Every Human Needs a Human è il titolo della canzone con cui Ismaila Mbaye e i La Scelta si sono presentati in radio e su tutte le piattaforme musicali lo scorso 13 maggio. Il progetto, pensato come ponte di integrazione culturale tra l’Italia e Senegal, sottolinea l’importanza della condivisione e l’aspetto terapeutico legato alla socialità: ogni essere umano è medicina dell’altro.
La canzone di Ismaila Mbaye e i La Scelta è accompagnata da un videoclip diretto da Roberto Scognamiglio allegro, leggero, colorato e sensuale. È stato girato al Paradise Ranch di Borgo Sabotino (LT), un’oasi di 18 ettari in cui vige da sempre il rispetto della natura. Da qui, in un clima di festa, Ismaila Mbaye e i La Scelta hanno scelto di lanciare il loro appello a ritrovare la voglia di andare avanti e di divertirsi, tutti insieme, vicini, e senza distinzioni.
Ogni uomo ha bisogno degli altri uomini è qualcosa in cui Ismaila Mbaye crede da sempre. Di origine senegalese, è conosciuto in tutto il mondo non solo per le sue percussioni ma anche per le sue attività in campo cinematografico, umanitario e televisivo. È partito dall’isola tristemente nota per aver ospitato la “Casa degli Schiavi” per arrivare a Roma, eletta a sua nuova casa.
Ismaila Mbaye sa anche cosa sia il pregiudizio e ha un suo personale antidoto contro un’ignoranza che ancora imperversa nonostante le mille battaglie che tutti i giorni portiamo avanti: se ci fermassimo cinque minuti a conoscere l’altro, cadrebbe ogni barriera, come si svela in questa intervista.
Intervista esclusiva a Ismaila Mbaye
È appena uscito Every Human Needs a Human, il tuo nuovo singolo con i La Scelta. Ci parli del progetto?
Si tratta di una canzone per me importante perché vuole comunicare quanto ogni essere umano possa essere vicino all’altro. Credo che sia importante ribadirlo ancora di più in questo momento, in cui tanti esseri umani stanno purtroppo perdendo la loro umanità: è importante essere vicino all’altro. L’altro può essere anche un familiare, un vicino, un amico. Quanto spesso chiediamo loro come stanno o qual è il loro stato d’animo? Viviamo in un periodo in cui tante persone si sono suicidate per solitudine, uno stato dettato da rapporti umani quasi inesistenti e definiti da tante, troppe variabili.
Non facciamo mai caso alla solitudine, siamo così presi dalla nostra confusione e dal nostro caos da non accorgerci nemmeno di chi ci sta accanto. Nonostante la tematica e l’argomento cantato, Every Human Needs a Human sceglie come chiave di espressione l’allegria. È una canzone molto allegra, frutto di contaminazioni che arrivano da entrambe le sponde del Mediterraneo, dall’Africa ma anche dall’Italia. Come nasce la collaborazione con La Scelta, la band romana?
Every Human Needs a Human era una canzone che avevo da un po’ di tempo nel cassetto. Incontrando i La Scelta, ho capito sin da subito che ben si adattavano al progetto. Quando scrivo dei brani, non mi interessa scegliere dei nomi altisonanti con cui collaborare: mi piace di più suonarli con chi meglio si adatta al progetto e lo fa suo, chi ne comprende anche l’esigenza.
Li ho conosciuti lavorando per Ron, che mi aveva chiamato per registrare le percussioni afro in una sua canzone. I La Scelta sono la band che suona con lui e che lo accompagna durante i concerti. Abbiamo poi registrato Every Human Needs a Human in studio senza neanche averla mai provata prima. Ci siamo guardati e abbiamo cominciato a suonare: c’è stata sin da subito un’energia positiva che ci ha accomunati. Era come se ci conoscessimo da tanto tempo prima. E ciò sottolinea quanto dico spesso: la musica è la prima lingua di ogni popolo. Attraverso la musica, si può comunicare anche con chi non si conosce e non parla la tua stessa lingua.
Un concetto tra l’altro ribadito anche nella canzone quando si canta che tutti amano il sabato sera, invitando a guardare non alle differenze ma a cercare i punti in comune.
Il sabato sera è qualcosa che accomuna tutto il mondo al di là delle latitudini. È arrivato il weekend, la gente non lavora e inizia a essere più allegra. Tutti si preparano per trascorrere al meglio la serata. C’è chi poi va a mangiare fuori o chi va a ballare. Accade in Senegal ma succede anche in America o in Italia: vale per tutti lo stesso spirito. Ho voluto ricorrere a questa chiave di lettura perché comunque il sabato è davvero un giorno che tocca tutti quanti, tutti i Paesi.
