Il volto di Jacopo Garfagnoli non passa inosservato così come la sua bravura di attore. Basta osservarlo pochi minuti in scena per chiedersi subito chi è e voler approfondire la sua biografia. In questi giorni, Jacopo Garfagnoli è al cinema nel film Senza età (distribuito da Draka), un on the road low budget realizzato tra Italia, Francia, Spagna e Portogallo, con al centro un’insolita coppia di protagonisti: il giovane Pietro e l’anziana Anna. Si tratta di una storia delicata sull’amore ma anche sulla vita, sulla libertà e sullo scambio tra due differenti generazioni, la Z e quella dei loro nonni, spesso separate da incomunicabilità e diffidenza reciproca.
Mentre Anna ha il volto dell’attrice Patrizia La Fonte, Pietro è interpretato proprio da Jacopo Garfagnoli, al suo primo grande ruolo da protagonista. Attore ventottenne originario di Livorno, Jacopo Garfagnoli ha già alle spalle diverse esperienze cinematografiche, teatrali e televisive, in mezza Europa e non solo. Viaggiare, del resto, è una delle sue grandi passioni, come ci conferma in quest’intervista in esclusiva, ma non è la sola.
Partendo da Pietro e dai temi di Senza età, abbiamo voluto un po’ mettere alle strette Jacopo Garfagnoli ma solo dopo essere rimasti colpiti dalla profondità dei suoi pensieri. Cercare di metterlo in difficoltà è stato più che un piacere, soprattutto quando poi erano le risposte a mettere in difficoltà l’intervistatore. Ragione in più per andare oltre l’aspetto fisico di Jacopo Garfagnoli e conoscere il suo mondo.
Intervista esclusiva a Jacopo Garfagnoli
Nel film Senza età di Stefano Usardi, al cinema in questi giorni, interpreti il personaggio di Pietro. Chi è?
Pietro è un ragazzo a cui è successo qualcosa che non è in sceneggiatura e che, quindi, non viene spiegato. È qualcosa però di estremo: me lo sono immaginato con alle spalle una vita non facile. Durante una fuga, si ritrova a infilarsi di soppiatto in una casa di cura dove incontra Anna, una nonna che non conosce e non sua, con la quale intraprende un profondo viaggio catartico che cambierà entrambi.
Pietro è un ragazzo molto istintivo e introverso: è interessante notare come, accanto ad Anna, un po’ più grande, pazza ed estrema di lui, si lasci invece andare fino a diventare quasi estroverso.
La loro storia sottolinea come nelle relazioni umane non debbano esserci limiti legati alla differenza di età. Un bel messaggio in un momento storico in cui le società escludono le persone più mature.
Viviamo in quello che le statistiche dicono essere il secondo Paese più vecchio del mondo. Io stesso ho una nonna di quasi 98 anni e ho una certa dimestichezza con gli anziani ma la mancanza di comunicazione tra la generazione dei giovani e quella dei meno giovani è da imputare a colpe che stanno da entrambe le parti. Da un lato, ci sono i giovani che rinunciano alla saggezza degli anziani ma, dall’altro lato, ci sono anche i meno giovani che rifiutano di accettare le novità dei ragazzi.
Pietro e Anna riescono ad andare oltre tale divisione. E i loro ruoli sono anche invertiti: a sembrare il vecchietto è Pietro mentre Anna è come una giovincella che vuole uscire e divertirsi.
È la tua prima esperienza da protagonista. Come ti sei mosso?
Ho cercato di fare mio il personaggio disseminandolo di informazioni e renderlo completo. È stata per me una sfida molto importante, mi sono confrontato spesso con il regista (sempre con serenità) e mi sono divertito molto. Mi sono preparato il più possibile perché sapevo che girando avremmo avuto tutta una serie di limitazioni e di problemi, che tutti i film hanno: vuoi che non li avesse un film come il nostro, un on the road a basso budget in giro per mezza Europa?
