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Ilaria Martinelli: “Recitare mi ha permesso di vivere in serenità chi sono” – Intervista esclusiva

Ilaria Martinelli, attrice barese, racconta la sua esperienza nel dare vita a Mariangela Spagnoletti nella serie tv Avetrana – Qui non è Hollywood, basata sul drammatico caso dell’omicidio di Sarah Scazzi. Ma rivela anche cosa l’ha spinta verso la recitazione e a guardare con coraggio dentro se stessa per capire chi era.

Incontrare Ilaria Martinelli, giovane attrice barese, ci permette di fare un’immersione profonda nel delicato equilibrio tra realtà e rappresentazione, tra la vicenda umana e il suo riflesso artistico. Il suo ruolo nella serie tv Avetrana – Qui non è Hollywood, dove interpreta Mariangela Spagnoletti, ci conduce al cuore di uno dei fatti di cronaca più drammatici che il nostro paese ricordi: l’omicidio della giovane Sarah Scazzi. Attraverso il suo racconto, emerge non solo la difficoltà di affrontare una storia così complessa e dolorosa, ma anche la sensibilità e l’umanità necessarie per restituire verità a personaggi coinvolti in un dramma che ha scosso profondamente l’opinione pubblica.

Ilaria Martinelli ci porta a riflettere su quanto le storie come quella di Avetrana non siano solo fatti di cronaca, ma narrazioni che toccano corde profonde, paure e fragilità che appartengono a ognuno di noi. La sua esperienza diretta da pugliese, spettatrice di quel circo mediatico che ha accompagnato la vicenda, rende ancora più autentico il suo impegno artistico. Il teatro, così come la televisione, diventano allora strumenti per far emergere l’invisibile, per raccontare ciò che spesso viene oscurato dai riflettori della cronaca: le sfumature dell’animo umano, la fragilità dell’adolescenza e il lato oscuro delle relazioni.

Ilaria Martinelli si è trovata a interpretare Mariangela, un personaggio di cui si sa molto poco, ma che lei ha costruito con una cura particolare, intuendo le dinamiche umane che l’hanno coinvolta. La sua capacità di empatia e la profonda comprensione della vicenda danno vita a una riflessione su come il teatro e il cinema possano, se utilizzati con delicatezza e rispetto, restituire dignità a chi troppo spesso viene ridotto a un’immagine mediatica.

In un’Italia che ancora fatica a fare i conti con i suoi traumi collettivi, storie come quella di Sarah Scazzi ci ricordano quanto sia importante non dimenticare, ma soprattutto non smettere mai di raccontare, cercando la verità oltre la spettacolarizzazione. E alla verità punta da sempre Ilaria Martinelli, come emerge dalla nostra intervista esclusiva la cui unica chiave di lettura è la sincerità. Soprattutto quando si parla di un lavoro, come il suo, che con la sensibilità ha costantemente a che fare.

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Ilaria Martinelli (Foto: Alessandro Raboni; Press: Biancamano e Spinetti).
Ilaria Martinelli (Foto: Alessandro Raboni; Press: Biancamano e Spinetti).

Intervista esclusiva a Ilaria Martinelli

“Mi era arrivato inizialmente il provino per interpretare Sabrina Misseri”, risponde subito Ilaria Martinelli quando le si chiede di raccontarci come ha reagito di fronte alla possibilità, poi diventata concretezza, di prendere parte alla serie tv Avetrana – Qui non è Hollywood, basata sulla sconcertante vicenda legata all’omicidio della piccola Sarah Scazzi. “Essendo io di Bari, si può ben immaginare quale possa essere stata la mia reazione di fronte a una vicenda che da pugliese ho vissuto molto da vicino. Ricordo ancora come si stava incollati alla televisione per seguire tutto quello che accadeva”.

Ti è stato poi proposto il ruolo di Mariangela, la miglior amica di Sabrina.

Una persona di cui ho provato a cercare più informazioni possibili ma di cui ho trovato ben poco. Mariangela è diventata pressoché nota durante la vicenda processuale, dal momento che è stata sentita e interrogata più volte dando agli inquirenti degli elementi poi determinanti per le indagini. Ma su lei ancora oggi non sono disponibili chissà quali dettagli, ragione per cui il regista Pippo Mezzapesa mi ha lasciato un po’ di carta bianca per la costruzione del personaggio, limitandosi a chiedermi un po’ di leggerezza e, soprattutto, umanità.

