I Il Muro del Canto hanno pubblicato il loro quinto disco, Maestrale. Arriva a quattro anni di distanza dal precedente lavoro, L’amore mio non more, periodo durante il quale Il Muro del Canto è stata consacrata come band di culto nel panorama della musica indipendente nazionale e ha avuto modo di far conoscere la propria musica anche all’estero. Insieme a Piotta, Il Muro del Canto sono gli artefici di 7 vizi capitale, la sigla della serie tv Netflix Suburra, trasmessa in 190 Paesi nel mondo.
Provare a descrivere il lungo percorso dei Il Muro del Canto non è semplice. Se è vero che sono solo quattro gli album in studio, è anche vero che innumerevoli sono le esperienze che hanno accumulato negli anni. La loro musica ha sposato spesso temi civili, sociali e politici, mostrando un impegno che si è sempre mosso nel nome della coerenza e degli ideali. Dai concerti del 1° Maggio a quelli tra le mura di Rebibbia, Il Muro del Canto non hanno mai smentito la loro vocazione e anche Maestrale ne è la controprova.
Il nuovo album è frutto di una serie di novità all’interno del gruppo: da una nuova etichetta discografica al nuovo inserimento del chitarrista Pietropaoli. Delle novità e dell’album Maestrale abbiamo parlato con Alessandro Pieravanti, voce narrante e batterista dei Il Muro del Canto. Nel corso di quest’intervista esclusiva, Pieravanti si addentra nei brani e ci fa una promessa: non appena possibile, la band tornerà a cantare in tutti quei posti in cui la parola ha un peso, là dove vivono quelli che la società considera ultimi.
INTERVISTA ESCLUSIVA A IL MURO DEL CANTO (ALESSANDRO PIERAVANTI)
Maestrale, il vostro quinto album, è accompagnato da tre grandi cambiamenti: una nuova etichetta di riferimento (FioriRari), l’innesto nella band del chitarrista Franco Pietropaoli e la tua voce che adesso canta e non solo recita nelle canzoni.
Il cambio di etichetta è frutto di una scelta artistica: volevamo collaborare con una realtà fatta di persone che stimiamo, come Roberto Angelini e il collettivo di musicisti che vi ruota attorno. La distribuzione dell’album è però rimasta alla nostra vecchia etichetta, Godfellas: ci piaceva mantenere un legame con chi abbiamo fatto un ottimo lavoro negli ultimi dieci anni.
L’ingresso di Franco ha certamente influenza molto il sound: è anche il producer di Maestrale. Il cambia di guardia tra Giancarlo Barbati, alias Giancane, e Franco Pietropaoli ha lasciato il segno sia sull’aspetto chitarristico sia su tutte le sonorità dell’album.
Ed io, mentre in passato mi limitavo a scrivere dei brani in chiave recitata, per la prima volta mi cimento con delle parti cantate, che mi portano ad avere un approccio diverso non solo al disco ma anche ai live. Per me rappresenta un’evoluzione personale e artistica. Sicuramente tutti e tre i cambiamenti hanno influenzato Maestrale in maniera notevole.
Il titolo scelto per il nuovo disco, Maestrale, non può non ricordarmi San Martino di Giosué Carducci. Mentre nella poesia per il maestrale urla e biancheggia il mare, in Maestrale, la breve canzone che dà il titolo a tutto l’album, siete voi che gridate al maestrale.
Maestrale, il brano introduttivo, è il manifesto del pensiero racchiuso nel disco. È una metafora del sentirsi inermi di fronte a cose più grosse di noi. L’urlo di rabbia di cui racconta è frutto di una rabbia positiva, di riscatto. Ci piaceva l’immagine dell’uomo di fronte al mare.
Il riscatto è uno dei temi che è fortemente presente in tutto il disco, dove ponete una particolare attenzione nei confronti degli ultimi, siano essi matti o vittime di abuso da parte di chi invece non dovrebbe abusare della propria forza. Da dove nasce questa attenzione?
Sicuramente nasce dalla nostra sensibilità. Scriviamo di cose che ci colpiscono perché pensiamo che le emozioni provate in prima persona siano meritevoli di essere raccontate agli altri. Per noi risponde a quel bisogno di autenticità nel descrivere determinate situazioni in chiave cantautoriale. Vogliamo descrivere ciò che ci tocca e, spesso, le cose che ci toccano sono relative alle ingiustizie sociali.
Uno dei brani che più mi colpisce è Cenere e carbone, dove nonostante si guardi al passato si parla al presente.
Per quel testo, Daniele (Coccia Paifelman) ha usato il pretesto della storia di una persona in punto di morte per riprendere una serie di elementi e detti appartenenti alla tradizionale popolare orale romana. Quindi, ha offerto uno spaccato della società di una volta che però risulta estremamente contemporaneo proprio grazie ai modi di dire relativi agli usi e costumi del popolo.
Il tema della morte ritorna in qualche modo anche in Non si comanda il cuore, dove si affronta un ipotetico dialogo con una persona che non c’è più. Pensavate a qualcuno in particolare?
A nessuno nello specifico. È una canzone che parla di distanza: è come se si raccontasse a un amico scomparso quello che si sta vivendo. Fa tornare alla mente un parallelo con Caro amico ti scrivo…, il verso iniziale di L’anno che verrà di Lucio Dalla. Ma nella canzone si affronta anche il tema delle distanze geografiche: si racconta dell’esilio e di cosa si provi a essere allontanati dalla propria terra.
A proposito di terra, siete ancorati ovviamente alla vostra romanità. Dopo il successo di Suburra, la serie tv Netflix che si apriva con una vostra canzone nei titoli di testa, avete mai pensato di esportare la vostra musica al di là dei confini italiani?
