Ivan Boragine sarà al cinema dal 12 marzo tra i protagonisti del film Il diavolo è Dragan Cygan, opera prima di Emiliano Locatelli, una storia di amore e amicizia che ha nel cast anche Enzo salvi, Sebastiano Somma, Adolfo Margiotta e Gennaro Lillio. Lo raggiungiamo telefonicamente e la nostra intervista inizia con un ricordo di tredici anni fa, quando Ivan Boragine ha lavorato a un film che non ha ottenuto il successo che meritava, ma che per lui rimane un'esperienza significativa. Da allora, ha affrontato molte sfide e ha dimostrato un amore per le "belle storie", che spesso traspare nei suoi ruoli.
Parlando del suo ultimo film, Il diavolo è Dragan Cygan, Ivan Boragine rivela il suo entusiasmo per il personaggio di Fabrizio, un poliziotto controverso. Questo ruolo lo ha messo di fronte a una lotta interna tra il bene e il male, una dualità che ha trovato affascinante sin dalla prima lettura della sceneggiatura. Il film, nonostante il budget limitato, aveva ambizioni più alte e mirava a offrire qualcosa di più di un semplice intrattenimento. E Ivan Boragine non manca di sottolineare il lavoro di squadra e la sensibilità di tutti i reparti coinvolti nel raggiungere questo obiettivo.
La conversazione si sposta poi sul tema delle difficoltà che affrontiamo nella vita e sul ruolo della società moderna nel renderci vittime su diversi livelli. Ivan Boragine riflette allora sul suo percorso personale e sulle sfide che ha dovuto superare, incluso il sostegno alla sua famiglia durante il periodo difficile della malattia di suo padre.
Parlando della sua carriera, Ivan Boragine rivela poi la sua passione per la recitazione fin dall'infanzia e la sua determinazione nel perseguire il suo sogno nonostante le sfide. Condivide anche il suo impegno nel suo lavoro parallelo come amministratore delegato di una società di locali a Roma, che gli offre una varietà di esperienze e opportunità di crescita.
Ma non manca di riflettere anche sulle sue paure riguardo all'invecchiamento e alla morte, rivelando la sua umanità e il suo impegno nell’andare oltre mentre continua il suo viaggio di crescita personale e artistica.
Intervista esclusiva a Ivan Boragine
“Ho lavorato a quel film più di tredici anni fa”, mi ricorda Ivan Boragine quando gli faccio presente che le nostre strade in maniera indiretta si sono incrociate per via di un amico in comune, Maurizio Giordano, che lo aveva diretto in Ladri d’anima. “Mi è dispiaciuto che non abbia avuto il successo che meritava perché era molto particolare: le sfide mi entusiasmano così come mi entusiasmano le belle storie”.
E sulle belle storie che ti entusiasmano non avevo dubbi, considerando che ti ritroviamo oggi al cinema tra i protagonisti di Il diavolo è Dragan Cygan di Emiliano Locatelli, nei panni di Fabrizio, un poliziotto il cui operato è alquanto discutibile.
Fabrizio è un personaggio sul filo del rasoio, tra il buio e la luce. È emblematica come immagine ma ben definisce il suo essere sempre in contrapposizione con se stesso, in un eterno dualismo che nel racconto diventa anche un dualismo nel dualismo. Nella lotta tra bene e in male, in lui albergano corruzione e cattiveria intrinseca ma anche un credo spasmodico nei confronti sia di Dio o, comunque, della Chiesa sia del lavoro che porta avanti. Al di là del suo essere un poliziotto sui generis, crede fondamentalmente nel suo lavoro nonostante poi approfitti della sua posizione e abusi del suo potere.
Per certi versi, è come se fosse un giustiziere della notte che mette in atto il suo personalissimo senso di giustizia con metodi che definire particolari è un eufemismo.
Il conflitto con se stesso e con ciò che pensa e ciò che vorrebbe fare ma non fa sono i tratti che mi hanno fatto sicuramente innamorare del personaggio sin dalla prima lettura della sceneggiatura.
