Dopo tre anni di silenzio, Jacopo Ratini è tornato a far sentire la sua voce con il nuovo singolo Non sono più io (Atmosferica Dischi), scritto dallo stesso Ratini e prodotta in collaborazione con il producer e musicista Jacopo Mariotti. Inno all’accettazione della propria vulnerabilità, Non sono più io è un profondo esame di coscienza e di consapevolezza che porta Jacopo Ratini ma anche tutti noi a domandarsi chi siamo veramente, nel tentativo di imparare a conoscersi e a riconoscersi anche nelle fragilità e nelle insicurezze.
Ed è per parlare del singolo che abbiamo voluto avvicinarci al mondo di Jacopo Ratini, cantautore che si è sempre mosso nel segno dell’indipendenza e della libertà, due parole che da sole possono restituire il suo universo. Sensibile e attento sia alla realtà che vive sia come artista sia come uomo, Jacopo Ratini – dopo una laurea in Psicologia - si era fatto (parecchio) notare durante il Festival di Sanremo 2010, dove ha portato una canzone entrata di diritto nella memoria collettiva, Su questa panchina.
Da allora, Jacopo Ratini è molto cresciuto. Si è fatto diverse domande andando in cerca di risposte che lo facessero stare meglio. Lo ha fatto con la musica ma anche con la poesia e la scrittura, pubblicando una raccolta (Se rinasco voglio essere Yoko Ono) e un’audiofiaba (Il pescatore di sogni), e l’insegnamento. Ha creato nel 2019 l’Accademia del Songwriting, un'accademia didattica (online) di corsi di scrittura creativa applicata al mondo della canzone, con cui è costantemente in contatto con i giovani di oggi, spesso inconsapevoli di quanto emozioni, valori e scrittura vadano a braccetto.
Al di là di quello artistico, nell’intervista che ci ha concesso Jacopo Ratini ha mostrato il suo lato più intimo e privato. Ci siamo confrontati sui momenti di up and down, sulla sensibilità, sulla malinconia e sul valore del ricordo. Non c’è mai un attimo di voyeurismo nelle domande così come non c’è vittimismo nelle risposte ma solo schietta sincerità tra chi sa che la vulnerabilità è un valore aggiunto, un’unicità di cui non vergognarsi.
Intervista esclusiva a Jacopo Ratini
Non sono più io, il tuo nuovo singolo, arriva dopo tre anni di silenzio. Come mai in un’industria così frenetica come quella musicale hai scelto di far passare così tanto tempo?
Sono passati quasi tre anni e mezzo per due motivi. Il primo motivo è più pratico: mi sono dedicato a porre delle basi più solide all’Accademia del Songwriting e quindi a un metodo didattico formativo inerente alla scrittura creativa applicata al mondo della canzone. Mi ci sono dedicato veramente anima e corpo, sia dal punto di vista della formazione sia dell’erogazione dei corsi ad artisti, cantautori e neofiti. Era da anni che venivo chiamato da formatore “freelance” da varie accademie per seminari, workshop e masterclass quando nel 2019 ho sentito la necessità di rendermi indipendente, un po’ come ho fatto con la mia musica creando una mia etichetta. Amo rendermi indipendente da tutto e da tutti perché sono semplicemente impaziente: spesso e volentieri non riesco a sottostare ai tempi degli altri, non sono mai i miei.
Il secondo motivo è un po’ più personale. Dopo il mio terzo disco, Appunti sulla felicità, e i cinque singoli che erano usciti nel corso di un anno e mezzo, avevo voglia di ripresentarmi al pubblico con qualcosa in cui credevo. E per far qualcosa in cui credo, per scriverla e per crearla, ho bisogno di tempo. Non ce la faccio a scrivere canzoni in cinque minuti: sono un po’ alla vecchia maniera. Appartengo alla vecchia scuola della canzone d’autore e per scrivere una canzone mi ci vuole proprio del tempo fisiologico. Quindi, in questi tre anni ho scritto canzoni e le ho arrangiate con Jacopo Mariotti, che le ha anche prodotte.
