Vestire i panni di William Shakespeare per il film Shakespea Re di Napoli di Ruggero Cappuccio e Nadia Baldi è un sogno per ogni attore ma lo è stato ancora di più per Jacopo Rampini, che nel personaggio e nella storia raccontata ha trovato appigli con la sua reale esperienza di vita. In Shakespea Re di Napoli, prodotto da Teatro Segreto e Artimagiche Film in collaborazione con An.Tra.Cine e interpretato tra gli altri da Alessandro Preziosi, Giovanni Esposito ed Emanuele Zappariello, si va alla scoperta di uno dei più affascinanti misteri che coinvolgono la storia della letteratura. Per chi il Bardo scrisse i suoi sonetti? Chi era il misterioso W.H.?
Catapultati nei primi anni del Seicento, Desiderio, giunto a Napoli dopo un avventuroso naufragio, racconta al vecchio amico Zoroastro cosa ne è stato della sua vita dopo che William Shakespeare in persona, giunto decenni prima in Italia, l'ha portato con sé a Londra. Nella capitale inglese, il giovane Desiderio si è ritrovato a essere musa per lo scrittore, interpretando ruoli sia maschili sia femminili (parentesi che apre una bella riflessione, attuale e urgente, sul concetto di identità).
E nell’interpretare Shakespeare Jacopo Rampini, classe 1986, non poteva non far collegamenti con la sua stessa vita. Collegamenti che affondano la loro ragione d’essere a più di vent’anni fa, quando appena tredicenne si trasferisce negli Stati Uniti con la famiglia per seguire il lavoro del padre giornalista. Non è stata facile la migrazione e Jacopo Rampini non lo nasconde, così come non è stato semplice capire quale fosse la sua strada.
Con una laurea in Letteratura e Filosofia alla Sorbona di Parigi, Jacopo Rampini sognava di scrivere poesie. Il destino, però, complice anche una schiera di insegnanti non proprio avvezzi alla creatività, lo ha portato sul cammino della recitazione portandolo a studiare prima presso l’American Conservatory Theatre di San Francisco e dopo all’American Academy of Dramatic Arts di New York (con ulteriore master presso l’Accademia Teatro alla Scala).
E da attore sono tanti i film e le serie tv in cui abbiamo visto Jacopo Rampini, da I Medici a Halston, passando per The Dirty Black Bag, Catch 22 e The Blacklist, dividendosi continuamente tra Stati Uniti in Italia e continuando sempre a sentirsi americano in Italia, dove ha lavorato anche per Pupi Avati e Pilar Fogliati, e italiano in America. Una doppia identità la sua che pian piano sta trasformando in punto di forza per non rimanere imbrigliato nelle etichette.
Vedremo presto Jacopo Rampini anche in 2Win di Stefano Mordini con Riccardo Scamarcio e nel fantasy Il ladro di stelle cadenti. Ma intanto entriamo a piccoli passi nel suo (bel) mondo.
Intervista esclusiva a Jacopo Rampini
“Sono molto contento di come sia stato accolto Shakespea Re di Napoli”, mi risponde Jacopo Rampini quando gli chiedo della première del film alla Festa del Cinema di Roma. “Penso che sia un film di grande valore. Ben venga che ci sia un’offerta diversa per ogni tipo di pubblico e che la gente possa scegliere tra opere più commerciali e altre in grado di stimolare il pensiero. Mi reputo fortunato ad avere avuto un ruolo come quello di William Shakespeare, un sogno per qualsiasi attore”.
Cosa ha rappresentato per te, attore, portare sullo schermo William Shakespeare, il padre del dramma moderno?
È stato innanzitutto un sogno che si è realizzato per vari motivi e la risposta parte da tanto tempo fa. Ho studiato recitazione negli Stati Uniti, dove sono cresciuto e vivo da più di vent’anni. Nella classe che frequentavo si era soliti fare un esercizio per cui un attore veniva chiamato al centro e gli altri dovevano trovare un aggettivo per definirlo. Restituiva la possibilità di vedersi attraverso gli occhi degli altri, anche perché la nostra percezione di noi stessi non sempre è la corretta. L’aggettivo che ricorreva spesso nei miei confronti era “classico”: c’era qualcosa nel mio volto o nel mio background europeo che portava gli altri a vedermi “classico”.