Sceneggiatura che aveva già in nuce i propositi del regista: un film di genere che si coniuga con aspirazioni d’autore à la Ken Loach. Avevi la percezione di far parte di un low budget che mirava a qualcosa di più alto del semplice intrattenimento?
Ancor prima di cominciare le riprese, ho avuto la sensazione che il progetto fosse molto importante. Sulla carta, c’era già tutto quello che sarebbe stato, le immagini che avevo odorato erano nitide e le riprese non hanno smentito la mia sensazione. Si percepiva che stavamo facendo un lavoro che mirava ad alzare l’asticella di quello che è lo standard odierno dei film indipendenti. Poi, chiaramente ci sono state mille difficoltà da affrontare ma la sensibilità di tutti i reparti coinvolti, dagli attori alla regia, dalla fotografia ai costumi, ha fatto sì che si lavorasse tutti nella stessa direzione: anche se low budget, il film rappresentava un’opportunità per affacciarsi al mondo del cinema in maniera incisiva.
E per farlo il regista ha puntato su un attore come Enzo Salvi, declinandolo in maniera drammatica anziché in chiave comica come siamo abituati a vederlo da decenni ormai.
Su quest’aspetto, mi riconosco un piccolo merito da solo: conosco Enzo da anni, siamo amici e sono sempre stato convinto delle sue potenzialità. Tant’è che quando con il regista Emiliano Locatelli si parlava del progetto, non ho avuto dubbi su come Enzo sarebbe riuscito a dare di sé un’immagine diversa da quello che è il suo canone di riconoscimento nei confronti del pubblico. Ero sicuro che in qualche modo avrebbe potuto dare un apporto significativo al film e, quando ho visto il risultato, siamo rimasti tutti entusiasta: ne valeva la pena.
È stato comunque molto piacevole condividere il set con Enzo, non solo in scena ma anche dietro le quinte. Una volta dato lo stop, toglieva la maschera del personaggio e tornava a essere quello di sempre, in grado di portare il sorriso e di creare quel clima disteso di cui ogni ambiente di lavoro avrebbe bisogno.
Il film racconta di quelle difficoltà che durante il percorso incrociamo e di come la società di oggi ci renda su più piani vittima. Ti sei mai sentito vittima del mondo circostante?
È accaduto in passato mentre oggi, pur non sentendomi vittima, sento comunque di subirne gli effetti. Ho deciso negli anni di decidere io della mia vita e di non subire quello che mi accadeva. Ho messo in moto un cambiamento che mi ha portato a essere consapevole di quello che sono, a riconoscere un mio talento e di conseguenza ad agire. Il film racconta delle difficoltà lavorative in generale ma, se vogliamo scendere nello specifico della mia esperienza, nel mondo attoriale noto come una mancanza di consapevolezza da parte dei colleghi: non tutti sono coscienti di ciò che realmente sono, del talento che hanno o di ciò che possono dare come non dare.
E questo ha portato alla creazione del marasma che viviamo oggi in cui non si nemmeno che lavoro si faccia: definisco il mestiere dell’attore come un gioco serio che va fatto non solo per apparire o guadagnare, altrimenti si rischia di essere approssimativi e di risultare banali. Ma è anche vero che il sistema è talmente distorto che spesso c’è anche chi dà l’opportunità di lavorare a coloro che nemmeno dovrebbero avvicinarsi al mestiere. La voglia di apparire sembra avere invece preso il sopravvento sul talento: non c’è più quella fame, quel fuoco sacro dell’arte che c’era un tempo e che oggi noto solo in pochissime persone… le stesse a cui poi non viene data l’opportunità di farsi idealmente vedere.
Il fuoco sacro per te si è acceso abbastanza presto. Eri poco più di un bambino quando hai interpretato, come Fabrizio Ferracane, Peppiniello in una rappresentazione amatoriale di Miseria e nobiltà. Cosa ti colpiva dello stare in scena?