Questi tre anni sono gli stessi che a causa della pandemia sono stati strani un po’ per tutti, portando anche a un cambio di sistema dell’industria discografica e del mondo della produzione musicale. Chiusi in casa, siamo tutti diventati autori o cantautori, realizzando brani in cinque minuti con i propri software. Tu sei invece in controtendenza…
La mia è stata una scelta di campo. Ma già con Appunti sulla felicità avevo fatto a modo io, facendo uscire qualcosa come pareva a me, come volevo io, a prescindere dai trend e dalle mode. Non ho seguito i sound o gli arrangiamenti del momento. Ma è vero anche che ho avuto la fortuna/sfortuna di poterlo fare perché non faccio il cantautore come primo mestiere: vivo erogando corsi di formazione e questo, avendo una certa autonomia, mi permette di fare come voglio. Non me ne frega niente se un suono di batteria non è del 2023 ma del 2019. Ho cercato di tenermi sempre aggiornato sul sound della musica degli ultimi anni ma non sono necessariamente vincolato dalle mode.
Ho fatto uscire e farò uscire canzoni che appartengono sempre a una mia voglia, a una mia volontà e ai mezzi che avevo a disposizione. Alcune sono nate proprio nel momento in cui non potevamo uscire troppo fuori di casa e la produzione è “home recording”: fatta in uno studio casalingo ma poi masterizzata in studi professionali per cercare di elevare il lavoro fatto.
Dalle tue prime risposte emerge già una certa presa di consapevolezza, tema di fondo anche di Non sono più io.
Non sono più io è uno dei brani più introspettivi che ho scritto. Ma l’ho scritto senza pensare troppo a cosa stessi scrivendo. È nato tutto dal momento in cui me ne sono uscito con la frase “non sono più io”. Mi ha incuriosito e, in un momento in cui va tanto di moda la psicologia positiva per cui dobbiamo essere sempre felice, ho ritenuto interessante parlare dell’accettazione delle proprie vulnerabilità e dei nostri momenti di tristezza e di malinconia. Ma non perché voglia fare il bastian contrario, andare in controtendenza o far controinformazione o controcultura: non necessariamente in quei momenti tutto è negativo.
Quei momenti, anche di depressione, portano a un cambiamento. Sono momenti di transizione che, nel bene o nel male, portano a qualcosa di diverso e, quindi, anche all’accettazione delle nostre vulnerabilità e all’essere anche più forti. Tant’è vero che nel ritornello della canzone c’è un’apertura positiva: ma sono in piedi, ancora in piedi… nonostante tutto, mi rimetto in piedi e forse divento ancora più forte o forte in maniera differente.
La presa di consapevolezza è figlia del dato anagrafico che ti riguarda? Hai appena compiuto quarant’anni e a quarant’anni un primo bilancio della propria vita si comincia a fare.
Non sono più io è stato scritto nel 2020. Mancavano ancora due anni ai quaranta ma stavamo lì. Credo che in maniera inconsapevole ci sia stata la voglia di fare un bilancio, tirare una riga e fare i conti. Qualche giorno fa un tuo collega per un’intervista mi ha chiesto se nelle mie canzoni mi sentissi più politico o più introspettivo. Ho risposto che magari a vent’anni mi sentivo più ribelle e tendevo a fare più rumore, tanto per citare Diodato: mi facevo sentire di più… pian piano, però, sono diventato sempre più introspettivo, emotivo, analitico. Dipende dall’età che avanza ma anche dallo psicologo che è in me: sono diventato molto più attento e sensibile a quello che accade dentro di me o intorno a me.
A quarant’anni cominci a notare i primi capelli bianchi o qualche ruga in faccia ma ti vedi anche più adulto. Le domande sono in qualche modo lecite: a volte, escono come fiumi in piena. Ma fa parte anche dell’essere artista in generale: chi ha un animo da artista è anche più sensibile a determinate tematiche e all’introspezione. Quando è uscito Non sono più io, c’è stata una condivisione del brano sui social molto importante: la canzone va a toccare delle corde emotive personali che non sono solo mie ma che appartengono un po’ a tutti. Indipendentemente dell’età, tutti ci rispecchiamo nella domanda di fondo: ma chi sono veramente? Siamo in continua conferma ma anche in continua evoluzione.
