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“Sono ancora la vostra ragazza sempre”: Intervista esclusiva a Irene Grandi

Irene Grandi sta per partire con il suo nuovo tour, Io in Blues, in attesa di debuttare nell’opera rock The Witches Seed. L’abbiamo incontrata per un’intervista che fa il punto sulla sua carriera, sul panorama musicale italiano di oggi e sulla sua continua voglia di innovazione.
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Irene Grandi comincia il suo nuovo tour, Io in Blues, il 29 giugno da Città di Castello, in provincia di Perugia, per concluderlo il 14 settembre a Milano, al Polimi Fest. Già dal nome del tour si evince la volontà della cantautrice fiorentina di rendere omaggio a un genere che è alla base di tutta la musica moderna, il blues. Non sta a noi descrivere quanto il blues sia stato storicamente, socialmente e culturalmente importante. Basta una sola definizione per comprenderlo: il blues è una madre che tutti accoglie e tutti ama, indistintamente.

Chi conosce Irene Grandi e il suo percorso sa bene che il blues fa parte delle sue radici, della sua stessa formazione musicale e delle sue esperienze sul palco. Nel corso delle serate di Io in Blues è dunque farsi trasportare da un viaggio che accanto a pezzi memorabili che vanno da Etta James a Pino Daniele, Lucio Battisti e Mina, presenta reinterpretazioni di alcuni dei brani più celebri di Irene Grandi, da Bum Bum a Prima di partire per un lungo viaggio, come lei stessa ci conferma in quest’intervista.

“In questo tempo sospeso, difficile, smarrito, ho finalmente ritrovato l’ispirazione tornando alle radici. Da sempre il blues mi risuona dentro, mi emoziona e negli anni della mia formazione ha avuto un grande impatto sul mio mondo musicale e la mia voce. Ho voluto ricordare da dove vengo e ritornare appunto alle radici, sperando così di ritrovare anche io un maggiore radicamento e una nuova forza di reagire”, ha dichiarato la cantautrice.

Ma l’attività di Irene Grandi, da sempre in movimento e in evoluzione, non si ferma qui. Dal 22 luglio sarà la protagonista di The Witches Seed, l’opera composta da Stewart Copelandche mescola sapientemente e sorprendentemente rock e musica d’opera.

Noi, suo pubblico, siamo però in attesa di sentire anche le sue nuove produzioni e, in un momento così confuso dal punto di vista musicale, non possiamo che augurarci che arrivino presto. Forse anche prima dell’autunno, come Irene Grandi ci ha quasi suggerito fuori intervista.

Irene Grandi appartiene a quella generazione che ci piace definire young adult, che purtroppo ultimamente non ha quasi voce nella musica italiana. E di sistema musica abbiamo parlato molto con Irene, consapevole dei cambiamenti in corso ma non per questo arresa a quella liquidità che tanto ha sparigliato le carte.

Irene Grandi, dopotutto, ha sempre affrontato le sfide con una certa dose di coraggio e determinazione. Al binario certo dei treni che conducevano in un’unica destinazione, ha preferito i sentieri di montagna e le novità che comportavano. A partire dal 1994, anno in cui la sua Fuori cambiava per sempre l’immagine delle brave ragazze e apriva le porte a una nuova femminilità, la stessa di cui oggi tante artiste si fanno paladine. Ecco perché, per noi, Irene Grandi rimarrà la nostra “ragazza” sempre.

Irene Grandi.
Irene Grandi.

INTERVISTA ESCLUSIVA A IRENE GRANDI

Il 29 giugno parte il tuo nuovo tour, Io in Blues, mentre a luglio ti attende l’opera rock The Witches Seed. Per una che è in vacanza da una vita, cosa significa tornare a calcare i palcoscenici d’Italia dopo due anni in cui si è stati costretti a rimanere a casa?

È una grande, grande soddisfazione. Fino a ieri siamo stati immersi nelle prove: è bello rivedersi e sentire la gioia di tutti. Finalmente un po’ si riparte: i musicisti son contenti. È impegnativo perché è molto difficile: il settore musicale ha sofferto parecchio la chiusura e adesso molti musicisti sono state costretti a prendere più di un impegno… Già era difficile prima, figuriamoci adesso. Ci vuole veramente tanto amore per questo mestiere. E, quando c’è, non ci si abbatte: si deve però cercare di incastrare tutto, con calendari molto impegnativi.

