Isotta. Tenete bene a mente questo nome perché a TheWom.it siamo convinti che ne sentirete parlare sempre più spesso e sempre più in termini lusinghieri. Basta ascoltare il suo primo disco, Romantic Dark (Women Female Label & Arts/Artist First), per capire sin da subito di essere davanti a una cantautrice la cui scrittura non somiglia a quella di nessun altro.
Non è un caso che di lei si sia accorta Musicultura, tributandole due importanti premi: quello della critica e quello Afi, l’associazione dei fonografi italiani. La musica di Isotta è qualcosa che viene dentro: viene dal profondo dell’anima, da quella parte in cui vivono e convivono tutte quelle paure con cui temiamo di confrontarci. Sono le paure della vita stessa, quelle che hanno lasciato profonde cicatrici dentro di noi e che difficilmente dimentichiamo.
Legami umani, fragilità, violenza e ricordo di un tempo in cui era felice sono alcuni dei temi che Isotta affronta nelle sue canzoni. Ma anche nella quotidianità, impegnata com’è a ricercare quell’altro lato di se stessa che ancora non conosce. Ce lo canta in Io, il brano forse più ipnotico di tutto Romantic Dark, una canzone che una volta ascoltata si insinua nelle pieghe del cervello e non va più via.
Quello che colpisce di Isotta è la sua vulnerabile forza. Dietro a ogni canzone, ripercorre esperienze che hanno lasciato il segno. Una su tutte, il bullismo di cui ha sofferto da bambina e di cui canta in Palla avvelenata, con un testo che dovrebbe far capire a ognuno di noi quante sono le ferite che una battuta, travolta pronunciata con leggerezza, provoca. Ferite che non si rimarginano e che lasciano il segno.
Isotta vorrebbe riabbracciare la bambina che era, come ci racconta in quest’intervista esclusiva che restituisce il ritratto di una giovane donna moderna il cui apparire è solo un contorno dell’essere. Ha appena aperto uno dei concerti di Madame e ha avuto modo di capire come la sua musica arrivi a chi ha voglia di ascoltare qualcosa che faccia pensare o riflettere. Ma è anche reduce dall’apertura dei concerti di Simona Molinari, un’artista che per Isotta si è rivelata di fondamentale importanza per capire che anche nel mondo della musica esistono isole felici.
In radio, in questi giorni, è arrivato il suo ultimo singolo, Cryptocornuta. E come al solito è accompagnato da un video suggestivo che fa parlare il testo come in un racconto di Edgar Allan Poe. E il riferimento al maestro dell’horror non è casuale: l’horror è uno dei generi preferiti di Isotta perché si insinua tra le pieghe dell’anima, proprio come le sue canzoni.
Intervista esclusiva a Isotta
È appena uscito Cryptocornuta, il tuo nuovo singolo. Cosa racconta?
Cryptocornuta è un brano che racconta di una storia autobiografica. Tutte le volte che ci innamoriamo, ci aspettiamo che i nostri sentimenti vengano ricambiati dall’altra persona. Ci aspettiamo trasparenza, sincerità. Cryptocornuta parla di quando queste sicurezze ci vengono a mancare e siamo un po’ costretti a fare i conti con noi stessi, con gli errori che abbiamo fatto (perché magari di errori ne commettiamo pure tanti) e con l’altra persona.
Ho vissuto l’esperienza delle corna come se fosse un viaggio interiore. È stata un’esperienza dolorosa però anche molto feconda: mi ha dato l’opportunità di capire tante mie sfaccettature, di smorzare la mia gelosia e di ragionare sul termine fiducia. Il video della canzone è girato in bianco e nero: il bianco rappresenta la fiducia mentre il nero il tradimento. Tra la fiducia e il tradimento, si collocano tutte le varie sfaccettature che ci sono in ogni relazione.
A guardare il video si viene trasportati in un’atmosfera à la Edgar Allan Poe. Accade un po’ in tutti i tuoi video che ci siano atmosfere horror, gotiche e/o fantasy. Forse perché ricordano gli orrori che tutti quanti abbiamo dentro, che viviamo e trasferiamo in altri immaginari?
Metto in musica ciò che non riesco a dire altrimenti. Ho iniziato a farlo quando avevo all’incirca quattordici o quindici anni, da quando ho iniziato a voler scrivere e a voler cantare parole mie. E la componente horror è data dalla parte che noi non conosciamo di noi: quella parte che se la conoscessimo non ci farebbe paura. E, poi, sono un’appassionata di horror: probabilmente ha influito nel cercare di restituire quella dimensione ai miei video e di dire la mia.
