di essi. Non si richiede che i genitori siano degli adulti perfetti ma almeno che siano credibili. E lo stesso discorso vale per gli insegnanti a scuola, altri adulti responsabili della formazione dei due ragazzi. Ma, come sottolinea anche la questura, genitori e insegnanti non possono vincere la battaglia in maniera autonoma: devono comunicare e agire verso un’unica direzione, non perdendo mai il controllo sul ragazzo o sulla ragazza. Il fenomeno delle baby gang non è solo maschile: tra le ragazzine è in forte aumento, nonostante se ne parli meno.

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Di ogni episodio del podcast rimane addosso qualcosa. A te quali segni ha lasciato quest’immersione nel mondo delle baby gang?

Mi ha colpito vedere come le vittime cercassero in qualche modo di giustificare i ragazzi. Dalla madre di Arturo, che insegna pedagogia, un po’ me lo sarei aspettata, meno dai protagonisti del secondo episodio, Nicolò e Sofia, che cercano di capire perché la baby gang si comporta in quel modo nei loro confronti. Non sono mai stata vittima e non so come reagirei di fronte a un’aggressione ma la loro comprensione mi sorprende.

Da quando il podcast è uscito, ho ricevuto diversi messaggi, anche vocali su Linkedin (non sapevo nemmeno che si potessero mandare degli audio su quella piattaforma!). Mi ha sorpresa quello di un padre che ha cambiato il suo punto di vista sulle baby gang dopo aver ascoltato l’episodio sulla questura, quello che sulla carta doveva essere il più debole. Lo spostamento della critica di chi ascolta è quello che in un certo senso mi interessava ottenere: significa che sono riuscita a portare le persone a interrogarsi su se stessi e a cambiare idea su quello che è un fenomeno molto più complesso della singola notizia di cui si parla per uno o più giorni al telegiornale.

Qual è il compito di noi operatori dei media? Spesso ci chiediamo se raccontare gli episodi non aumenti il rischio di emulazione di certi comportamenti.

Nostro compito è parlarne. Ma il tutto dipende dal racconto che ne facciamo, dalla lente che scegliamo per guardarlo. La chiave morbosa o scandalistica può catturare l’attenzione ma non aiuta a comprendere la questione: servono tutti i punti di vista e occorre cercare di far parlare tutti, soprattutto i ragazzi che hanno commesso reati o crimini.

Occorre dare voce a loro e trattare il fenomeno non come una notizia ma come qualcosa che va analizzato e scandagliato per il bene di tutti senza puntare il dito su nessuno. All’ondata di sdegno che può generare un singolo episodio deve seguire l’analisi e la responsabilità di continuare a parlarne sperando che seguano misure adeguate dal punto di vista della prevenzione e dell’insegnamento socio-culturale.

Noi abbiamo il compito di smascherare il fenomeno su cui altri poi sono chiamati a lavorare. Le vittime hanno quello di denunciare per non alimentare un circolo della paura che non porta da nessuna parte e che rischia di ingrandirsi e assumere ancor più potenza. E le forze dell’ordine di tutelare assolutamente l’anonimato della denuncia per evitare ripercussioni, anche peggiori, sulle vittime stesse.

Roberta Lippi (foto di Antonella Civera).
Roberta Lippi (foto di Antonella Civera).
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