Dall’idea che mi sono fatta su di lei, ne ho dedotto l’immagine di una piccola donna dalla forte autonomia che si è ritrovata al centro di una triangolazione tra Sabrina e Sarah nel ruolo quasi di “paciere”: protettiva nei confronti della cugina più piccola, cerca di smorzare i toni della Misseri quando diventato un po’ aggressivi o rigidi.

Perché, secondo te, la notizia di un’uscita di una serie tv sul caso Avetrana ha generato così tanto scalpore in rete con orde di commenti negativi di fronte al primo trailer o a un poster che gioca con i toni del grottesco da sempre tipici del regista?

 Al di là dei commenti che si possono generare, sono del parere che storie come quelle di Avetrana debbano essere raccontata. Evidentemente gli animi si scaldano perché si tratta di vicende che ci toccano da vicino affrontando temi che ci intimoriscono. Probabilmente, a sollevare il “basta” popolare può anche essere stata l’eco mediatica, sicuramente eccessiva, che ai tempi ha accompagnato l’omicidio. O, forse, non sono semplicemente piaciuti i toni, non valutando come sin dal titolo il racconto punti il dito contro il tono sensazionalistico e la morbosità che i mass media hanno allora usato.

Ma il taglio della serie tv è invece molto interessante. Intanto perché, finalmente, viene restituita dignità alla vittima. Come spesso accade quando si ricostruiscono o raccontano fatti delittuosi, la vittima era quasi passata in secondo piano e l’attenzione si era concretata più sui possibili colpevoli o su tanti altri aspetti che connotavano il fatto. Sarah, in Avetrana – Qui non è Hollywood, trova il suo spazio venendo dipinta come una quindicenne con tutte le sue difficoltà, senza essere idealizzata o edulcorata. Ci sono tutte le zone d’ombra che l’adolescenza comporta, soprattutto quando si è chiamati a crescere in fretta e ad adattarsi a un’età che non appartiene.

Quando è accaduta la vicenda, avevi diciotto anni. Ne capivi la portata?

Sì, per quanto ci fossero ancora delle dinamiche per me difficili da comprendere. Sono nata e cresciuta a Bari, che per quanto non sia una metropoli ha comunque un ambiente diversissimo da quello di Avetrana, questo piccolo paesino in cui tutti conoscono tutti e parlano di tutti.

Sapevi già che avresti fatto l’attrice?

Non proprio, anche se avevo cominciato molto presto a recitare, al liceo. Frequentavo il classico e tra le varie attività pomeridiane offerte dalla scuola c’era il teatro, ovviamente greco e latino. All’epoca pensavo però che la mia strada sarebbe stata un’altra: due genitori architetti mi avevano convinta a studiare Disegno industriale. È stato solo andando avanti con gli studi che mi sono resa conto di come e quanto il teatro dentro me spingesse verso un’altra direzione: era rimasto il mio principale interesse. Perché continuare dunque a rimandare ciò che già sapevo? L’ho allora detto ai miei genitori, all’epoca non proprio contentissimi della mia certezza, a differenza di oggi che mi supportano e sono contenti della scelta fatta.

Ho ugualmente abbandonato Disegno industriale e mi sono iscritta a Lettere con indirizzo teatrale, a Bari, per poi cominciare a sostenere audizioni nelle accademie e a frequentare corsi e seminari, uno dei primi con Fausto Russo Alesi, artista straordinario sia umanamente sia professionalmente, che ho rivisto con piacere qualche settimana fa a Piacenza per il Festival di Teatro Antico di Veleia.

Il teatro spingeva. E cosa ti dava?

Come ho risposto una volta a Liliana Cavani di fronte al suo chiedersi cosa portasse una persona a voler fare l’attore (“un mestiere terribile”) durante un suo intervento quando ero ancora studentessa di recitazione, su un palco mi concedevo e permettevo l’opportunità di essere tutto ciò che, una volta scesa, non ero per insicurezza e timidezza. Era interpretando qualcun altro diverso da me che riuscivo a tirare fuori aspetti del mio carattere e della mia personalità non frequentavo nella vita di tutti i giorni.