Nel caso di Cryprocornuta abbiamo una vera e propria storia all’interno del videoclip, non sono immagini scelte a caso per accompagnare la canzone. Posso chiederti perché cryptocornuta?
Crypto sta per nascosta. Che ero cornuta lo sapevo solo io, oltre alla persona con cui stavo e le mie amiche più strette ma senza che me lo dicessero. Infatti, nella canzone a un certo punto si dice che gli amici sono bravi ma anche tremendi: se sanno una cosa del genere e non te lo dicono, ti uccidono.
Cryptocornuta fa parte di Romantic Dark, il tuo album d’esordio entrato nella lista dei finalisti del Premio Tenco. L’album si apre con Romantic Intro, che è una specie di manifesto del tuo essere cantautrice. In quei pochi minuti di introduzione, dici una cosa che non è scontata: non è la tua musica che appartiene a te ma sei tu che appartieni alla musica. Ci spieghi meglio questo concetto?
Mi sento più io al servizio della mia musica e delle mie canzoni piuttosto che il contrario. Sono dipendente ciò che scrivo. È un po’ come il ritratto di Dorian Gray: sono più loro la verità che io. Tanti quando mi incontrano mi dicono che sembro una persona molto solare: se io riuscissi con l’estetica o con altre cose a dimostrare ciò che sono, la mia anima romantica dark, non mi servirebbero la musica o i videoclip. Avendo la possibilità di associare immagini e musica, cerco di sfruttarla per portare l’ascoltare o lo spettatore in una dimensione più vicina a quella che ho immaginato io.
Uno dei primi singoli estratti dall’album è Io, una canzone che difficilmente ci si toglie dalla testa. È quasi una seduta terapeutica in cui ci si confronta con se stessi e con le maschere che si è costretti in qualche modo a portare. Chi è io? Chi è Isotta?
Io è una ricerca, un viaggio interiore teso a conoscere quell’isola che sono io stessa. Per farlo mi avvolgo di ciò che riesco a ricordare di quando ero bambina. Quando penso a me, mi sento come su una barchetta in mezza al mare, come si vede nel videoclip. La musica è l’unico modo che ho per ricercare e raggiungere l’altro lato di me stessa. Nella mia ricerca cerco di dare uno schiaffo alle maschere che ho indossato e di buttarle giù ma non so se sono riuscita a farlo del tutto: la musica è però la strada giusta.
Io racconta di quell’energia che ti spinge a intraprendere un viaggio verso se stessi, ad andare oltre e a far crescere quella forza utile a far cose altre rispetto a quello che stai già facendo.
Il confronto tra l’Isotta adulta e l’Isotta bambina è molto presente nelle tue canzoni. A volte, gli anni da bambina hanno una dimensione idilliaca, come in Doralice, mentre altre volte hanno una dimensione più sofferta, come in Palla avvelenata. Perché il passato è così radicato in te?
Ho scoperto anch’io riascoltando il disco che c’era molto di me bambina. Me ne sono accorta dopo che era finito. Parlo molto di giostre, di luna park e di parco giochi. In Doralice, soprattutto, racconto la nostalgia dell’infanzia. Io sento di dover tanto alla Isotta bambina per il bullismo, di cui racconto anche in Palla avvelenata, che ha subito. È come se la stessi coccolando in questo momento con il disco, è come se cercassi di farla rivivere.
Se c’è una forte nostalgia, è figlia della ricerca che facciamo in età adulta delle sensazioni così immediate, spontanee e genuine che avevamo quando eravamo bambini. Sensazioni degli anni in cui avevano poche maschere e non eravamo costretti a indossarle per sopravvivere. Ora invece siamo oppressi da tutti gli “psicofarmaci” di cui parlo in un’altra canzone. Gli psicofarmaci non sono le medicine, ovviamente, bensì i costrutti mentali, le convinzioni, le maschere… i castelli di sabbia che la mente crea per cercare di star meglio e andare avanti senza farti sentire il peso della vita.
Abbiamo citato tra le righe l’argomento al centro di Palla avvelenata. Affronta in maniera forte il tema del bullismo e del body shaming. Rivivi un’esperienza legata al tuo passato. Col senno di poi cosa diresti a quella bambina che veniva bullizzata perché “grassa davvero”, come canti tu?