Uscito dall’Accademia d’Arte Drammatica di New York, il mio primo ruolo importante in televisione, quello che mi ha lanciato e mi ha portato ad avere un agente, è stato quello del giovane Stalin, in una serie televisiva storica. Sono poi arrivati la serie tv I Medici e, durante la pandemia, un film sulla morte di Pushkin, in cui interpretavo Dantes, colui che l’ha ucciso. Mi è capitato dunque spesso di far parte di progetti in costume e di dar vita a personaggi storici, classici. Ora è il turno di Shakespeare... e ammetto che mi piace tantissimo prepararmi per dar vita sullo schermo a personaggi che sono realmente esistiti perché mi permette anche di studiarli e conoscerli da vicino.
Al di là di ciò, Shakespeare è un ruolo altamente simbolico per me. Shakespea Re di Napoli si apre con l’arrivo del drammaturgo sulle coste italiane, con la sequenza dello sbarco in Italia. Curiosamente, il film rappresenta un po’ anche il mio di sbarco in Italia da attore americano di origini italiane. E non potevo far rientro migliore che con un’opera in cui il protagonista ritornando poi a Londra porta con sé un pezzo di italiano: è metaforico della mia stessa esistenza, in bilico continuamente tra le due sponde. Sono tornato diverse volte in Italia per piccoli ruoli (in La quindicesima notte del tempo ordinario o in Romantiche) per ritornare negli States portando con me esperienza in più prima di riapprodare nuovamente da noi con un film in cui interpreto una parte molto importante.
Sembra per te essere arrivato il momento di essere propheta in domo tua.
È quello il mio desiderio: lavora in Italia e usare quello che ho imparato in quasi tredici anni di esperienza sui set americani. Lavorare nel cinema negli Stati Uniti ti forma tanto e potrebbe esserci spazio per un attore che ha sulle spalle oramai un certo bagaglio.
È un po’ come il riappropriarsi della propria identità che caratterizza Desiderio, il giovane che Shakespeare nel film porta con sé da Napoli a Londra. Mentre lui si interroga sull’essere uomo o donna e sulla necessità di non avere addosso etichette, tu sei in bilico tra un’identità italiana e una americana.
Sono continuamente alla ricerca di identità. Quando torno in Italia, dopo gli anni all’estero, non mi sento più italiano mentre quando vivo negli States, nonostante abbia da tantissimi anni la doppia cittadinanza, continuano a vedere in me l’aspetto europeo, quel qualcosa che mi distingue dall’americano medio. Ho sempre la sensazione di essere nel posto giusto ma nel momento sbagliato, fuori luogo, un po’ come il nowhere boy dei Beatles. Ovunque vada, sono fuori posto ma per un artista può trasformarci anche in una bella posizione qualora riesca a convivere con l’essere considerato “diverso”. Ho sempre considerato diversità e unicità un vantaggio.
Cos’è che ti ha portato a studiare negli USA?
La mia non è stata una scelta. Mi sono trasferito con la mia famiglia in America quando avevo 13 anni per via del lavoro di mio padre, un giornalista che, corrispondente dall’estero, è stato mandato nell’anno 2000 a San Francisco. Avevo finito i tre anni di scuole medie in Italia quando mi sono ritrovato in un mondo per me tutto nuovo: devo al liceo a San Francisco la mia passione per la letteratura, ad esempio. Oltre a essere attore, sono anche scrittore: ho queste altre due identità che convivono in me. Mi piace scrivere, ho studiato Letteratura alla Sorbona e ho lavorato in una casa editrice prima di cimentarmi nella recitazione. Oggi cerco di far convivere questi due lati della mia personalità scrivendo anche le parti per me stesso per non aspettare che siano gli altri a farlo.