Al di là dei multipli impegni, mi sembra di capire che siano anche problemi di spazi, soprattutto per chi suona nei piccoli club.

Fortunatamente, suonando all’aperto, in estate siamo più avvantaggiati. Ci sono tantissimi luoghi che vengono deputati alla musica, anche se originariamente non lo sarebbero. Sui locali, invece, la crisi ha pesato fortissimamente e, quindi, immagino che chi voleva ripartire da lì abbia incontrato grande difficoltà. Ed è un peccato: sono i posti in cui si formano i giovani. Ci sono tante richieste ma nel frattempo tanti locali sono stati anche chiusi per la crisi.

A cosa dobbiamo il tuo ritorno al blues? Non è un esordio nel genere.

Direi che non è proprio un esordio. Diciamo pure che è una ripartenza. Avevo voglia di ricominciare dalle radici, seguendo un percorso che avevo un po’ intrapreso già l’anno scorso. La scaletta finale messa a punto, alla fine, mi entusiasma, è divertente: mescola un po’ quelli che sono i miei pezzi del cuore, quelli con cui sono cresciuta e con cui ho formato la mia voce, con le reinterpretazioni dei miei bravi in chiave blues. Nella formazione particolare mi accompagna, spicca un organo Hammond, una grossa presenza fisica sul palco ma con un suono molto particolare e riconoscibile che rinnova i miei brani. Ho scelto quelli un po’ più veloci, un po’ più rock.

Tra i tuoi brani qual è quello che secondo te è venuto più “nuovo” rispetto agli altri?

Ci pensavo giusto l’altro giorno. Me ne piacciono diversi. Devo dire che La tua ragazza sempre sta benissimo con l’arricchimento dell’Hammond. Però, forse quello più nuovo, che rispecchia la sintesi di questa tournée, è Prima di partire per un lungo viaggio, proposto in un mash-up con Roadhouse Blues dei Doors. È curiosa come idea quella di unire le due canzoni: è una cosa, se vogliamo, sperimentale ma è anche molto divertente risentire la mia canzone con quel riff ostinato dei Doors.

Tra i brani dei tuoi primi anni quale invece hai reinterpretato? Io sono un po’ nostalgico: ero, come tanti, legatissimo a In vacanza da una vita o a Bum Bum.

Bum Bum la faccio, anche quella stravolta rispetto all’arrangiamento originale, anche se alla fine era abbastanza rock quella canzone: l’abbiamo scelta proprio perché presentava già accordi rock, leggermente blues.

Le tue canzoni sono senza tempo: andavano bene trent’anni fa, come vanno bene oggi. A differenza delle canzoni del presente, che puntano al qui e ora, i tuoi pezzi sembravano sempre basarsi sul non qui e non ora ma sul sempre e ovunque.

Ti ringrazio: è un bellissimo complimento. Si studiava parecchio in passato rispetto a ora, le canzoni si costruivano in maniera diversa. Oggi si usano tante parole e le canzoni sono frutto di un’esigenza di espressione immediata. Le “nostre” erano un po’ più studiate, nel senso che avevano una loro struttura e un senso melodico, tipico nelle canzoni italiane, che si è un po’ perso ultimamente. La nostra lingua si presta molto alla melodia e questo rendeva le canzoni più longeve, permetteva loro di resistere in qualche modo più a lungo. Oggi, invece, viviamo un momento di rivoluzione e innovazione ma dovremo aspettare per capire quali delle canzoni che ascoltiamo resteranno nel tempo.

Io ho come la sensazione che, a causa della velocità con cui si susseguono, non rimarrà musicalmente nulla di questi anni. Il fatto stesso che la musica sia diventata “liquida” non aiuta.

Per me, non aiuta il fatto che è diventato più facile produrre musica. Tutti si possono cimentare con gioia nel far musica e tutti hanno il diritto di provare a fare musica. Però, non è facile arrivare a quella professionalità che avevano i produttori, magari degli anni Novanta, che erano anche grandi musicisti e persone che avevano una conoscenza approfondita della musica. Si sente un pochino la mancanza di una certa ricerca: oggi mi sembra che le canzoni si somiglino di più una con l’altra mentre prima c’era la ricerca di un proprio stile, di una propria originalità.