Mi sentirei solo di abbracciarla. A volte, mi soffermo a pensare a come si potrebbe risolvere un problema del genere. È inutile dire a una bambina, come fanno i genitori o i parenti con le migliori intenzioni, “sei bellissima, non ti creare problemi”. È una frase che funziona quando il tuo sguardo è rivolto solo alla famiglia ma non quando è rivolto all’esterno. Se l’esterno ti dice tutt’altro, è inutile che in famiglia ti dicano che va benissimo così.
Una bambina non ha la maturità per capirlo: dovrebbero averla gli adulti e dovrebbero trasmetterla agli altri ragazzi, dedicando anche a scuola un paio di ore per affrontare il problema. Per carità, va benissimo la geografia, la storia e tutto quello che vogliamo, ma una o due ore a settimana dovrebbero servire per affrontare certe tematiche e sdoganarle. Sarebbe opportuno che i ragazzi ne parlassero e affrontassero il problema sin da piccoli.
Ma il bullismo legato all’aspetto fisico si manifesta anche in circostanze o situazioni che non ti aspetti. Ricordo un’intervista di qualche tempo fa in cui mi è stato chiesto: “Hai avuto il tuo riscatto? Ora sei bellissima e magra”. L’associazione magrezza con bellezza crea già differenze. E che lo dicesse un uomo la dice lunga su quanto ancora ci sia da lavorare. Ancora oggi, i chili in più o in meno diventano una discriminante quando invece non dovrebbe essere assolutamente così.
Per me bambina l’aspetto fisico era un problema enorme. E probabilmente mi porterò a vita le conseguenze di quello che ho vissuto dai 5 ai 14 anni quando cercavo di proteggermi e prevenire gli atti di bullismo rinchiudendomi in me stessa e in casa. Come dimenticare che non volevo più nemmeno andare a scuola? Me lo ricorderò sempre, è qualcosa che non scordi mai. Così come ti porterai sempre dietro i problemi legati all’alimentazione: non te ne liberi mai.
Crescendo, hai poi scoperto l’amore e i rapporti complicati con l’altro sesso. Affronti nelle tue canzoni il tradimento come in Cryptocornuta, di cui abbiamo già parlato, ma anche il revenge porn in Pornoromanza e l’amore tossico in Bambola di pezza. Nascono tutte da esperienze personali?
Pornoromanza non è autobiografica ma ho voluto parlare di revenge porn perché è un argomento che mi sta particolarmente a cuore. Non ho vissuto quella storia ma ho cercato di immaginarla. Bambola di pezza, invece, parla anche di violenza in amore. La canzone è un invito a innamorarsi della propria rivoluzione.
Quando vivi un amore tossico e sei ancora dentro alla relazione, non ti rendi conto della tossicità, nonostante le persone intorno te la facciano notare. Quando poi invece ne prendi coscienza, riesci a divincolarti e a scappare via, ti dà molta soddisfazione. Mi è capitato: solo dopo ti innamori di te e del tuo esserti ribellata. E, quindi, ti piaci. La prossima volta che ricapiterà una situazione simile, ti ribellerai prima perché comunque sentirai che fisicamente ti dà soddisfazione.
Psicofarmaci, che hai citato prima, e Tecniche di sopravvivenza sono due canzoni che in qualche modo comunicano tra di loro. Che la seconda racconti ciò che serve per sopravvivere alla condizione affrontata nella prima?
Tecniche di sopravvivenza è un po’ di filosofia spicciola sul come sopravvivere oggi. Un vademecum su ciò che potresti fare per stare meglio.
Ma è anche la canzone in cui dici “Non sono brava a mettermi da parte e a far finta di crescere”.
È un verso che ricorda come spesso ho avuto accanto persone che non appoggiavano per nulla quelle che erano le mie aspirazioni artistiche. Avvertivo da parte loro una certa resistenza e non l’accettavo. Ho accettato diverse cose, sono stata molto paziente, ma non sopportavo che venisse meno la fiducia sulle mie possibilità di far musica. Mi sembrava una grossa mancanza di rispetto nei confronti della mia persona. Ecco perché non mi metto da parte: preferisco semmai mettere da parte chi non mi appoggia, soprattutto se non appartiene alla mia sfera familiare.
È un argomento di cui si parla anche in Ti amo ma ho da fare: non mi togliessero tempo per scrivere, per stare un po’ da sola e impegnarmi con la musica. È una scelta molto categorica. Arriva un momento in cui devi abbandonare le situazioni che non ti fanno stare bene e in cui ti ascolti un minimo: si ribella la tua parte più interiore.