Every Human Needs a Human avrà un seguito?
È quello che mi auguro. Il progetto non può fermarsi e con i La Scelta stiamo già pensando di fare altre cose insieme, che magari sveleremo in futuro. In questo momento, lasciamo che la canzone diffonda il suo messaggio. È importante dare un messaggio positivo anche in maniera leggera: ascoltandola, vi renderete conto che è un brano ballabile ma che allo stesso tempo invita a riflettere. Dopo due anni di pandemia, in cui siamo stati chiusi due anni anche con il cuore, è arrivato il momento di ripartire. Che Every Human Needs a Human diventi un inno di ripartenza per tutti quanti!
Mi permetto di aggiungere che è anche un pezzo accompagnato da un video molto sensuale, in cui il linguaggio del corpo ha un certo valore e trasmette proprio l’idea di liberazione.
L’idea era quella di toccare ogni aspetto della vita: la sensualità, il ballo, il pensiero. La vita non si ferma solo dove crediamo: bisogna aprirsi e cercare di rivedersi, affrontarsi, abbracciarsi, festeggiare insieme. I colori e i toni servono a ricordare alla gente che la vita è bella e occorre viverla bene.
Tu vivi in Italia da tanti anni. Come ti ha accolto il nostro Paese?
Mi ha accolto bene, sono sempre stato bene qui. Ho lasciato il Senegal da giovanissimo e ho vissuto per un po’ di tempo a Parigi prima di trasferirmi a Roma, dove vivevano già alcuni miei amici. Sono stati loro a chiamarmi per riformare il gruppo musicale che avevamo in Senegal, all’isola di Gorée, dove sono nato. Non appena arrivato, mi sono innamorato dell’Italia e di Roma e ho deciso di rimanere. In tanti mi chiedono come mai abbia scelto Roma invece che Parigi. La risposta è semplice: mi sono trovato meglio qui.
Ti è mai capitato di avvertire diffidenza o pregiudizi intorno a te?
Si, i pregiudizi ci sono sempre, li si avvertono ogni giorno. Però, sono uno che non ci fa caso. Me li lascio scivolare addosso e cerco di andare avanti. Credo che il razzismo esista solo perché non ci conosciamo bene. Se tutti ci conoscessimo, nessuno sarebbe razzista verso l’altro. È la paura del diverso che porta la gente a giudicare o a pensare male dell’altro. Basterebbe invece fermarsi cinque minuti per conoscerlo: magari l’altro ti cambia la vita. Alla fine, il razzismo è solo ignoranza.
Il tuo percorso artistico ti fa essere più fortunato di altri, di chi ogni giorno si trova ad affrontare mille difficoltà anche contingenti?
Non ti credere. Conosco bene anche l’altra realtà. Spesso mi sono messo nei panni degli altri e ho anche scritto un racconto che parla di quello che capita a loro, si chiama Questo è un racconto. La musica sì mi ha aiutato ma tanti miei amici fanno fatica a integrarsi, nessuno li guarda.
In Italia hai intrapreso sia la carriera di musicista sia quella dell’attore. Ti abbiamo visto recitare in diversi film ma mi piace ricordarne due che in maniera diversa affrontano il tema dell’immigrazione. Da un lato c’è Tolo Tolo di Checco Zalone, che lo fa in maniera dissacrante e comica. Dall’altro lato, invece, abbiamo Nour, dramma che nasce dall’esperienza di Pietro Bartolo. Tu stesso sei un immigrato in prima persona. Che rapporto hai oggi con la tua terra di origine, il Senegal?
Un rapporto bellissimo. Mi divido tra il Senegal e l’Italia in cui vivo. Torno in Africa almeno due o tre volte all’anno per progetti musicali o di beneficienza ma anche per tornare a trovare la mia famiglia e per portare un po’ dell’esperienza che ho trovato dall’altra parte del Mediterraneo.
Rappresenti per i tuoi conterranei un esempio da seguire?
No, non voglio essere un esempio per nessuno. Però, mi piace condividere le esperienze che ho acquisito in giro per il mondo. Mio nonno mi diceva sempre di non avere paura di imparare ciò che di buono offrono gli altri. Io quel buono l’ho sempre preso, fatto mio e messo nei miei bagagli: mi è servito durante il mio percorso.
Molti giovani senegalesi non hanno avuto la mia stessa fortuna. Quindi, la mia umanità mi porta a condividere la mia esperienza con loro e con i giovani africani in generale. Voglio che siano portati a credere che, anche rimanendo a casa loro, posso aiutare a far crescere il loro continente, il loro paese africano.
Noti delle differenze rispetto a quando sei andato via la prima volta?