Si, ci abbiamo pensato. E non escludiamo di farlo in futuro ma senza tradurre i testi, non è qualcosa che è nelle nostre corde. Siamo convinti che alcune nostre peculiarità e caratteristiche sonore possano essere di interesse anche al di là dei confini italiani.
Avete scelto come nuovo singolo di lancio di Maestrale la canzone La luce della luna, una sorta di preghiera alla Natura e all’autoderminazione. Si tratta di due concetti tutto sommato antitetici e tra loro in contraddizione. Siamo abituati letterariamente a dover fare i conti con la Natura matrigna che impone il suo corso delle cose. L’autodeterminazione è invece qualcosa che esula dall’imposizione di una forza esterna. Come siete riusciti a farle convivere in un unico brano?
La chiave di lettura del brano sta proprio nello scontro tra due grandi forze. Da un lato, c’è la forza degli elementi della natura, di fronte ai quali siamo tutti soggetti inermi (e tra gli elementi possiamo annoverare anche la tecnologia, l’innovazione e l’evoluzione). Dall’altro lato, c’è invece la volontà di autodeterminarsi. Come vedi, torna l’immagine dell’uomo che urla al maestrale, il sentirsi piccoli e deboli di fronte a una calamità naturale ma comunque con una gran voglia di scrivere il proprio destino.
Di voglia di autoderminazione e di libertà, quella chimera che tutti inseguiamo e rivendichiamo, cantante anche in Controvento. È una canzone che affila le armi anche contro il sistema culturale, dai mass media all’industria discografica, di oggi, che preferisce non parlare o non scrivere. Da cosa pensate che dipenda questa sorta di mutismo?
In Controvento c’è un approccio lirico che affronta quello che definiamo il problema del contenuto. Oramai è diventato tutto intrattenimento, c’è poca sostanza e non ci soano più i contenuti su cui riflettere, parlare o confrontarsi. È quindi una sorta di allarme nei confronti della vacuità che ci circonda. È compito della cultura e dei suoi agenti quello di ridare centralità al contenuto.
In un paio di canzoni è presente invece il tema dell’amore. Un amore che però non è mai felice: in Lasciame sta è un amore finito mentre in Lupa è un amore incompiuto. Manca del tutto la dimensione della felicità, quella paradisiaca. Come mai?
Da un punto di vista narrativo, crediamo che sia poco interessante raccontare di quando le cose vanno bene, ci sono pochi spunti di riflessione. Noi abbiamo scelto di raccontare qualcosa di positivo che si può riscontrare nel negativo. Quando viviamo sentimenti che hanno qualcosa che non va, si scatena un po’ di contrasto interiore e abbiamo voluto riportarlo nelle canzoni. Anche la letteratura ci insegna che sono più interessanti le storie tragiche che non quelle a lieto fine, sarebbero altrimenti favole. Quindi, è inevitabile che si prendano spunti da episodi negativi.
Dicevamo prima che in Maestrale si racconta di una società affetta da diversi problemi, come ad esempio il disagio mentale, la depressione e lo sconforto. Quanto pensate che abbia influito il Covid in questa deriva che possiamo definire quasi psico-culturale?
Moltissimo. E più di quanto possiamo immaginare. Ci sono delle ripercussioni molti rilevanti che hanno effetto anche su cose meno evidenti di quelle di cui ci lamentiamo. Il problema non è stato il lockdown, il distanziamento sociale, l’uso della mascherina: hanno causato effetti che, comunque gravissimi, sono evidenti. Il problema sono gli effetti nascosti a livello sociale e a livello di crescita personale: li stiamo già pagando e continueremo a pagarli in futuro.
Come band, come avete vissuto il Covid? Immagino siate stati fermi anche voi.
Ne abbiamo approfittato per scrivere il disco in campagna, all’aperto, dal momento che non potevamo stare chiusi in una stanza. Paradossalmente, ciò ha giovato al disco, che parla di natura e di spazi aperti: tutto è nato dalla necessità di avere un sound contagioso. Ma ci rendiamo conto di quanto il Covid abbia influito quando andiamo in giro a suonare: non stiamo vivendo quello che vivevamo prima in termini distensivi. È come se una fetta di pubblico avesse paura di incontrarsi, di confrontarsi: sembra mancare una certa rilassatezza da parte di chi ci segue.
Tra le vostre esperienze passate, mi piace ricordare i concerti che avete tenuto all’interno delle carceri, a cominciare da quello più famoso a Rebibbia. Quanto è importante portare una dimensione di normalità all’interno di una struttura che per sua vocazione nega la libertà?
Per noi è fondamentale. A prescindere dalle esperienze delle persone che si trovano in una condizione di reclusione (sperando che questa sia utile veramente alla rieducazione e al successivo reinserimento), cerchiamo di fornire dei contenuti ma ci viene restituita anche un’esperienza molto forte.
Le parole sono importanti: hanno sempre un peso, un valore e una certa importanza. È in quei contesti che capisci il significato di molte cose che hai scritto con più leggerezza. Spesso il senso delle parole ti torna indietro in maniera imponderabile: in quei contesti di privazione della libertà, ogni parola ha una rilevanza notevole.
In questi anni, abbiamo diverse esperienze all’interno di strutture come le carceri, gli ospedali psichiatrici o i centri per i rifugiati. Sono tutte realtà che sentiamo vicine e sicuramente continueremo a incontrarle. Un’altra cosa che la pandemia ha tolto sono tutta una serie di attività accessorie ritenute meno importanti ma che invece sono fondamentali in contesti di recupero e reinserimento. Ci auguriamo di poterle riprendere presto: noi saremo sempre disponibili.