I produttori pretendevano molto: le canzoni si facevano e si rifacevano prima che arrivassero a un punto in cui convincessero tutti. Adesso, con il fatto che molti autori sono anche produttori, molti cantautori se la cantano, se la suonano e se la producono. Manca forse un po’ di sano confronto con persone che con la loro esperienza e la loro conoscenza possano rendere le canzoni davvero dei piccoli gioielli.

Oggi quando una canzone somiglia a qualcun’altra si dice che la sta “omaggiando” quando un tempo l’omaggio veniva invece vissuto come plagio e ti lasciava quasi fuori dal mercato.

Il cambiamento è proprio forte. La musica di oggi, essendo appunto così diversa, ha bisogno quasi di qualche appiglio per potersi veramente classificare.

Finisce però con il risentirne tutta l’industria discografica o quello che di essa ne resta.

La cosa un po’ brutta non è tanto che sia una ricerca di innovazione: è giusto che ci sia. Il problema è quando l’innovazione non è tale ma è considerata tale solo perché è seguita dai giovani. In questo modo, si lascia fuori dal mercato tutta un’intera generazione di artisti che hanno ancora tanta voglia di fare. Siamo ancora giovani, tutto sommato, ma ci viene detto che non abbiamo più un linguaggio che piace ai giovani e Non veniamo sostenuti dalla discografia. È un po’ un peccato: magari verremo riscoperti quando saremo decrepiti!

Mi auguro che il cambiamento avvenga molto prima. Non si può stabilire il valore di un artista solo dagli ascolti su Spotify, dove i mille ascolti di una sola persona equivalgono a quelle che un tempo erano effettivamente mille copie vendute fisicamente.

Non si capisce più chi funziona e chi no, perché poi alla fine per i live ti rendi conto che c’è sempre tanta richiesta in giro di artisti ad esempio della mia generazione. Io ho pochissimi ascolti su Spotify, il numero degli streaming è abbastanza basso. Allo stesso tempo, però, sento che c’è un grande rispetto ma anche una grande attenzione da parte del pubblico che vuol sentirmi cantare. Ciò genera confusione: non capisco più chi mi segue veramente, i dischi non solo non si vendono più ma quasi non esistono più. È un periodo abbastanza confuso: anche noi che facciamo musica da qualche annetto in più ci chiediamo se ha senso fare qualcosa di nuovo. C’è qualcuno che vorrà ascoltarla?

In questo momento, penso a uno che sicuramente non si sarebbe adattato a questo nuovo modo di intendere e di fare musica, Pino Daniele. Con lui hai ad esempio realizzato Se mi vuoi, uno dei pezzi più immortali della storia della musica italiana. Un pezzo che anche tra vent’anni sarà sempre evergreen.

Mi auguro che sia così perché è una canzone che sembra non avere tempo. Credo che nel proporre qualcosa di nuovo bisognerebbe non essere sempre per forza rivolti al futuro ma anche guardare da dove si viene.

Oltre a portare in giro per l’Italia Io in Blues, il 22 luglio debutta The Witches Seed, l’opera rock di Stewart Copeland, che definire musical è riduttivo.

La chiamiamo infatti opera rock per rispettare la dicitura che ne ha dato Copeland. Tra l’altro, come definizione, le sta anche bene perché sul palco ci sono anche tanti cantanti d’opera. Si tratta di un esperimento, un progetto piuttosto ambizioso che, con un uso sapiente dell’orchestra e della parte ritmica, permette un passaggio direi naturale dall’opera al rock.

Nell’insieme, potremmo definire tutto molto rock: la musica è tosta e bella spinta ma anche l’argomento è abbastanza rock: parla di streghe o, comunque, di donne che vogliono in qualche modo ribellarsi alle loro situazioni di vittime, che vogliono combattere contro chi le ostacola e che vogliono cercare di sopravvivere alle minacce o alle torture. Parla un po’ di tutte quelle persone diverse che in qualche modo non si riconoscono nella società, nella massa, ma che vogliono però avere il diritto di esprimersi e di esistere. Trovo che sia un tema molto forte e molto attuale, nonostante parli del Seicento.

