Ilaria Pilar Patassini ha da poco pubblicato il suo sesto disco, Terra senza terra (Parco della Musica Records / Egea Music). Con la produzione artistica di Federico Ferrandina, l’album è composto da undici canzoni d’autrice moderne, originali e consapevoli, che affrontano argomenti tra loro vari ma uniti da una consapevolezza unica: ogni parola ha il suo peso e va valutata come tale.
Ce lo conferma Ilaria Pilar Patassini nel corso di quest’intensa intervista in esclusiva dove Terra senza terra è il punto di partenza ma non quello di approdo. Come in un viaggio intorno a tematiche e realtà, sono tanti gli argomenti su cui Ilaria Pilar Patassini fa sentire la propria voce, dai rischi della società liquida di baumaniana memoria alle lotte che in quanto donna si è ritrovata ad affrontare contro i soloni del patriarcato che professano di canzoni al femminile o, peggio ancora, di fragilità tipiche delle donne.
Autodeterminazione e libertà sono forse le parole che più descrivono Ilaria Pilar Patassini e la sua esperienza di cantautrice fuori da ogni schema prestabilito. Dall’esperienza quotidiana di madre all’elaborazione di un lutto, Ilaria Pilar Patassini solca molti mari con le sue canzoni, che si appresta a presentare in tre showcase esclusivi: a Salerno il 20 maggio presso la Mostra “Sguardi” a Palazzo Fruscione, a Roma il 23 maggio all’Uno a Uno – Officina Pasolini presso il Teatro Eduardo de Filippo, e ad Alghero il 26 maggio sull’imbarcazione Andrea Jensen.
Intervista esclusiva a Ilaria Pilar Patassini
“Sono nella mia cucina algherese, davanti al mare: una specie di avamposto privilegiato da dove posso fare interviste e nel frattempo cucinarmi una pasta”, mi racconta Ilaria Pilar Patassini quando le chiedo da quasi apolide dove si trova. “Sono romaninissima, anche se come tutti quanti i romani sono spuria: ho un padre mezzo umbro e una madre mezza pugliese ma che è nata in Costa Rica, in mezzo alla foresta, dove è rimasta fin quando ho avuto 8 anni. Ma sono nata a Roma, in una clinica al Gianicolo. Tramite il mio lavoro, ho sempre viaggiato tantissimo e poi… niente, la vita è un casino e quindi eccomi qui”.
In tema con il titolo del tuo ultimo album, Terra senza terra.
Più che un titolo, è una croce. Ci sono però posti dove mi sento maggiormente a casa: sono i camerini dei teatri, i palchi, la barca rigorosamente a vela e i gate degli aeroporti… cioè dovunque ci sia una sorta di giustificazione al rimando probabilmente o dove io possa portarmi le mie cose in una valigia senza dover attendere ai bisogni di una casa che mi sta sempre un po’ stretta. I miei elementi sono quelli fluidi, l’aria e l’acqua… ecco quindi perché Terra senza terra, come un’accettazione di sradicamento. Quando poi si diventa genitori di qualcuno (ma nel mio caso anche di qualcosa, perché ho un concetto di genitorialità molto ampio e includente), è quel qualcuno che diventa la tua casa.
Genitorialità è un concetto a te molto caro. Il tuo album si apre e si chiude con due canzoni dedicate al tuo essere madre. La prima è una ninna nanna (Antefatto in do minore), la seconda (La tosse del sabato sera)… un’osservazione sul peso di essere madri?
È una canzone che parla di genitorialità in maniera irriverente, sicuramente femminista, nel senso che rivendica tutta una serie di cose descrivendole come verghiana memoria suggerisce “Così è. Punto”.
A parte lo spingerti a rielaborare il concetto di casa, cosa ha portato la genitorialità nella tua vita?
La genitorialità ha portato nella mia vita l’amore: è spaventoso perché è un amore irreversibile. Sono per natura allergica ai rapporti che mi tengono legata e ancorata, devo sempre avere una via di fuga come i gatti. Un figlio, invece, ti distrugge d’amore perché ti fa capire cosa significhi dipendere completamente dal benessere di un’altra persona: è molto di più di un innamoramento verso un partner.
Nelle mie peregrinazioni di proiezioni mi dico che in una prossima vita mi piacerebbe non avere la vocazione che ho adesso ma quella del genitore per poterne fare cinque di figli: veder crescere una persona e aver voglia, soprattutto, di amarla e di educarla è l’atto più politico di tutti. Non esiste un atto più incidente sulla realtà di mettere al mondo un altro essere umano e cercare di darli gli strumenti per essere quello che è.
