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Il magico mondo di Billie, una favola per bambini – Intervista al regista Francesco Cinquemani

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Arriva al cinema Il magico mondo di Billie, un film pensato per i bambini ma con un cast da grande occasione, in cui troviamo anche Alec Baldwin e Valeria Marini. Ne abbiamo parlato con il regista.
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Francesco Cinquemani ha creato un mondo fantastico con il suo ultimo film, Il magico mondo di Billie, in arrivo nelle sale italiane dal 1° agosto con la distribuzione di Altre Storie con Minerva Pictures. Il progetto, definito dallo stesso regista più una favola che un semplice film, nasce da un momento difficile vissuto a livello personale e rappresenta un cambio di rotta rispetto ai suoi precedenti lavori, conosciuti per essere action, thriller e crime.

Cinquemani, che ha già una certa notorietà negli Stati Uniti per aver diretto star come Morgan Freeman e John Travolta, ci racconta come la pandemia e una serie di eventi personali lo abbiano spinto a realizzare qualcosa di positivo e speranzoso. Il magico mondo di Billie non è solo un film “natalizio”, ma un'opera che cerca di riportare un sorriso e un po' di magia in un periodo storico difficile.

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Scopriremo come il regista ha combinato elementi di live action e animazione, creando un mondo in cui la piccola protagonista, Billie, affronta avventure incredibili con l'aiuto del suo magico pupazzo, Johnny Puff. Con un cast internazionale (Alec Baldwin, William Baldwin e Valeria Marini, tra gli altri) e l'intento di raggiungere un pubblico globale, Cinquemani ci parla delle sfide e delle gioie nel realizzare una storia che, seppur destinata ai bambini, ha molto da dire anche agli adulti.

Un viaggio tra archetipi antichi e innovazione cinematografica, il film Il magico mondo di Billie è una testimonianza del talento versatile di Cinquemani e della sua capacità di reinventarsi come regista. Scopriamo insieme cosa ha ispirato questa fiaba moderna e quali sono le sue ambizioni future nel mondo del cinema.

Intervista esclusiva a Francesco Cinquemani

Come nasce Il magico mondo di Billie, che più che un film possiamo definire una favola?

È frutto di un periodo molto brutto vissuto a livello personale. Non mi considero tanto un regista italiano perché ho solo fatto film in inglese e ho una certa notorietà negli Stati Uniti per aver diretto action, thriller e crime, interpretati anche da star di un certo calibro, da Morgan Freeman a John Travolta e Antonio Banderas. Tuttavia, poco prima del lockdown da CoVid, a mia madre è stato diagnosticato un tumore, portandomi a vivere un periodo molto depressivo.

Stanco di ammazzare gente in scena e dell’aria che si respirava in tutto il mondo per la pandemia, ho deciso allora di voler realizzare qualcosa di positivo, in grado di regalare speranza e sorrisi. E un film per bambini era l’ideale, tanto che ho accettato la proposta di realizzarne una serie per riportare non dico serenità ma almeno allegria non solo nella mia vita.

E i film sul Natale che sono venuti non sono altro che commedie, per bambini ma sempre commedie, un genere che negli ultimi anni gli Stati Uniti sembra aver accantonato. A livello produttivo, se cercassi soldi per l’ennesimo thriller, li troverei subito: negli ultimi dieci anni, è cambiato notevolmente il mercato, tant’è che i registi di commedie si sono riciclati nel drammatico (un esempio su tutti, Todd Philips).

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I tuoi film possono però essere definiti universali.

Faticano ad arrivare nelle sale italiane ma escono in tutto il mondo, in oltre 300 nazioni, dalla Cina alla Russia. E ciò fa sì che si debba cercare continuamente un linguaggio in grado di parlare con tutti e adattarsi alle esigenze di tutti. Ho diretto ad esempio un horror con Julian Sands, ancora inedito in Italia (The Ghosts of Monday, ndr), a cui ho dovuto tagliare ben 9 minuti e mezzo dalla sua versione finale: prevedeva una sottotrama LGBTQIA+ ma non sarebbe stato vendibile ai Paesi di religione musulmana. Si chiama purtroppo show business e l’ultima parola spetta sempre ai produttori, a coloro che mettono i soldi.