Ricordare cosa mi avesse colpito in quel momento è complicato: a 13 anni non riesci a percepire realmente cosa ti colpisce. Ti ritrovi semmai a vivere una serie di emozioni a cui in quell’istante non sai nemmeno dare un nome. Lo fai solo dopo, crescendo, quando ti ritornano in mente l’odore delle prime tavole di legno che hai calcato e il gruppo con il quale discutevi, lavoravi e creavi il personaggio. Ho vissuto una magia che poi negli anni si è imposta in me permettendomi di trovare risposte a molte mie domande.
Hai dovuto però soffiare su quella fiamma che si era accesa a causa degli eventi che hanno interessato la tua famiglia e, in particolar modo, tuo padre.
Avevo sedici anni quando a mio padre hanno scoperto un tumore per cui i medici gli avevano dato solo tre mesi di vita. Ricordo ancora il giorno in cui papà me lo disse: era in ospedale da cinque giorni, gli feci visita dopo scuola e senza mezzi termini mi parlò delle sue condizioni. Ma, da credente, aggiunse anche che si sarebbe affidato ai medici e a Dio com’era nello stile della sua “regola delle 3 A”: accetta, affronta e affidati… aveva accettato la malattia, la voleva affrontare e si stava affidando.
Tuttavia, il suo discorso finì con una chiusa che inevitabilmente ha segnato il mio percorso: “Da oggi in poi sei l’uomo di casa”. Sulle mie spalle, avrei avuto la responsabilità di mio fratello, più piccolo di dieci anni, e di mia madre, che all’epoca lavorava. Ovviamente, mi cadde il mondo addosso. Ma la “regola delle tre A” ha funzionato nel tempo: mio padre ce l’ha sempre messa tutta, sono passati anni da allora e continua a vivere… seppure con i suoi acciacchi e i continui cicli di chemioterapia è ancora qui e ne sono molto felice.
Per me, però, quelli sono stati anni complicati fino a quando, dopo una fase personale critica a diciannove anni, ho deciso di iniziare a studiare. Ero riuscito a risolvere un paio di cose, mi ero messo sulle spalle un po’ di responsabilità ma era arrivato il momento di riaccendere quel fuoco, di continuare con il mio sogno e di fare vedere a mio padre quello che sarebbe stato il proseguimento della mia carriera facendo mia la sua “regola delle 3 A”. La regola è un mantra che mi sento di suggerire anche a chi non crede che, volendo, si può affidare a se stesso o a un’altra persona.
E tu a cosa o a chi ti sei maggiormente affidato?
Negli anni, ho imparato ad affidarmi a me stesso. Non è stato facile farlo per via della mia stessa diffidenza nei confronti di tutto e di tutti: di scottature ne ho prese talmente tante fino ad avere paura anche di me stesso e dei momenti in cui non riuscivo a riconoscermi. Ho dovuto prima capire chi fossi veramente, quanto valessi e cosa potessi offrire: solo dopo, sono diventato più forte e ho potuto dare il giusto valore a chi entrava nella mia vita.
C’è oggi qualcuno al tuo fianco?
Sì, una ragazza speciale con cui stiamo crescendo insieme. Ci supportiamo a vicenda e mi ha fatto scoprire il vero significato dell’amore puro, quello fatto di sostegno, di libertà, di collaborazione, di corpo e anima.
La recitazione ti ha aiutato in tale processo di scoperta?
Mi ha aiutato tanto portandomi a studiare, ad acculturarmi e ad avere una visione a 360° della vita stessa. Mi definisco ad esempio uno studente anarchico di filosofia e psicologia, leggo molto e studio testi letterali o di qualsiasi altro tipo per accrescere la mia formazione ma anche per affrontare al meglio i personaggi che interpreterò, per comprenderli a fondo e per avere un occhio più critico nei confronti di tutto ciò che mi circondano.
Ed è stato facile far capire a 19 anni che avresti voluto fare l’attore?
Facile o non facile, sapevo che avrei dovuto affrontare il percorso combattendo contro i miei genitori a prescindere. Avrebbero voluto per me maggiore sicurezza e, quindi, per accontentarli e non deluderli c’è stato un lungo periodo di tempo in cui contemporaneamente lavoravo a Napoli e studiavo in Accademia, la TST, a Roma, facendo quotidianamente la spola tra le due città. Non nego la fatica ma sono convinto che, se non si fatica per raggiungere un obiettivo, non se ne coglieranno mai i reali risultati.