In più, oltre a quelle di Copeland, ci sono anche delle composizioni di Chrissie Hyndie, la cantante dei Pretenders, grandissima scrittrice di canzoni. I miei pezzi preferiti sono scritti da lei: sono veramente interessanti e con un linguaggio rock contemporaneo, un po’ dark ma molto d’impatto. Tutta l’opera è molto d’impatto: mi piace questo suo aspetto forte. Non è qualcosa che uno si immagini tipico dell’opera: ti arriva dritto come un’emozione forte.

Quanto pensi che sia oggi ancora forte la caccia alle streghe? Quello che è successo negli Stati Uniti con la legge sull’aborto, ad esempio, ci fa ripiombare indietro nel tempo.

Eh, sì: è davvero preoccupante. Parliamo di una conquista recente per la donna che viene subito spazzata via. È molto grave, secondo me, anche dal punto di vista universale: un diritto delle persone viene tolto. Si è parlato tanto del diritto a una morte dignitosa o dei diritti legati all’orientamento sessuale: ognuno dovrebbe avere la libertà di scelta, consapevoli che si può scegliere anche di non praticare. Ma la libertà di scelta deve essere garantita. La scelta, come nel caso dell’aborto, è di per sé già difficile: chi la fa, non la fa senza dubbi o ripensamenti, ma la fa sicuramente soffrendo.

Facendo come negli Stati Uniti, si crea ancor di più ingiustizia sociale. Le donne che potranno permettersi economicamente di farlo andranno nei posti in cui possono praticare l’aborto in maniera sicura. Ma chi non ha questa possibilità sarà costretta a farlo in malo modo, in maniera clandestina e assolutamente anche pericolosa. La legge è ingiusta proprio perché crea anche una maggiore differenziazione sociale, una maggiore discrepanza tra chi potrà fare lo stesso la scelta di abortire e chi no.

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A proposito di differenziazione e di dislivello, c’è la sensazione che le cantanti donne in Italia non siano equiparate ai loro colleghi uomini?

Beatrice Veneziani, direttore d’orchestra ha detto una cosa molto bella. Praticamente, non dovrebbe esserci differenza tra uomo e donna perché un cantante, un musicista o un direttore d’orchestra, diventano come uno strumento. Non si dovrebbe far differenza tra uomo e donna quando si parla di musica: noi siamo tutti strumenti. Non ci si chiede che sesso abbia il trombone o il clarinetto, hanno semplicemente un altro suono. La differenza sostanziale è data semmai dal fatto che gli uomini hanno sempre suonato di più: lo facevano mentre le donne rimanevano a casa a far figli e a crescerli.

Fortunatamente, anche le donne hanno acquisito da qualche punto di vista qualche libertà in più e ottenuto le loro conquiste. Possono permettersi ora di far lavori che cent’anni fa quasi non si sognavano di fare. E le piccole differenze, qualora ce ne siano, spero vengano superate nel tempo. Sempre che qualcuno non ci vieti di cantare, come succede in maniera folle in certi Paesi.

Tu sei consapevole che avresti potuto fare anche l’attrice come mestiere? Io ricordo la tua partecipazione al film Il barbiere di Rio.

Chi lo sa? Ora mi cimento con quest’opera rock che ha anche parti parlate. Effettivamente, mi attira come mondo quello della recitazione, però so che è molto diverso. Il personaggio nel Barbiere effettivamente colpiva: era un po’ assurdo, un po’ onirico. Quando mi capita di rivedere il film, io stessa mi dico “Guarda che ero carina!” (ride, ndr).

E oltre all’attrice hai dimostrato di saper fare anche la presentatrice: hai condotto il Festivalbar.

Ho provato, tra i miei tanti esperimenti, a fare un’incursione anche nel mondo della televisione. Poi le mie scelte un po’ radicali mi hanno portata un po’ fuori dal contesto televisivo. Ma sono stata anch’io a non voler cavalcare l’onda. Da una parte, ho guadagnato libertà, qualcosa che personalmente mi stimola. Dall’altra parte, però, ho perso dei treni che passavano. La libertà ha sempre un prezzo e io sto pagando il mio.