Il teatro mi restituiva un senso di grande liberazione. Per non parlare poi dell’adrenalina generata dall’avere un rapporto così diretto con il pubblico che al cinema o in televisione manca. In base a chi hai di fronte e alla sua reazione, regoli la tua performance.

C’è stata mai una volta in cui hai pensato “No, stasera non vado in scena”?

Onesta? Non mi è mai successo. Però, mi è capitato di arrivare in scena e di pensare di non riuscire ad aprire bocca quando sarebbe arrivato il mio turno di farlo. Come in una specie di vertigine, mi sono chiesta dove fossi ma poi l’istinto della recitazione ha sempre preso il sopravvento. In fondo, recitare a volte è come fare bungee jumping: meno ci pensi, meglio è… se ti fermi a riflettere un attimo, sei spacciato!

Il teatro riempie gran parte del tuo curriculum. Scelta tua o imposta dalle circostanze?

È una scelta che nasce da un bisogno. Ho cominciato con il teatro e rimane quello il mio primo grande amore. Certo, mi interessa il cinema, lo faccio con estremo piacere e spero di continuare a farne anche di più, ma non riuscirei mai ad abbandonare il teatro. Non sarebbe nemmeno un’opzione sana dal punto di vista artistico: il teatro ti dà sempre tanta energia e ti insegna molto sul mestiere dell’attore.

Cosa invece ti ha tolto?

A volte, il teatro riesce a svuotarti tantissimo. La cosa che più mi ha tolto e più mi manca è l’ingenuità nello sguardo. Quando lo vivevo da spettatrice, mi sentivo come una bambina al parco giochi, ammaliata dalla magia che vedevo in scena. Oggi, invece, da attrice ho maturato uno sguardo più clinico e severo, invidiando talvolta il pubblico e le emozioni di stupore che prova: da addetta ai lavori, mi sento come chi ha scoperto i trucchi di un prestigiatore e non può più crogiolarsi nella meraviglia.

A livello pratico, invece, il teatro comporta rinunce e sacrifici. Lavorando anche di domenica, mi ha tolto la possibilità di stare con la mia famiglia… ma emotivamente il teatro mi ha sicuramente dato più di ciò che mi ha tolto.

Avetrana - Qui non è Hollywood: Le foto della serie tv

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Cosa ti ha permesso di scoprire di Ilaria che prima non conoscevi?

Mi ha aiutata a vivere con maggior serenità ed entusiasmo la mia personalità. Tutti mi riconoscono una certa esuberanza anche quando lavoro, un lato di me con cui avevo un rapporto conflittuale e che mi faceva essere anche un po’ sguaiata nel relazionarmi con l’altro sesso. Ho fatto quindi pace con il mio lato comico e ho imparato a non pensarlo come altro da me o staccato dalla mia femminilità e sensualità. Ho dunque compreso che erotismo e comicità possono convivere serenamente alimentandosi anche a vicenda… e l’ho capito lavorando al personaggio di Bridget Jones durante un laboratorio. Realizzarlo, mi ha dato molta sicurezza e portato a vincere tanti miei blocchi.

Che tipo di blocchi?

Personali, soprattutto. La mia irruenza, ad esempio, mi portava anche a scontrarmi spesso a casa con i miei genitori: ho invece scoperto che grazie al teatro potevo incanalarne la forza in maniera diversa. Ma anche il mio rapporto con il mio corpo è migliorato. Bisogna sempre avere un rapporto pacifico con il proprio corpo ma per il lavoro di attore ciò è ancora più determinante: se non lo accetti, ti scontri continuamente con te stesso come se ti autosabotassi. Nel momento in cui invece ne prendi consapevolezza, tutto fluisce più facilmente.

Ho una fisicità molto forte, con un fisico che non è esile, e i primi anni non è stato facile accettarlo. La vivevo malissimo e mi vedevo sgraziata. Accettarmi ha richiesto del tempo e del lavoro su me stessa: i primi tempi in scena non riuscivo a stare dritta, mi chiudevo con le spalle e stavo curva, come se volessi nascondermi e rimpicciolirmi per evitare di sentirmi grande e ingombrante. Ora invece mi apro al mondo: sono così!