Tutte le tue canzoni hanno dei messaggi molto forti. Anche quando il motivetto è accattivante, il testo parla di qualcosa che ha molto significato. Quanto il tuo tipo di scrittura, oltre che per te stessa, può essere terapeutico anche per chi ascolta le tue canzoni. Hai avuto difficoltà nel proporre all’industria musicale il tuo progetto? Hai mai pensato a un talent?
Con il tempo sono stata abbastanza fortunata. Ma inizialmente non riuscivo a trovare chi mi desse la possibilità di fare un disco, una casa discografica o un’etichetta. Per noi donne il mondo della discografia è un disastro: quando ti presenti, non vieni nemmeno considerata. Se poi hai superato anche i 25 anni, sei già fuori mercato. Non sono la persona adatta a un talent. Mi sono avvicinata una sola volta a quel contesto presentandomi alle audition di X Factor ma ho capito che non faceva per me.
Ma sono stata fortunata nel trovare dopo un’etichetta tutta al femminile che mi ha dato tanta fiducia. Così come nel trovare autori con cui collaboro con cui sono in sintonia: per esempio, Pio Stefanini, con cui ho collaborato soprattutto per quanto riguarda le melodie. Abbiamo condiviso molta vita quotidiana, ho parlato molto della mia vita quotidiana facendo sì che mi capissero per scrivere qualcosa ad hoc per me.
Per quanto riguarda i temi che affronto mi sarei aspettata molta più diffidenza. E invece ho avuto un riscontro bellissimo. Noto che tra gli addetti ai lavori c’è grande rispetto verso il mio progetto. L’ho apprezzato tantissimo perché il disco è come se fosse mio figlio. Vederlo trattato bene da persone che non conoscevo prima ma che se ne intendono molto di musica mi infonde fiducia e mi rende felice. Così come mi rende felice il Premio della Critica “Targa Piero Cesanelli” a Musicultura, che mi hanno detto essermi stato assegnato all’unanimità. Certo, le mie canzoni non arrivano subito o non arrivano a quell’ascoltatore che cerca solo divertimento. Dico sempre che dovranno eventualmente trovarlo altrove.
Sei appena reduce dall’apertura del concerto di Madame e di diversi concerti di Simona Molinari. Che esperienze sono state?
Aprire il concerto di Madame mi intimoriva. Temevo la reazione del pubblico ma, fortunatamente, il feedback è stato positivo. Ma quella con Simona Molinari il 14 luglio a Bollate è stata la prima apertura in assoluto che ho fatto. È stata un’esperienza pazzesca, ben diversa da quella che avevo vissuto su altri palchi: è stata una grande fortuna trovare Simona Molinari, un’artista ma anche una persona eccezionale. È stata super disponibile con me, mi ha aiutato a capire come presentarsi su un palco e mi ha dato parecchi consigli. In questo mestiere, i rapporti interpersonali sono fondamentali e ti insegnano tanto: trovare persone come Simona è un grande piacere.
Che progetti hai per il tuo futuro? Cosa verrà dopo questo tuo primo disco?
Voglio vivere con la musica. Vedo che è molto impegnativo ma quando qualcosa viene fatto con passione non temi la fatica. O, comunque, la senti poco: più c’è da fare, più sei contento.
Ti saresti aspettata il Premio della Critica e il Premio Afi a Musicultura e di rientrare nella shortlist del premio Tenco?
È stato tutto totalmente inaspettato. Né io né il mio produttore avevamo idea di niente. Non mi sono mai interessata ai premi, ero anche un po’ ignorante in merito.
Ricordo che ero in radio quando mi è stato detto che il mio nome era nella shortlist dei candidati al Premio Tenco come miglior artista emergente. Ma non sapevo cosa significasse realmente essere in quei cinque nomi o quanta importanza avesse essere selezionati tra centinaia e centinaia di artisti.
E a Musicultura sono stata presa alla sprovvista quando hanno detto che ero io la vincitrice del premio della critica. Credo che sia visto anche in tv. Vedevo tutti sorridenti ma non capivo il perché. Ho pian piano compreso cosa è accaduto solo quando Chiara Civello ha fatto dei passi avanti verso di me.
E se ti dovesse capitare davanti l’ipotesi Sanremo?
Non vado. Scherzo, ovviamente: figurati se direi mai di no.