Che prezzo paghi?

Quello di aver voluto andare sempre controcorrente. Ho sempre stupito tutti con produzioni che non c’entravano niente con le precedenti, con spettacoli a volte un po’ sperimentali che sono stati poco seguiti perché comunque troppo strani. Non ho poi mai voluto far parte di grandi agenzie perché non mi piaceva il concetto di come lavoravano e non ho mai fatto da giudice, se non veramente in modo saltuario e all’acqua di rose, nelle grandi produzioni tv. Questo sicuramente non mi ha giovato.

Irene Grandi.
Irene Grandi.

Non hai mai fatto da giudice in un talent ma ti abbiamo vista come coach in The Band, il programma di Rai 1 condotto da Carlo Conti che dava spazio ai gruppi musicali. Sulla carta, aveva tutto l’appeal per rivelarsi un successo. L’accoglienza del pubblico è stata però tiepida. Cosa non ha fatto presa secondo te?

Credo che sia prima di tutto andato in onda in un periodo un po’ sfortunato. Era appena arrivato il sole e la gente il venerdì sera cominciava a uscire, non era attenta alla televisione. In più, è partito sotto l’Eurofestival, per cui tutti i giorni in televisione si vedeva musica. Poi, certo, è stata una prima edizione e, come tale, poteva essere fatta meglio. Forse non è stato azzeccato in pieno il modo di presentare i gruppi, non c’è stata molta attenzione a quello che c’era dietro alla performance finale, alla costruzione.

Ed è un peccato che non si sia potuta organizzare una tournée per questi giovani o qualcosa che potesse continuare a farli crescere. A me piaceva quest’idea, così come quella che non si dovesse percepire il programma come una gara. Avremmo dovuto puntare di più sui gruppi, sulla loro origine, sulla loro provenienza e sulla loro vita anche fuori dal palco televisivo. Non saprei perché non sia andata bene: era un programma con grandi potenzialità.

Può anche non aver giocato a favore la mancanza della diretta e della possibilità da parte del pubblico di decidere le sorti dei partecipanti.

Si, questo era un po’ strano. Sarebbe stato interessante vedere qual era la differenza tra quello che noi avevamo costruito e quello che veniva recepito dal pubblico.

Tornando un attimo al Festivalbar. Quanto manca una manifestazione come il Festivalbar oggi? In tv proliferano tanti emuli con la musica che gira di città in città ma nessuno ha la stessa allure della manifestazione creata da Vittorio Salvetti.

C’erano i soldi per il Festivalbar ma ora non ci sono più. Si vedono in giro tanti programmi musicali ma nessuno è paragonabile al Festivalbar perché rappresentava davvero la vetrina musicale dell’anno in cui andava in onda, sia quella italiana sia quella internazionale. Si aveva la possibilità di ascoltare quale musica provenisse dall’estero e di capire a che punto eravamo noi artisti italiani. Le trasmissioni musicali di oggi sono piene di giovani ma sono autoreferenziali, sono quasi fine a se stesse. Ritorniamo al discorso di prima: gira tutto troppo intorno a internet, ai numeri di Spotify, e mancano i talent scout, coloro che riuscivano a individuare tra le cose emergenti e le cose già emerse cosa valesse la pena programmare.

E dovremmo a questo punto aprire anche un capitolo dedicato alla programmazione radiofonica.

Non s capisce più niente. È vero che i successi si decidono un po’ da soli. Si dice che un successo è democratico: un pezzo piace alla gente che l’ascolta. Però è anche vero che molti dei grandi della musica non hanno sempre avuto successo al primo disco o alla prima canzone: spesso erano degli sperimentatori che avevano bisogno di tempo per essere compresi e che presentavano dei testi impegnati con dei contenuti, cosa che non vedo in questo momento: c’è troppa roba brutta in giro.

Ce n’è troppa e troppa ne arriva il venerdì mattina quando si annunciano a profusione le ondate di nuovi singoli in uscita. Non hai il tempo di metabolizzare quelli della settimana precedente che c’è già una nuova infornata. Ricordo che un tempo i singoli si pianificavano con molta più accuratezza.