Quando ci si pone delle domande si è già nel politico. Una volta a Lucio Battisti chiesero se le sue canzoni fossero più di destra o di sinistra. “Non me ne frega niente. L’importante è che vi emozionino”, fu la risposta. E per me vale la stessa risposta: se scrivo una canzone è perché mi fa pensare, mi fa riflettere o semplicemente mi fa stare bene. Basta una di queste caratteristiche o tutte tre insieme per far sì che poi la proponga al pubblico: ognuno ci si immedesimerà in maniera uguale o diversa. E a me va bene così.
Accettazione delle proprie vulnerabilità. Qual è la vulnerabilità che Jacopo Ratini, da uomo, ha fatto più fatica ad accettare?
Professionalmente, il non scendere a compromessi. Da una parte, è una virtù che mi rende fiero. Dall’altra parte, per chi fa il mio mestiere, è comunque una vulnerabilità: può creare delle frizioni e può mettere delle distanze.
Personalmente, invece, la sensibilità. L’essere molto sensibile e a volte fragile in alcuni momenti mi ha permesso di scrivere delle cose molto vere e anche molto belle, almeno per me. Dall’altra parte, però, mi ha fatto sentire molto di più anche i picchi di down: in qualche modo, mi ha fatto accusare i momenti no e anche di sconforto. Li senti maggiormente quando vivi prima momenti di euforia.
Il video di Non sono più io ha per protagonista un clown che mette in scena la cosiddetta malinconia dell’artista. Perché hai voluto ricorrere alla figura del pagliaccio?
Al clown ho pensato a un secondo momento e non quando è nata la canzone. Una volta scritta, Non sono più io era stata proposta a un altro artista. Quando invece non è stata inserita nel disco a cui era destinata ed è ritornata a me, non me la sono sentita di tenerla nel cassetto e ho pensato di farla uscire io. Si è così cominciato a pensare al videoclip e ho subito immaginato a un artista un po’ atipico che, a differenza di cantanti o interpreti che usano la voce per entrare in contatto con il pubblico, avesse un canale comunicativo diverso: il clown molto spesso non parla.
Me lo sono immaginato allora in tournée: tutte le sere è chiamato sul palco per far sorridere e ridere le persone. Ma come si sente prima di entrare in scena? Come vive la sua vita reale? Come sta nel backstage prima di andare in scena? Chi guarda il video si identifica più nell’artista che sta sul palco oppure nell’uomo in camerino, nel suo momento di riflessione, malinconia, tristezza o nevrosi? Una volta in scena, deve entrare in relazione con il pubblico e forse è questo che lo salva: è il bello del nostro mestiere.
Cosa salva invece Jacopo prima di ogni spettacolo?
Mi vengono in mente due cose. Salvo il mio momento di intimità: prima di andare in scena, cerco di ritagliarmi uno spazio, un momento di introspezione e di meditazione. Cerco di raccogliere le mie energie per poi proiettarle verso gli ascoltatori. E poi salvo l’immaginazione, la visione che ho io della serata: mi vedo che canto una canzone con il pubblico ed è quella l’adrenalina più grande, la benzina per i live. Non è già l’attesa del concerto, con le sue aspettative e le sue proiezioni, il concerto stesso?
Cos’è la malinconia per Jacopo Ratini?
È una zona in cui vivo spesso e ci vivo perché è un luogo creativo. La malinconia per me è un luogo di riflessione e allo stesso tempo un luogo in cui sto male. Vivo grandi momenti di malinconia in cui mi sento vuoto e perso. Ma dopo i trent’anni ho imparato a gestirla in maniera diversa: prima tendevo a rifuggirla, dovevo per forza star bene e mi rifugiavo tra le braccia degli amici, della mia compagna… Con gli anni invece ho capito che sto veramente bene anche in solitudine.
Dal punto di vista creativo, devo tenermi stretta la malinconia ma quando non è creativa devo cercare anch’io di salvarmi. Mi vengono in soccorso le grandi camminate, le passeggiate, le gite fuori porta, una cena con gli amici, un weekend fuori…
Facciamo un salto indietro nel tempo. Hai pubblicato un primo disco con una major ma subito dopo hai fondato una tua etichetta discografica, Atmosfera Dischi. Da dove nasce l’esigenza?