Mio figlio compie cinque anni a fine maggio. Ha portato molto nella mia vita ma ha comportato anche una riduzione drastica della mia attività: se da un lato è la cosa che più amo al mondo, dall’altra ha esaltato la conflittualità già presente in me rispetto alla femminilità e all’essere donna, che è una croce. Nascere donna è veramente e continua a esserlo scomodo.
E lo dimostrano, cronaca di questi giorni, le dichiarazioni di chi in prima pagina su un noto quotidiano asserisce che le attrici che denunciano le molestie lo fanno per cercare visibilità.
Volevo fare la giornalista e per me la lingua italiana ha un suo peso: i contenuti sono sempre stati il nostro faro ma oggi regna invece la dittatura dei contenitori. Che senso ha quell’intervista in prima pagina? Come la si mette con l’etica? Purtroppo, ai media e ai proprietari dei quotidiani non importa nulla del contenuto: è subordinato alla quantità di like che si possono ricevere per poi avere pubblicità e inserzioni. Siamo diventati tutti consumatori e consumati dalla dittatura dei contenitori.
La mia speranza è che vada avanti quella rivoluzione iniziata che prevede il risolvimento di quella che è la situazione più familiare e cristallizzata (che poi si fonda sul patriarcato) che dopotutto non è che abbia avuto tutto questo successo. Che si stia sfaldando e che si viva un momento di confusione può essere fonte di quella grandissima rivoluzione tesa a ricercare nuove forme più paritarie, inclusive e consapevoli dei bisogni di tutti.
Una sensazione analoga l’ho provata nel leggere tutte le notizie riguardanti la madre che aveva abbandonato il piccolo Enea. Si è messo in evidenza l’abbandono e si è criticata la scelta di una donna, a riprova che la gestione delle donne del proprio corpo, della propria vita e di ogni cosa che fa è passibile di giudizio. E questo è insopportabile. Da un lato quindi notiamo una ribellione in atto da parte del mondo femminile (e fortunatamente non solo di quello) ma dall’altro lato assistiamo sempre alla presenza di giudizio su tutto ciò che le donne fanno: non fanno mai bene perché sono sempre o troppo tutto o troppo niente.
“Sei troppo aggressiva”, ad esempio: sai quante volte in passato durante le registrazioni mi hanno chiesto di far sentire di più la mia fragilità? Ma dove sta scritto che le donne devono essere piccole e fragili?
Hai dovuto lottare parecchio per imporre chi eri?
Ma è ancora così perché si fa fatica a dare autorevolezza alle donne: ancora la chiamano “canzone d’autore al femminile” e questo dice tutto. Basta che in una line up ci sia più di una donna che la connotazione “al femminile” torna fuori. Ma se in un festival ci sono tutti cantautori, attori o artisti maschi si parla mai di “al maschile”? Smettiamola di considerare una cosa esotica la presenza delle donne: le mie non sono canzoni al femminile ma canzoni. Dopodiché sono canzoni da autrice perché sono femmina e non canzoni d’autore: fortunatamente, l’italiano in questo senso ci viene in soccorso. Basta usarlo: è una delle lingue più belle del mondo, se non la più bella.
E non è semplicemente una questione di forma…
È una questione di sostanza. Dare i nomi esatti alle cose mette queste su un piano di dignità e di esistenza. Un meraviglioso poeta siciliano, Ignazio Buttitta, ha scritto un testo bellissimo che ho avuto la fortuna di cantare e incidere: “Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua”. Il nome corretto definisce quindi la realtà: l’avvocata e non l’avvocato, c’è una bella differenza.
In Sicilia si dice anche che “chi ha lingua passa il mare”, evidenziando come la lingua e il suo corretto uso riescano anche a superare gli ostacoli più insormontabili.
Mi torna in mente il bellissimo libro di Nadia Terranova, Trema la notte, una storia che sottolinea quanto l’emancipazione coincida con la possibilità di saper dire le cose e, quindi di studiare e conoscere. E, a proposito di scrittrici (ultimamente sto leggendo moltissime scrittrici ma non lo faccio apposta), in merito a quanto dicevo prima sul piccolo Enea abbandonato dalla madre mi sovviene ora il meraviglioso libro di Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata. Mia madre, un caso di cronaca. La poetessa racconta la storia del suo abbandono e di perché la madre l’ha lasciata neonata a Villa Borghese: pensiamo alla fatica e al dolore di tutte le donne che non hanno potuto godere dell’emancipazione di cui iniziamo a godere adesso.