Ha questa tua apertura agevolato il tuo lavoro?

Direi di sì. Per un lungo periodo, ho fatto da spalla per alcuni casting ed è stato allora che mi sono accorta come i provini siano qualcosa che iniziano sin dal momento in cui si mette piede in una stanza e non quando si inizia a recitare una scena. Mi capitava di vedere attori che sapevo essere straordinari presentarsi con un atteggiamento sconfitto e altri meno dotati che invece avanzavano spavaldi. Il famoso “credi in te stesso” è valido più che mai quando devi convincere gli altri di essere un bravo attore.

Ilaria Martinelli (Foto: Alessandro Raboni; Press: Biancamano e Spinetti).
Ilaria Martinelli (Foto: Alessandro Raboni; Press: Biancamano e Spinetti).

Ti vedremo prossimamente nelle serie tv Gerry su Rai 1 e Alex Bravo su Canale 5. Action e thriller, due generi che ti permettono di sperimentare tutto ciò che a teatro non fai.

È il motivo per cui mi diverto tantissimo anche con la televisione. Sperimento anche personaggi negativi e mi metto alla prova in maniera diversa, portando fuori ciò che invece a teatro interiorizzo confrontandomi con le mie emozioni.

Hai studiato all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”: il percorso accademico ti è tornato utile la prima volta in cui sei stata su un set o c’era comunque la sensazione di sentirsi smarriti?

È un testo dolente. Sicuramente, non posso dire che quello che ho imparato in Accademia non mi sia stato utile, sarei ingiusta nei confronti di un’istituzione che mi ha dato tanto. Però, in maniera altrettanto sicura, c’è uno strano atteggiamento soprattutto nell’audiovisivo nei confronti sia di chi fa teatro sia di chi proviene dalle accademie: veniamo in qualche modo ‘temuti’: “Sei troppo teatrale ed è un male” mi sono sentita ripetere spesso in passato… Non capivo cosa intendessero ma intuivo che si trattava di un pregiudizio: paradossalmente fatichi per superare tre selezioni ed essere ammessa da una scuola di quel tipo per ritrovarti poi con l’essere considerata, quando esci, un male!

L’Accademia mi ha insegnato molto ma, come spesso accade nella vita, arriva un momento in cui devi metaforicamente uccidere i genitori per essere te stessa. Ho dovuto allora mettere da parte alcune cose apprese e ripartire da zero su altre: nella D’Amico in particolare si lavora tanto sul teatro e poco con la macchina da presa. Ed è un limite grosso perché chi non è mai entrato in contatto con la macchina si ritrova a vivere la prima volta in cui accade un trauma: non c’è più il pubblico vicino ma un occhio che ti scruta e con cui devi entrare in confidenza. Forse un po’ più di pratica non farebbe male per insegnare come muoversi quando arriva il momento di lavorare. Ma, purtroppo, da quando è considerata un’università a tutti gli effetti, l’Accademia ha dovuto sottostare a tutta una serie di standard a cui adeguarsi.

Il primo impatto per me è stato dunque forte. Ho dovuto imparare a confrontarmi da sola non solo con i set ma anche con il self-tape, un mezzo che non permette a noi attori di ricalibrare ciò che siamo in grado di fare in base alle esigenze del regista così come invece avviene con i provini in presenza.

Quanta autodeterminazione ti richiede il lavoro di attrice?

Tanta. Più vado avanti, più mi rendo conto che la forza di volontà gioca una parte importante. In un ipotetico diagramma a torta, occuperebbe una fetta importante al pari della fortuna. Ho visto purtroppo tanti compagni anche di scuola bravissimi non farcela perché è venuta a mancare loro la forza di volontà. Come diceva mia nonna, “volli, sempre volli, fortissimamente volli”: occorre ricordarselo tutte le volte in cui ci si scontra con difficoltà, fallimenti e linee di demarcazione sempre più labili tra lavoro e vita privata che rischiano di condizionarti e spingerti a rinunciare per evitare di sentire addosso la pressione.

Ilaria Martinelli (Foto: Alessandro Raboni; Press: Biancamano e Spinetti).
Ilaria Martinelli (Foto: Alessandro Raboni; Press: Biancamano e Spinetti).
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