Il magico mondo di Billie è ancora una volta un film sul Natale…

Ne ho fatti una serie di sette in tre anni e mezzo. Alcuni devono ancora uscire: Billie, ad esempio, è inedito in tutto il mondo e il mercato italiano è il primo in cui arriva. Perché così tanti? Innanzitutto, perché mi sono divertito e poi perché anche negli Stati Uniti, così come in Italia, se qualcosa funziona, tendono a incasellarti. Ed è per sfuggire da ogni etichetta che ho poi realizzato Muti, un thriller con Freeman e Giuseppe Zeno. Amo cambiare e non ripetermi perché altrimenti mi annoierei: il mio prossimo film sarà ad esempio di fantascienza, del tutto diverso dagli altri e girato in Polonia…

Cambio totalmente atmosfera perché mi piacciono le sfide. Anche nel ciclo natalizio, ho sperimentato molto. Basta vedere il lavoro fatto per Sherlock Santa (disponibile su Prime Video, ndr), per cui ho fatto ricorso a un ambiente vittoriano, luci di candele e costumi ottocenteschi, nonostante fosse un film per bambini, e ho giocato con la sphericam. Mi definisco un regista tecnico commerciale, a me non interessa fare l’autore: ne abbiamo fin troppi in Italia. L’importante per me è lavorare divertendomi: dopo una vita passata ad affermarmi professionalmente in un altro campo, quello del giornalismo, gioco ora a fare il regista senza prendermi troppo sul serio.

Giocare, divertirsi e sperimentare: Il magico mondo di Billie è un esempio perfetto della filosofia del tuo cinema. Al live action, combini sequenze in animazione grazie all’introduzione dei Puffin, personaggi molto amati dai bambini. È stata una sfida?

I miei primi passi sono stati nel mondo dell’animazione: ho realizzato qualcosa come 60 e passa cortometraggi animati, alcuni dei quali presentati nei più importanti festival del mondo. Quando sono passato al live action, avevo dalla mia le skills da disegnatore, qualcosa che ho conservato in tutti miei film per i quali ho sempre avuto a che fare con effetti speciali. Mi viene quindi quasi naturale giocare con il mix e, dunque, non l’ho percepita come una sfida ma come semplice normalità.

Ho tanti animatori, anche italiani, che lavorano nel mio team e sono bravissimi. Purtroppo, in Italia non sfruttiamo i nostri talenti o perché non ci rendiamo conto di cosa abbiamo per le mani o perché facciamo un altro tipo di cinema che non valorizza settori come l’animazione, la scenografia, la fotografia o i costumi. Il nostro sistema cinema si è arenato: non sorprenda poi che esportiamo tanto quanto la Polonia, che di film ne produce una trentina all’anno a fronte dei quasi 420 italiani.

Non parliamo poi dei film destinati ai bambini, una fascia a cui nessuno pensa. Se escludiamo i Me contro Te, quanti film negli ultimi anni sono stati realizzati per loro? Quasi zero. I produttori italiani vivono nel trip mentale dei finanziamenti senza pensare a chi il cinema dovrebbe rivolgersi: il pubblico. Non stupisca poi la crisi degli incassi…

Per cui, ai produttori direi di pensare meno ai soldi mentre ai registi di cominciare a far squadra per mandare avanti dei progetti in comune. Non a caso sto cercando nel mio piccolo di aiutare anche dei giovani a produrre le loro opere prime ed è dallo scambio di posizioni diverse dalla mia che imparo anch’io. Lo scorso anno, ad esempio, per il workshop tenuto al Festival di Taormina, mi sono ritrovato a improvvisare con i ragazzi due cortometraggi e a girarli simultaneamente, scoprendo una capacità che non pensavo di avere.

Il poster del film Il magico mondo di Billie.
Il poster del film Il magico mondo di Billie.

Alla luce di com’è nato il film, assume tutto un altro significato il legame che Billie, la piccola protagonista, ha con il pupazzo che le è stato regalato dalla madre oramai morta. C’è un piccolo Francesco in Billie?

Non ci avevo mai riflettuto prima ma forse sì. C’è quasi sempre qualcosa di me in tutti i miei film ma accade quasi sempre a livello inconscio. Sicuramente, ho avuto un’infanzia particolare e ciò si è riversato nella storia.

Quanto ti sei divertito a giocare con gli archetipi della favola?