Com’è stato essere sradicato dal proprio mondo a tredici anni, nel pieno dell’adolescenza, e ritrovarsi improvvisamente catapultato in una dimensione che non ti apparteneva?
Difficile. Sono arrivato al liceo parlando l’inglese scolastico di un bambino degli anni Novanta. Ricorderò sempre il primo giorno di scuola quando mi sono sentito chiedere da un ragazzino asiatico “What’s up?”… nessuno mi aveva mai spiegato cosa significasse perché all’epoca in Italia si insegnava il British e l’American non era ammesso o concepibile.
Sono stato oggetto di derisione, scherno o bullismo, da parte degli adolescenti ma la mia caparbietà mi ha spinto a imparare la lingua in sei mesi grazie a una full immersion continua: evitavo ad esempio di fare come altri amici italiani che cercavano i connazionali per intessere reti sociali. Ma è la difficoltà che ti sprona a tirare fuori il meglio di te per cercare di sopravvivere ed è stato l’istinto di sopravvivenza a portarmi a imparare la lingua in tempi rapidi: il rischio altrimenti era quello di essere etichettato come “sfigato” in mezzo a una generazione di coetanei spietati.
Recitazione, scrittura e filosofia sono i tre campi di azione di Shakespeare ma anche i tuoi: la laurea alla Sorbona era in Lettere e Filosofia.
Da adolescente, sognavo di diventare un poeta ancora prima che un attore. A sedici anni mi ero innamorato di Rimbaud e dei poeti maledetti e sognavo di andare a Parigi a vere assenzio e fumare oppio nei bar di Saint-Germain e scrivere poesie. Quando mi sono trasferito nella capitale francese per studiare alla Sorbona, ho scoperto che di quel mondo ovviamente non esisteva più niente.
E, purtroppo, è stata proprio l’università a farmi accantonare il sogno di scrivere poesie. Gli insegnanti, anziché motivarti alla scrittura e spingerti a diventare un artista, pensavano a trasformarti in uno studioso di poesia: “Devi leggere e capire tutti i poeti prima di poter scrivere”. Da ciò deriva anche una riflessione abbastanza articolata sulle differenze di metodo da Europa e States: la loro ignoranza in determinati ambiti permette molta più libertà. Gli americani giudicano molto meno rispetto a noi, dove implicitamente vige sempre il “come ti permetti tu di scrivere quando nel passato ci sono stati scrittori molto più importanti di te”. Nei corsi di creative writing americani, dove ci si può iscrivere tutti, lasciano libera interpretazione ed esplorazione, puntando più a una critica costruttiva che distruttiva.
L’oggetto del desiderio di Shakespeare si chiama Desiderio. Al di là della recitazione, qual è il più grande desiderio di Jacopo Rampini uomo?
Non riesco ad andare oltre il lavoro: per me, è veramente una vocazione. Mi ci dedico con tutta l’anima, non è una passione sporadica ma un’esigenza di vita. Il mio desiderio è quello di essere felice nel trovare ruoli che mi facciano sentire realizzato. Raggiungo il massimo della felicità quando avverto una sensazione di completezza attraverso un personaggio che mi permette di esplorare anche me stesso. La recitazione è una forma di intrusione che mi permette di conoscere non solo chi interpreto ma anche me stesso… e torniamo alla filosofia, a quel “conosci te stesso” che comporta l’imparare a conoscersi meglio chi si è.
E conoscere se stessi significa anche mettersi in discussione e scoprire lati di sé che non piacciono.
È mettersi in difficoltà: non è sempre facile. Ho terminato da poco le riprese di un film italiano indipendente, un fantasy dal titolo Il ladro di stelle cadenti in cui interpreto il ruolo del protagonista. Questo personaggio da giovane ha una storia travagliata con una donna che vent’anni dopo ritorna nella sua vita per dirgli che da quel rapporto hanno avuto un figlio, per di più malato di leucemia. Per far fronte a una situazione del genere, devi cercare dentro di te quei momenti della tua vita che si avvicinano emotivamente a quanto narrato. E per trovarlo devi fare un viaggio dentro te stesso da cui non sempre si esce incolumi.