A proposito di donne, un tuo brano, Niagara, fa un bel parallelismo con una figura femminile mai ricordata: Maria Spelterini, funambola e prima e forse unica donna ad aver attraversato le cascate del Niagara nel 1876.
Ho scoperto la sua storia per caso. Stavo scrivendo una canzone sul funambolismo delle donne, con mille traiettorie tutti i giorni da portare avanti con fatica, e sull’accettazione della perdita del controllo: a un certo punto è importante mollare e non identificare il lasciar andare la presa come un fallimento ma anzi come una ripresa di se stessa. Leggendo, mi sono imbattuta nell’immagine di Spelterini che attraversava le cascate del Niagara bendata: era veramente fortissima e simboleggiava perfettamente quello che stavo componendo.
E non è l’unica donna che ti ha ispirato qualcosa. In In tempo di pace, il riferimento è Tzia Gavina Puggioni.
È morta lo scorso anni a cent’anni. La canzone mi permette anche di riflettere su quanto sarebbe tutto più semplice se ritornassimo a essere umani. Vedo intorno a me due direzioni completamente opposte. Da un lato, si va verso la smaterializzazione delle cose, verso quella società liquida prevista da Bauman in cui si rischia la perdita del rito e della diversità, qualcosa di molto pericoloso per la democrazia. Dall’altro lato, invece, c’è una spinta opposta, meno disumanizzante, che porta soprattutto le nuove generazioni a protestare in maniera forte e con modalità intelligente per rivendicare l’archetipo, i sensi, le radici e l’appartenenza alle cose che si toccano. Mi sembra una bella presa di coscienza del fatto che o si è umani o si resta umani.
Si parla molto di intelligenza artificiale ma è come un coltello dalla lama affilata: si possono fare cose fantastiche ma anche cose mostruose. Non è che non ho fiducia nella tecnologia: non ho fiducia semmai nell’uso che se ne può fare e nella disumanizzazione che può comportare.
In Del dire addio, parli di Pierre, un amico venuto a mancare.
Pierre era il mio editore, il mio produttore ma soprattutto uno dei miei migliori amici. Ci si sentiva spesso ed è stato lui a presentarmi il padre di mio figlio. È scomparso per un malore improvviso che se l’è portato via in pochi secondi. Faceva un lavoro di grande responsabilità per una multinazionale importante e quindi era quasi normale non vederlo per un po’ di tempo perché in giro per il mondo. Sebbene sia stata a salutarlo e alle varie commemorazioni in suo onore, complice anche la pandemia per cui stare lontani era un esercizio normale, non ho elaborato il lutto.
Avevo appuntato il testo nei giorni successivi alla sua morte. Tosca sin da subito mi aveva detto che era già una canzone ma in quel momento ho dato poco retta alle sue parole perché obnubilata dal dolore. Quando si è trattato di comporre il disco, l’ho ripreso in mano ed è arrivata la canzone, la prima di tutto l’album. Ed è allora che ho realizzato che Pierre era morto. È stato terapeutico: ho capito che non mi avrebbe più chiamata… considero la canzone un grande regalo da parte sua perché ha aperto la strada a tutte le altre canzoni che in qualche modo già esistevano ma non vedevo.
Della pandemia nel disco c’è traccia in Le infinite voci del mondo, l’unica scritta in quel periodo.
Mio figlio era piccolissimo, aveva due anni. Ero stata ferma per la sua nascita e stavo per ricominciare a lavorare quando è sopraggiunta la pandemia. Avevo fatto uscire un disco a fine 2019, avevo cominciato la promozione ma poi tutto si è fermato. Come per tutti, è stato anche per me un momento molto duro: a differenza di tanti miei colleghi, non ho scritto nulla ma sono stata con un bambino piccolo e una situazione un po’ complicata a casa.
Non mi voglio però lamentare: sono stata in qualche modo privilegiata perché ho potuto condividere tutto con il papà di mio figlio e con i miei genitori… non siamo stati separati come accaduto a tanti. Abbiamo anche avuto dei lutti in famiglia ma tra Roma e la Sardegna non mi sono mai sentita mancare l’aria: ho la fortuna di vivere in un posto dove avevo a disposizione dello spazio per uscire. Il mio pensiero andava semmai a chi invece doveva lavorare tutti i giorni con lo smart working con dei figli in età scolare a casa.