Ci si diverte molto a prendere delle figure e a trasformarle in altro e a rivisitarle, soprattutto quando si agisce sulle favole o sul mito. Non si può andare troppo per il sottile o sull’esistenziale e quindi la sfida è maggiore: si creano dei meccanismi che ti portano a fare delle scelte che agli occhi degli altri sono follia, anche a livello di cast, per cui associa la piccola Mia McGovern Zaini, che è un talento puro, a Valeria Marini.

Ma anche ad Alec Baldwin.

La scelta di Alec Baldwin è legata a quanto gli è accaduto sul set di Rust.  Dopo quell’episodio, era in piena depressione e aveva maturato la decisione di smettere di recitare. E non potevo permettere che accadesse a uno degli attori più bravi del mondo: lo considero uno Stradivari, a cui puoi chiedere qualsiasi cosa. È molto difficile da dirigere ma è un genio: non accettavo l’idea della blacklist in cui lo aveva messo Hollywood e gli ho proposto il primo film insieme, Kid Santa. E da uno i film sono diventati due…

E come sei arrivato a Valeria Marini?

Mi serviva una strega à la Jessica Rabbit dell’età giusta per essere la fidanzata di Alec Baldwin. E il primo pensiero è corso a lei: gioca con quel personaggio da anni. In più, conosco Valeria da tantissimo tempo e so che ha delle qualità attoriali notevoli, altrimenti non sarebbe stata scelta da registi come Bigas Luna o Sofia Coppola. Purtroppo, il cinema italiano per pregiudizio non la tiene in considerazione ma come attrice è brava, tanto che sul set si è guadagnata i complimenti di Alec Baldwin per come ha recitato.

Nel ruolo della strega, ha funzionato ma so già che i critici italiani, per partito preso, la massacreranno: rimane il fatto che la considero sottoutilizzata dal cinema italiano e che tecnicamente è brava, dotata anche di tempi comici giusti e senso dell’umorismo.

Con lei, ho ripetuto lo stesso schema mentale che ho usato per Giuseppe Zeno in Muti: ho voluto scardinare il pregiudizio per cui fosse semplicemente un attore da fiction televisiva. Una scommessa vinta, dal momento che al pubblico americano è piaciuto tantissimo. Un altro problema del cinema italiano è anche il riciclo delle stesse facce da un film all’altro: variamo e non usiamo sempre gli stessi attori, no?

Il magico mondo di Billie: Le foto

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Lo hai ricordato prima: facevi tutt’altro mestiere. Cosa ti ha portato al cinema?

Volevo fare il regista sin da quando avevo sei anni. Ma, non essendo ricco di famiglia o raccomandato dal cugino senatore, non avevo in Italia alcuna possibilità di farcela. Ho dunque fatto tutt’altra carriera: giornalista, direttore di giornale e direttore di una casa editrice. Hanno poi continuato a promuovermi finché sono diventato inutile, ragione per cui a un certo punto ho voluto riprendere in mano quel sogno che coltivavo da bambino dopo due anni allucinanti da amministratore delegato… una mattina, mentre facevo la barba, sono come impazzito, decidendo di mollare tutti e provarci con la regia prima che fosse troppo tardi.

Per tutti, ero semplicemente un pazzo. Ma nel giro di due anni avevo già venduto una serie a Sky, una alla Rai e un film agli americani. E da lì non mi sono più fermato.

Lasciando la tua Italia…

Negli Stati Uniti cercano i talenti, in Italia li schivano. Sono la terra delle opportunità: se scrivi a una major, è probabile che ti rispondano per paura di perdere un talento e dei soldi, esattamente il contrario di ciò che avviene in Italia, dove non c’è nessuno scouting. Avevamo il cinema migliore del mondo e purtroppo non ce l’abbiamo più… ma non amo particolarmente gli USA, tanto che sono tornato a vivere in Italia nonostante la sua marea di problemi e un futuro poco roseo per i giovani.

Italia vuol dire anche famiglia, un concetto che in qualche modo si è riversato nei tuoi film per bambini.

È vero. Sono alla terza collaborazione con Alec Baldwin, alla quinta con Elva Trill e William Baldwin, alla terza con la piccola Mia e Samuel Kay (che interpreta il padre di Billie)… sono tutti attori con cui ho lavorato e che considero famiglia, così come Valeria Marini, mia amica da vent’anni. E nel lavorare insieme ci siamo molto divertiti, anche perché ci conoscevamo come le nostre tasche sia nel bene sia nel male. E in più i comparti tecnici erano tutti italiani.

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