C’è un po’ di cambiamento. Adesso con la globalizzazione, tutto il mondo è connesso. Tuttavia, non sono sempre cambiamenti positivi: tante tradizioni e persino il linguaggio, in molti Paesi, si stanno perdendo. Trovo invece che la cosa più importante sia mantenere le proprie tradizioni perché comunque sono le nostre radici. Le dobbiamo preservare così come dobbiamo preservare le nostre differenze umane, quelle che ci arricchiscono a vicenda.
Tu hai iniziato a suonare da professionista a 15 anni, eri giovanissimo. Quando sono nate in te la passione e la dedizione per la musica?
A 15 anni suonavo come professionista per un gruppo che si chiama Africa Djembe nell’isola di Gorée. Il luogo in cui sono nato è stato considerato per molto tempo il punto più strategico dell’Africa: fu per secoli il centro da cui partivano tutti i neri catturati nel continente. La famosa “Casa degli schiavi” si trova lì, il punto di partenza di quelli che erano sempre viaggi senza ritorno.
Mia madre, però, mi racconta sempre che già all’età di cinque anni giravo per la cucina e che suonavo tutto ciò che poteva produrre un suono, dai mestoli alle pentole. Non si è dunque mai stupita del fatto che da grande sono diventato un percussionista, un musicista: la musica è sempre stata dentro di me e pian piano è esplosa.
Dietro alle percussioni africane c’è dietro una grandissima filosofia di vita, che bisogna conoscere e far conoscere agli altri. Il desiderio di girare il mondo è nato per far conoscere la mia cultura e per cercare di unire il mondo. Sono sempre stato una persona pacifista: ecco perché credo che la musica sia la prima lingua di ogni popolo e che la si possa usare per far incontrare tutti i popoli su un unico linguaggio. La musica e, in generale, l’arte sono i mezzi, gli strumenti per portare pace in questo mondo. Ci ho sempre creduto e sempre ci crederò.
Cosa significa per te e che peso comporta?
È una cosa a cui non penso mai: credo di fare il mio dovere così. Attraverso la mia arte o la mia musica cerco sempre di dare un messaggio positivo e di far incontrare la gente. Credo che sia il compito di noi artisti: non dobbiamo solo fare musica allegra o far ballare la gente. Dobbiamo anche aiutare l’uomo a liberarsi di tante cose inutili.
Hai alle spalle anche tantissima esperienza televisiva. Basta ricordare i dieci anni passati a suonare nel programma Alle falde del Kilimangiaro con la conduzione di Licia Colò, dove hai fatto incontrare la musica di tre continenti differenti. Non ti sei limitato a portare del tuo ma hai anche portato altre realtà. Penso ad esempio al lavoro fatto con le percussioni latine.
Io venivo dall’Africa e non ero aperto a così tanti generi musicali, la mia esperienza si limitava alla musica tradizionale africana. In Italia, in una trasmissione televisiva così importante, ho imparato gli altri generi e le altre sonorità del mondo. Mi sono poi messo a studiare altri tipi di percussioni per integrarle alla band che per tanti anni è stata la locomotiva del programma. Dopo le dieci edizioni di Alle falde del Kilimangiaro, ho continuato a lavorare molto in Rai, con Giorgio Panariello ad esempio in Panariello sotto l’albero o con Mika in Casa Mika.
Quanto studio c’è dietro le percussioni?
C’è tanto studio e tanto sacrificio, così come per tutti gli altri strumenti musicali e per tutta l’arte. L’importante è che ci sia l’amore per quello che si fa, il resto passa in secondo piano. Se ami ciò che stai facendo, ogni giorno continui a starci dietro, a svilupparlo, a sudare, a creare… Le percussioni non sono strumenti facili: ci sono le note, un modo diverso di mettere le mani a seconda dello strumento e un modo diverso di suonare.
Non è semplice ma non è neanche difficile. Mi è capitato di fare degli stage, uno in particolare chiamato Percussionando. Giro d’Italia a tempo di musica!. Girando tutta l’Italia, invitavo la gente a uscir di casa e a portare con sé qualsiasi percussione avesse: io insegnavo loro come suonarla o, comunque, come mettervi le mani sopra. C’è stato chi pensava che non avrebbe mai suonato il djembe o le percussioni in generale e si è portato invece a casa due o tre brani!
Quali impegni ti aspettano adesso?
Per adesso, la promozione di Every Human Needs a Human sia in Italia sia all’estero. Vogliamo che il messaggio arrivi in tutto il mondo. Poi sarò in tour con le varie band con cui collaboro. Il 9 giugno, invece, mi esibirò alla Casa del Cinema nell’ambito della rassegna S-cambiamo il mondo, organizzata da DUN-Onlus e a cura di Barbara Massimilla.