Ad aiutarmi nella preparazione è stato il mio maestro, Michael Margotta, con cui a volte lavoro ancora insieme. Tra i compiti che mi ha dato c’è stato quello di leggere la sceneggiatura cento volte. Pensavo fosse impossibile farlo, una cosa da pazzi, e invece mi è stato davvero utile farlo.
E nel girare mezza Europa dimostri di padroneggiare molto bene il francese. Quante sono le lingue che parli?
Quel francese è stato del tutto rubato. A Stefano piace cogliere la verità del momento e in preparazione mi aveva assicurato che non avrei parlato chissà quanto in francese e invece… è andata diversamente: ci ho provato e mi sono fatto aiutare dalla mia collega Raffaella Paleari, che nel film interpreta il personaggio di Dominique. Però, dopo aver terminato le riprese, ho deciso di cominciare a studiare la lingua: sono ancora a un livello basico ma è una lingua in più.
Le lingue per me sono fondamentali. Da sempre, adoro viaggiare e sin da quando avevo diciannove anni ho vissuto in varie parti del mondo. Ho imparato il portoghese tra un viaggio e l’altro in Brasile, ad esempio: sono stato lì due volte e la prima mi ero accorto che i brasiliani non parlavano inglese e dovevo cercare un modo per comunicare con loro e sapere come la pensano. Le lingue permettono di entrare in un posto, di conoscere una cultura e di metabolizzarla. Parlo poi anche il tedesco e proprio in questo periodo sono alle prove con un testo in tedesco da girare.
Le lingue sono il tuo passaporto per la libertà, per citare la serie tv andata in onda su Canale 5 di cui eri uno degli attori. E la libertà è anche uno dei temi di Senza età. Che valore attribuisci alla parola?
Cosa può essere la libertà se non la sensazione di potersi esprimere all’interno di un apparato con delle regole? Non sono un fan delle regole ma, se non ci sono, si rischia l’impulso anarchico quando invece la libertà come cantava Gaber è partecipazione. Le regole stabiliscono la differenza tra libertà positiva e libertà negativa… ed io, come in tutte le cose, preferisco maggiormente quella positiva.
Ti senti un giovane attore libero?
Ho sempre avuto la possibilità di scegliere e di essere libero, non vedo come avrei potuto e potrei fare altrimenti. Non si tratta di scegliere da solo e di vivere in un determinato modo ma è proprio una visione di vita. Essere libero per me significa anche aver scelto un mestiere che non è facile, soprattutto agli esordi.
Chi ti ha sostenuto in quel periodo?
Paradossalmente, il sostegno maggiore mi è venuto molto tempo prima, al liceo. Ho incontrato lì il mio insegnante Daniele Nuccetelli, che teneva un laboratorio teatrale a scuola. Mi trasmetteva tutta l’eleganza e la passione per questo lavoro e, in più, parlava degli stessi argomenti di cui leggevo a scuola, come le tragedie greche che portavamo in scena. Quando lui parlava, mi commuovevo e mi sentivo al tempo stesso molto curioso ed eccitato. Ho deciso allora di fare quello che faceva lui: mi sono trovato molto bene all’accademia ma il dopo non è stato facile.
Interfacciandoti con l’idea di considerare la recitazione un lavoro, sono tanti i rifiuti e le porte in facce: stai inseguendo un sogno ma sono in grado anche di farti dubitare di te stesso, soprattutto quando gli anni cominciano a passare. Non smetterò, però, mai di inseguire il mio sogno: mi piacerebbe svegliarmi a cinquant’anni magari con il mio piccolo laboratorio teatrale.
Ti sei mai chiesto se i rifiuti erano motivati?
A volte sì, a volte no. Non importa soffermarsi sul perché, è più importante pensare che quelli immotivati siano stati più utili di altri perché, disorientandoti, ti invitano a fare una scelta: stare a terra o rialzarti. È sempre una tua scelta, anche quando non è colpa tua.