Risultati che sono arrivati quando poi, in quello che è il tuo viaggio dell’eroe in senso proppiano, ottieni un ruolo di rilievo nella serie tv di Rai 3 La nuova squadra.
È uno dei tre ruoli a cui sono più affezionato nella mia vita, quello di un ragazzo autistico per cui ho affrontato lo studio del personaggio stando accanto a un ragazzo affetto realmente da disturbi dello spettro autistico, Francesco: mi ha aperto un mondo stupendo e lo porterò sempre nel cuore. Da lui ho imparato molto e molto di quello che ho imparato l’ho poi portato al mio personaggio, sempre dentro al mio cuore.
Più del sindaco di Michele Casillo, il sindaco di Giugliano che hai interpretato in varie stagioni di Gomorra?
A livello di cuore e anima, sì. Quello di Michele è il secondo dei tre ruoli che più legato perché mi ha dato l’opportunità di farmi conoscere al grande pubblico ma anche agli addetti ai lavori, facendomi entrare in maniera più decisa nel mondo del cinema e della televisione.
E il terzo?
È il più variabile: è una posizione che tengo libera per il titolo che sto promuovendo… è un jolly da usare in base a qui e ora (ride, ndr).
Il diavolo è Dragan Cygan: Le foto
1 / 15Comunque, il desiderio di stabilità dei tuoi è stato ugualmente esaudito perché oltre a fare l’attore porti avanti anche un altro lavoro.
Le varie vicissitudini di vita mi hanno portato, circa quattro anni fa, ad attraversare un periodo molto nero in cui faticavo a riconoscermi. Non ero più me stesso: non esisteva più Ivan, non esistevano più i soldi, non esisteva più un lavoro… era sparita ogni cosa e per risalire la china ho dovuto ripartire da zero e rimboccarmi le maniche, come ho sempre fatto nella mia vita. Ed è stato in quel momento che ho deciso di cominciare a scegliere chi volevo essere e cosa dovevo fare, senza necessariamente accettare più tutto quello che mi veniva proposto solo perché avevo l’esigenza di guadagnare. Da allora, voglio fare solo quello che mi piace e ciò sento di poter fare, conservando intatta in me quella fame di lavoro che mi fa puntare più a un obiettivo artistico che ai soldi.
Al guadagno provvedo con il lavoro di amministratore delegato di una società di locali a Roma. È un lavoro che mi dà l’opportunità di potermi confrontare sempre con tante persone, tutte diverse tra loro. E questo mi aiuta anche nell’apprendere sempre qualcosa di nuovo da poter prima o poi portare all’interno dei vari personaggi che interpreterò.
Da cosa derivava il tuo periodo nero?
Dal ricercare qualcosa al di là dei muri che incontravo sulla mia strada quando l’obiettivo era invece molto più palese. Avevo purtroppo la testa girata dall’altro lato e quindi mi affidavo a persone sbagliate, mi donavo non alla gente giusta e sperperavo in maniera errata.
Sei cresciuto a Napoli: è stato facile?
Al di là delle tentazioni, fortunatamente ho una famiglia d’oro, con un padre e una madre che hanno, seppur con mille difficoltà, provveduto a non farmi mancare mai nulla. La mia è una famiglia umilissima, papà impiegato e mamma casalinga, ma hanno sempre fatto del loro meglio insegnandomi il valore della vita e dei soldi. Vivere a Napoli non è stato semplice ma allo stesso tempo sono proprio le difficoltà a darti l’opportunità di crescere, di evolverti e di fortificarti: c’è sempre un risvolto della medaglia… Ho anche odiato per un periodo fortunatamente breve la mia città ma guai oggi a chi me la tocca: ne possono parlare male solo chi l’ha vissuta realmente, non gli altri.
Hai paura del tempo che passa?
Per quanto io sia una persona risolta e in continua crescita, non riesco a risolvere la paura di invecchiare e di morire. E, quindi, non ho paura di crescere nello spirito ma di farlo fisicamente. Ma sto lavorando per farla passare…