Immergersi nel ruolo prendendo dal reale può anche essere psicologicamente pesante: rappresenta un bel viaggio all’inferno che devi essere pronto ad affrontare anche quando non è divertente.
Tutte le volte che ti abbiamo visto in serie tv sulle varie piattaforme, da Halston a That Dirty Black Bag, e abbiamo letto il tuo nome pensavamo di avere davanti un americano di seconda generazione. Sei invece partito dall’Italia a causa di un padre giornalista ancora in attività e famoso. Hai mai sentito il peso del confronto con lui?
Lo sento tutti i giorni: in Italia, il mio cognome mi precede ovunque vada. Del resto, viviamo (tristemente) nel Paese del nepotismo, quello in cui quasi tutti i figli ereditano dai genitori aziende, case o anche solo il nome per farsi strada. Forse la mia salvezza consiste nell’aver scelto alla fine un lavoro molto diverso dal suo, anche se i nostri percorsi da un paio di anni si incontrano: stiamo ad esempio lavorando insieme a un progetto ancora agli albori. Il nostro rapporto diretto, per fortuna, non è stato mai inficiato dalla logica dell’Adamo contro Adamo: ho tantissimo rispetto per mio padre e per la sua testa, è difficile coglierlo impreparato su qualcosa, mentre io mi dedico più alla comprensione dell’animo umano, della psicologia dei miei personaggi e di me stesso, e della performance, della resa su un palcoscenico o davanti a una macchina da presa.
Ti è mai capitato che ti fermino in Italia per strada per averti riconosciuto?
Mi è capitato che mi fermino ma ogni volta a me sembra strano: penso sempre che mi abbiano scambiato per qualche altro attore a cui posso somigliare. Anche per ché non ho mai fatto una serie tv Rai e non sono mai finito sul palco di Sanremo. Non so quanto possa essere piacevole, al di là delle foto di cortesia, essere riconosciuti. Si rischia di vivere con una maschera costantemente appiccicata addosso che limita anche come sei: ci giorni in cui al mattino mi sveglio anche con la voglia di non vedere nessuno e non potrei forse più permettermelo. Non lo so… quando mi capiterà, ne riparleremo (ride, ndr).
Che rapporto hai invece con il tuo corpo?
È un’ottima domanda: non la si fa solitamente a un uomo e non se ne parla mai abbastanza. Il corpo è uno strumento in più che l’attore ha a disposizione e che deve essere costantemente accordato, come le corde di una chitarra per un musicista. Ragione per cui tutte le mattine faccio attività fisica (non sono “pompato” ma molto scolpito) con una certa disciplina e impegno, praticando tutti quegli esercizi che contribuiscono a darti un forte “core”. In accademia ti insegnano che per un attore tutto deve provenire dal “core”, da quella zona del corpo che si situa quasi sopra gli organi genitali. L’energia non viene dalla testa ma da lì: l’attore deve essere impulsivo, istintivo.
Quindi, per me è molto importante tenere il mio corpo in forma, come se fossi un ballerino: quando stai ore e ore su un set o su un palco, il tuo corpo deve reggere e non cedere, ragione per cui ogni mattina corro, faccio stretching, pratico yoga e faccio calisthenics.
Torni in USA dopo l’esperienza alla Festa del Cinema di Roma?
Per via dello sciopero dei lavoratori, io come Leonardo DiCaprio o Joaquin Phoenix non lavoriamo dallo scorso 17 luglio. Sono più di tre mesi che non arriva un provino da sostenere ma non me ne rammarico: le lotte per i diritti che si stanno combattendo oltreoceano servono per proteggere tutti gli attori del mondo contro l’invasione dell’intelligenza artificiale. Si sta cercando un accordo tra i sindacati, ho appena ricevuto un messaggio dal SAG-AFTRA (l’unione degli attori americani di cui è membro, ndr) e speriamo che arrivi il prima possibile.