Uno dei tuoi primi maestri sul set è stato Marco Bellocchio. Ti ha scelto per Sangue del tuo sangue e tempo dopo per Il traditore. Che ricordi hai?
È stato bello quei set, l’armonia che regnava e come veniva gestiti. È stata per me un’esperienza enorme, formativa e divertente, che mi ha fatto capire quanto indispensabile sia lavorare con i migliori e vedere quanto si può imparare da uno bravo: a dieci così così, preferisce anche solo uno molto bravo. Al di là del suo impegno, ho trovato Marco Bellocchio molto leggero e diverso dall’uomo che a prima vista, anche per il suo impegno politico e intellettuale, può incutere timore.
A parte la recitazione, quali sono le tue più grandi passioni?
La mia più grande passione sono i viaggi: sono fermo da due settimane nello stesso posto e ho già bisogno di muovermi. Ultimamente, ho poi scoperto la passione per il surf: non ho ancora imparato a surfare come vorrei… e chiaramente il teatro e il cinema ma mi incuriosisce anche la letteratura.
Sono appassionato (molto) di politica: mi affascina e per tale ragione studio Philosophical and Political Economics all’Università di Venezia. È equiparabile a una sorta di Scienze Politiche con qualche esame di Economia e Filosofia, tutto in lingua inglese. La mia idea di fondo è quella di diventare un attore internazionale e, quindi, quando si è trattato di iscriversi all’università, ho optato per qualcosa che mi avrebbe aiutato con la lingua, al di là del fatto che molta delle politica avviene in inglese anche dal punto di vista accademico.
E, di fatto, sono migliorato tantissimo con la lingua, tanto che oggi risco a fare da traduttore anche a Michael Margotta durante i suoi seminari.
Senza età offre anche una riflessione sull’amore e sul cerchio della vita, compresa la morte. Cosa sono per te amore e morte?
La morte, pur per quanto dolorosa, dà significato alla vita stessa. Ci piacerebbe vivere per sempre? Assolutamente no: tutto ciò che concerne la vita è caduco e momentaneo e la stessa senza la morte non avrebbe senso.
L’amore può assumere forme differenti e ha sempre avuto peso nel mio percorso. A tredici anni andavo in giro a chiedere alle persone cos’era la cosa più importante della vita per vedere se le risposte coincidevano con la mia: l’amore. Per me, l’amore è amore per la recitazione, amore per la mia ragazza, amore per i miei genitori. Come la morte, sua cugina o forse sorella, nutre la vita, anche se non sempre è facile starlo a sentire: spesso ti provoca delusioni e ti disorienta. Se ci fermassimo ad ascoltarlo con la pazienza, la perseveranza e la consapevolezza che può anche far male potrebbe divenire la nostra bussola, uno zenit continuo.
E tu ti ami?
È la prima cosa da sbrigare: se non la risolvi, non puoi amare niente e nessuno. L’amore per se stessi è l’elemento fondamentale per voler bene a qualcun altro: è una frase banale ma terribilmente vera. Ti relazioni meglio agli altri quando cresci, ti capisci e ti accetti in maniera completa. Non so ancora se amo del tutto me stesso: è un percorso da fare e non si sa mai quando finirà. Forse più che amare noi stessi dovremmo riuscire a trovare un modo per perdonarci e non essere cattivi quando falliamo o non si hanno quelle qualità che si vorrebbero avere. È quasi fisiologico volersi male o accusarsi.
Se ti chiedessero per un lavoro di tagliarti i capelli?
Lo si fa. La vanità non è qualcosa che mi appartiene particolarmente. Posso anche prendermi in giro, giocare, fare lo scemo o fingere di piacermi di fronte agli altri ma ho tante insicurezze. L’estetica può essere funzionale al mio lavoro ma lascia il tempo che trova: se fossi troppo vanitoso, diventerei autoreferenziale e non osserverei gli altri. L’importante, come in ogni cosa, è trovare la giusta misura perché, se non hai del tutto vanità, non hai nemmeno voglia di sgomitare e riuscire a ergerti dalla massa.