La risposta è semplice. Giocavo in una squadra di calcio da podio, non ero titolare e non servivo perché reputavano altri giocatori più bravi di me. La metafora calcistica mi aiuta a spiegare quello che è accaduto. Per come sono fatto io, scalpitavo perché volevo giocare. Avevo un disco già pronto con canzoni che piacevano anche alla major ma non c’era un tempo di uscita prestabilito.
In maniera molto consensuale, abbiamo allora deciso di separarci e ho fondato la mia etichetta: è figlia dunque di una necessità ma è poi diventata una virtù. Ci ho preso gusto a essere indipendente ma non che prima non lo fossi. Lo ero anche quando ho vinto l’Accademia di Sanremo: è stato per iscrivermi al Festival che ho dovuto firmare con una major. Era il Festival del 2010 e la major ha preferito puntare dopo su qualcun altro, c’era parecchio traffico quell’anno.
Indipendente prima e dopo Sanremo. Quindi, per me sostanzialmente non è cambiato nulla. Certo, in quei due o tre anni con una major ho fatto serate a cachet più alti, ero più richiesto e giravo di più. Ma sostanzialmente non è cambiato nulla: ero indipendente e lo sono tuttora.
Pensi che artisti uomini e donne abbiano le stesse possibilità di affermazione?
Ho sempre pensato che quello musicale sia un mondo maschilista. Solo negli ultimi tempi ho notato, grazie ad artiste che si sono fatte rispettare (penso ad Elodie o ad Annalisa) e che si sono costruite la loro immagine ben definita, come le voci femminili abbiano trovato il loro giusto spazio. Ancora oggi quando si pensa ai cantautori non si pensa alle cantautrici e credo che questo urti molto la sensibilità di molte grandi nostre autrici. Nel mio piccolo, quando ho organizzato delle rassegne, ho sempre cercato di lasciar spazio alle “quote rosa” ma non per una questione di categoria ma di riconoscimento del loro talento.
L’ho fatto e lo faccio quando organizzo ad esempio la serata del 19 febbraio in memoria della mia ex compagna, Selena Palma, morta per un tumore qualche anno fa. La serata è utile alla raccolta di fondi per la ricerca sul tumore ovarico. Quando penso ai nomi da contattare, in un primo momento mi vengono in mente solo uomini ma non mi fermo lì: faccio le mie ricerche e spesso mi imbatto in artiste emergenti molto valide. Mi piace fare anche da scout.
Hai accennato a Selena e alla sua prematura scomparsa. Come sei andato oltre quel momento?
Con il ricordo. In un primo momento, mi sono subito ributtato nel mondo del lavoro ma a distanza di mesi ho accusato il colpo. Sono passati ora nove anni e quando penso a Selena la prima cosa che mi viene in mente è l’energia che aveva: è qualcosa che mi ritrovo nella mia vita, è diventata il combustile delle cose che faccio. Ho superato quel momento con un bel ricordo, diventato tra l’altro anche un ricordo creativo che mi ha fatto scrivere due canzoni dedicate a lei, nate quasi come uno sfogo. È come se quelle parole me le stesse suggerendo lei. Conservo un gran bel ricordo di Selena e di tutto quello che c’è stato, degli insegnamenti di vita (era molto più avanti di me) e della saggezza.
Perché vuoi rinascere come Yoko Ono?
È il titolo scelto dall’editore all’epoca per la pubblicazione di una raccolta di mie poesie. Era una scelta di marketing, anche paracula, quella di scegliere il verso di una delle poesie: se rinasco voglio essere Yoko Ono per capire cosa si prova a rubare John Lennon ai Beatles… era ovviamente una poesia provocatoria sul desiderio che abbiamo tutti quanti di rinascere nei panni di qualcun altro. Il riferimento a Yoko Ono nasceva dalla visione negativa che tutti abbiamo di lei considerandola responsabile dello scioglimento dei Beatles. Mi sono voluto informare e ho fatto le mie ricerche: diciamo pure che è stata una delle concause ma non la causa principale.