I singoli erano il simbolo di un album. C’era tutto un lavoro dietro, più complesso, che si spingeva attraverso il singolo. Oggi, complice il fatto che non esistono più i dischi, si sfornano singoli come se non si fosse un domani: in passato, un album conteneva due o tre singoli, al massimo quattro. Anche perché non tutti i pezzi potevano e possono venir fuori come singoli: c’è bisogno di quelle canzoni che hai bisogno di ascoltare in altri momenti, che ti accompagnano per tutta la vita e che ti fanno conoscere un artista in tutte le sue sfaccettature. Per realizzare un singolo bello, frutto di tante magie, ce ne vuole: se ne fai uno al mese, probabilmente non sono tutti veramente singoli.

Irene Grandi.
Irene Grandi.

Stai lavorando a un nuovo album?

Ho iniziato a scrivere qualcosa, anche se veramente non saprei che cosa farne di questo album. Siamo artisti e chiaramente abbiamo l’esigenza e la voglia di far cose nuove. Però, poi, la domanda è: che ne sarà di noi? Intanto, si suona dal vivo: per fortuna, questa finestra funziona ancora abbastanza bene, la gente ha voglia di sentire la musica. E, poi, magari si spera in qualcosa che ci possa incoraggiare a produrre musica nuova, anche se non sappiamo come fare a trovare buona visibilità in questo momento.

Fino a qualche tempo fa la buona visibilità era Sanremo, cambiato in questi ultimi anni.

In parte, ancora lo è. Ma andare tutti gli anni a Sanremo per poter uscire con qualcosa di nuovo è una cosa abbastanza triste. Prima andare a Sanremo rappresentava la fine di un lavoro, di un percorso che volevi portare al pubblico.

Si veniva etichettati come sanremesi, come se avesse qualcosa di dispregiativo.

Esatto. Si andava con una certa moderazione, non tutti gli anni volevamo andare lì.

Anche se Sanremo con te ha preso una bella svista, rifiutando uno dei tuoi pezzi migliori.

Dici Bruci la città?

Rappresentava un bel cambiamento per Sanremo. Era veramente un bel pezzo di scrittura, sia a livello musicale sia a livello testuale. Se tornassi indietro, con chi ti piacerebbe collaborare?

Tanti, mi vengono in mente Francesco De Gregori e Daniele Silvestri. Tra le ragazze, mi piace Elisa. Ci sono ancora tante figure di artisti con cui sarebbe bello un giorno poter condividere il palco. Anche Cesare Cremonini è uno che mi piace tanto.

Sarebbero artisti a te affini oppure ti piacerebbe il contrasto?

Tutte e due perché è bello sia quando c’è affinità sia quando c’è contrasto. Magari c’è un’affinità musicale ma un contrasto di voci.

Com’era Irene prima di Fuori, la canzone che ti ha fatto conoscere?

C’era una ragazza di tante speranze che voleva fare e che, comunque, si era resa conto che quella che era la sua passione poteva diventare un lavoro. C’era la speranza di far uscire quel tanto lavoro che aveva fatto. Si scriveva dalla mattina alla sera. Per assurdo, ricordo che si scriveva più di ora: si era giovani, non si avevano tanti impegni e non si aveva ancora una famiglia propria da dover gestire. Mi ricordo il forte desiderio che avevo di emergere. Ma accanto alla voglia di fare allo stesso tempo c’era il desiderio di fare delle scelte: sono sempre stata selettiva, non mi accontentavo molto facilmente: mi volevo riconoscere in quello che facevo. Quel primo album doveva essere una specie di mio ritratto.

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Ed è anche quello che ti ha fatto diventare la “ragazza della musica italiana”. Ancora oggi quest’espressione è fortemente legata a te. Sei per noi eternamente giovane.

Penso sia dovuto al fatto che non mi sono invecchiata musicalmente: ho evitato di ripetermi continuamente. E in questo ho sempre creduto molto. Forse non avuto sempre la gloria di altre mie colleghe ma sono rimasta fresca: non ho giocato sulla ripetizione ma sempre sulla sperimentazione. La ricerca e la voglia di non ripetersi sono un atteggiamento secondo me più da giovane! Ed è per questo che mi si vede ancora come una ragazza. (ride, ndr). Ancora io mi vedo tale quando salgo sui palchi tanto che alla fine sono anche un po’ naif. Penso solo alla musica, scrivo, faccio l’opera e mi cimento nelle cose senza pensare alla carriera. Quindi, probabilmente faccio degli errori di strategia. mi vado bene così!