Hai abbandonato la poesia?
No, negli anni ho avuto voglia e tempo di scrivere una seconda raccolta, che ancora non è stata pubblicata. Ogni tanto pubblico qualcuna delle nuove poesie, a pillole, sui social. Prima o poi, comunque, uscirà.
Hai scritto anche un’audiofiaba, Il pescatore di sogni. Se potessi tu pescare un sogno, quale sarebbe?
Da artista, sogno che ogni mia canzone, che esce o che uscirà, venga ascoltata e portata a conoscenza di più persone possibili. In un mondo discografico in cui solo in Italia escono mille canzoni e podcast al giorno, è difficilissimo farsi ascoltare e riconoscere: il mio sogno è quello di raggiungere più orecchie possibili, permettendo anche a chi non mi conosce di scoprire tutto il lavoro che è stato fatto anche nel corso degli anni. Jacopo Ratini non è solo quello di Su questa panchina, presentata a Sanremo.
Quanto sei legato all’Accademia del Songwriting?
L’Accademia del Songwriting è qualcosa che ho voluto tanto e che voglio tuttora. Molti giovani non hanno la guida giusta o non la trovano. Ed è importante pensare a chi, soprattutto nell’adolescenza, deve scegliere il proprio futuro o, meglio, pensa di sceglierlo. Se avessi avuto una persona che mi avesse dato i giusti consigli o mi avesse avvertito su come si suppone funzioni questo mondo, mi sarei risparmiato anche molte energie e molta fatica. Ai giovani provo a spiegare a 360° come funziona il mondo della canzone, dalla scrittura alla promozione, da come si scrive una canzone a come relazionarsi con gli uffici stampa e i giornalisti. Ma anche l’importanza della gavetta e dei valori come l’umiltà. Fortunatamente, ci sono ancora dei giovani che vogliono imparare.
Non pensi che la tua attenzione verso i giovani sia dettata anche da un desiderio di paternità che incombe?
I miei consigli sono quelli del fratello maggiore. Ritorna un po’ l’età anagrafica in questo: non mi sento di aver quarant’anni, me ne sento sempre massimo 27. Comunque, il desiderio di paternità potrebbe essere una sorta di richiamo ancestrale, un po’ inconscio: riparliamone tra qualche anno, quando sarò padre. Definisco spesso le lezioni di songwriting grandi sedute di psicoterapia applicate al mondo della creatività: torna fuori, ancora una volta, lo psicologo che ho dentro! Il mondo dell’analisi è qualcosa che alla fine non ho proseguito non per mia volontà: è stata la vita a portarmi a fare altro, a scegliere una strada diversa.
Ma ricordi perché avevi scelto proprio Psicologia all’università?
Per tre ragioni. Ero innamorato della figura di Dylan Dog: volevo fare il criminologo come lui. Pensavo fosse figo come lavoro: ricordo che guardavo sempre Chi l’ha visto? o i documentari che avanzavano ipotesi su questo o quel fatto, mi piaceva tantissimo la psicologia che si celava dietro.
E poi ero affascinato dalle figure degli psicologi che venivano a fare sportello di consulenza nel mio liceo. Ero uno dei pochi che andava da loro, a parlare, a raccontare i propri fatti… Mi affascinavano quelle persone che venivano a parlare con i giovani e le dinamiche che si istauravano durante le sessioni.
La terza ragione, infine, era più pratica. Ricordo che quando finì il liceo mi fu detto che dovevo fare qualcosa di musicale, tipo il Conservatorio. Ma sarebbero stati 10 o 15 anni di studio, una scelta un po’ troppo impegnativa. Psicologia era al secondo posto delle mie preferenze e, pensando anche all’accessibilità, ho finito per optare per quella. Anche perché all’epoca la professione di musicista non era così alla portata di tutti. Per fare un disco dovevi tirar fuori un sacco di soldi, trovare un’etichetta che investisse su di te : oggi un disco lo fai in tre minuti con due euro…
Il desiderio di introspezione è però sempre rimasto forte in me. Se vogliamo, faccio un lavoro simile a quello dello psicologo: cantare o scrivere di emozioni e sentimenti ha sempre a che fare con la psiche umana.