Ma sei rimasta fedele a te stessa. E il pubblico se lo avverte.

I concerti per me sono il momento della verità. Sento l’affezione del pubblico che mi segue: sarà un pochino meno numeroso del passato ma sento quanto la gente è legata a me o a quello che ho rappresentato nei decenni. Quando vedi che le tue canzoni ancora piacciono e che le persone ancora le conoscono, mi viene un tuffo al cuore. I miei sono concerti per un pubblico di tutte le età, per i giovani ma anche per chi continua a rimanere “giovane”.

Io trovo che sia importante che una certa generazione di artisti come la tua continui a far musica. Gli young adult non ci vediamo poi tanto rappresentati da quello che c’è in circolazione. Semplicemente, non ci riconosciamo.

Siamo ancora giovani. Abbiamo voglia di capire e non di appendere il cappello al chiodo e di rimanere a casa. La scaletta di Io in Blues è pensata come un tuffo nel passato per quelli della mia generazione ma anche come un modo per far avvicinare i giovani a una musica che alla radio non si ascolta più perché non è di moda. È importante far capire loro che veniamo da lì: solo così può esserci un vero arricchimento. Io in Blues è dunque un invito a chi ha magari qualche anno in più ma anche a tutti quei ragazzi che dovrebbero conoscere certa musica, specialmente se poi hanno voglia di fare e produrre musica anche loro.

E poi perché, aggiungo io guardando al 1994, Irene Grandi è stata una delle prime a rompere gli equilibri musicali italiani aprendo le porte a un certo modo di cantare rock che sui palchi italiani mancava. Avevamo avuti grandi nomi ma tu hai portato all’Ariston freschezza, irruenza, semplicità, esuberanza, voce e originalità, con canzoni che rispecchiavano veramente ciò che si viveva. Molti giovani oggi pensano di aver inventato chissà che cosa quando in realtà c’è tutto già stato.

Spesso non mi viene nemmeno riconosciuto o non ci si ricorda delle cose che ho fatto. Significa che non se ne sono nemmeno resi conti. Comunque, chi se ne frega! (ride, ndr). In quel periodo si stava aprendo una nuova era per noi donne e volevo proporre qualcosa di nuovo: una donna che sembrasse più contemporanea, soprattutto nel modo di cantare. Non mi sarei mai vista alle prese con una canzone d’amore tutta moine, in contrasto con quello che stavamo diventando. Presentarsi in quel modo era per me il simbolo del passaggio.

C’erano state Loredana Berté e Patty Pravo: sono state loro le apripista, avevano aperto un varco. Io ho continuato il passaggio scegliendo musiche di autori sconosciuti che avessero idee e visioni nuove da proporre. Al di là delle grandi collaborazioni, ho sempre guardato al mondo degli autori emergenti: trovo che abbiano cose più interessanti e fresche da dire rispetto a chi ha già scritto canzoni per 800 artisti e siede sugli allori. Gli esordienti hanno più voglia di rischiare, non è ancora subentrata la routine.

La tua evoluzione è stata costante di disco in disco. Eppure, non sei mai stata un’artista che l’ha fatta pesare sul pubblico con proclami e dichiarazioni.

Mi sembrava una naturale evoluzione. Non ho pensato che fosse una cosa un po’ particolare. Sono sempre andata molto di cuore e mi sono fatta guidare agli incontri che avvenivano. Succedeva tutto in modo fluente ma ho sempre effettivamente cercato anche di valorizzare quei talenti che mi sembravano inespressi. Ho puntato sull’innovazione per provare cose diverse che facessero sentire anche me fresca, giovane e sempre in tiro. Quando ti metti alla prova per davvero, devi cambiare treno, scendere, prendere un sentiero, salire fino in cima e vedere cosa c’è dall’altra parte.

Irene Grandi.
Irene Grandi.
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