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Jeson, la cura sbagliata di una generazione alla ricerca di risposte – Intervista esclusiva

Jeson
Autore della hit La cura sbagliata, il venticinquenne Jeson affronta uno dei temi più delicati e sottovalutati di sempre: la salute mentale. E lo fa cantando della sua esperienza personale, convinto che la musica serva anche a trasmettere sicurezza e a far sentire meno soli chi vive una condizione simile alla propria. Lo abbiamo intervistato in esclusiva.
Nell'articolo:

Jeson ha solo 25 anni ma scrive poesie e testi sin da quando era solo un tredicenne. Il suo nome sicuramente dice molto a chi ama Marco Mengoni: appare come feat nell’album Materia Prisma per il pezzo Lasciami indietro, uno dei più struggenti del progetto.

All’anagrafe Daniele Fossatelli, Jeson (o Giasone, come lo chiama Mengoni forse in ricordo di quel vello d’oro ricercato dagli Argonauti) è nato a Roma nel 1998 ed è cresciuto in periferia, nel quartiere Cinecittà, dove non sempre la musica viene vista come un “lavoro”: è più facile considerarla come un passatempo, una definizione che Jeson rifiuta con tutto se stesso. La musica, nella sua ottica, è un lavoro che serve anche a lanciare messaggi e ad aiutare chi vive condizioni simili a chi l’ha composta.

Musica come specchio anche di insicurezze e paure, qualcosa che per Jeson ha un valore molto personale. Uscito lo scorso 22 settembre, l’ultimo singolo di Jeson si chiama La cura sbagliata (Epic Records/Sony Music Italy) ed è un urlo disperato che affronta un tema importante: quello della salute mentale raccontato in prima persona dall’artista. Prodotto da MDM, La cura sbagliata sottolinea anche il valore dell’amore e della condivisione nella vita di ciascuno.

E di tutto ciò Jeson è consapevole. Per mesi, ha cercato di risolvere alcuni dei suoi problemi con se stesso ricorrendo alla psicoterapia e all’uso di psicofarmaci. Ma, anche smettendo di vedere il suo terapista, ha continuato ad assumere le medicine prescritte per paura di una ricaduta se solo avesse smesso. Ma lasciamo che a raccontarci sia lo stesso Jeson, in una delle sue interviste più intime e sincere.

Jeson.
Jeson.

Intervista esclusiva a Jeson

Come nasce La cura sbagliata?

La cura sbagliata ha le sue radici nel periodo in cui ho scoperto la psicoterapia. Avevo dei problemi, se così vogliamo chiamarli, anche abbastanza comuni che ho cercato di affrontare attraverso un percorso di terapia con il mio psicologo… psicologo che adesso non vedo più ma che mi servirebbe ancora, dal momento che mi sono rimaste ancora alcune cose da capire. In linea generale, penso che uno psicologo servirebbe a tutti, a prescindere dalla natura dei problemi: il dialogo è essenziale, con gli altri ma anche con se stessi. Psicologo o psicoterapeuta possono capirci e consigliarci senza alcun interesse o vantaggio rispetto magari a chi ci circonda.

La cura sbagliata è però una sorta di urlo, più o meno disperato, contro quel meccanismo che trasforma la cura in dipendenza. Quando hai capito che stava per accadere anche a te?

Quando ho cominciato ad avere paura di interrompere l’assunzione degli psicofarmaci che mi erano stati prescritti come cura. Prendo ancora quella “roba” proprio per timore di ricadere nei problemi che avevo prima qualora smettessi ma è un meccanismo contorto e sbagliato… per cui la paura della ricaduta mi porta a seguire la cura anche se non vedo più lo psicologo. È questa anche una delle ragioni per cui punto a ricordare che il dialogo è molto più importante di qualsiasi altra medicina da assumere.

Occorre partire dal dialogo sincero con se stessi: è solo mettendolo in pratica che diventerà meno complicato dopo parlare con gli altri. Guardiamoci dentro con sincerità e, una volta fatto, cerchiamo di aprirci a chi ci sta intorno. Con ciò non voglio demonizzare la terapia, anzi: il suo ruolo è importante proprio perché lo specialista è colui che non ha alcun interesse nel darti una risposta di comodo o sbagliata.

Di psicofarmaci avevi parlato anche in una canzone di due anni fa, Lexotan. Cos’è cambiato da allora?

Lexotan faceva parte di un progetto uscito durante la pandemia. Quello è stato un momento abbastanza strano sia per il Daniele persona sia per il Daniele artista. La ricerca interiore è sempre stato uno dei punti cardine anche della mia scrittura ed è naturale che, anche a distanza di tempo, torni fuori un argomento che sembra somigliare a un altro… nel frattempo, però, sono cambiato io. Considero La cura sbagliata come una canzone d’amore: per affrontare determinate situazioni, devi avere accanto qualcuno che ti comprende e che ti fa aprire gli occhi.

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A 25 anni la ricerca di serenità o equilibrio interiore è una priorità…

Non voglio fare il guru della situazione ma il mio obiettivo era quello di capire chi sono prima del previsto. Musicalmente, mi sembra di essere sulla giusta strada per riuscirci: con la mia musica e i miei testi mi auguro di usare la mia esperienza per diffondere messaggi come la sicurezza e la voglia di combattere. Ho cominciato a scrivere abbastanza presto, già a 13 anni. Mi ha aiutato ad aprire gli occhi ma anche a comprendere cosa potessi cambiare o meno di me. La scrittura mi ha portato a prendere in esame la mia personalità, spinto a cambiare e formato mentalmente.

Quali aspetti del tuo carattere ha smussato, cancellato o aperto, la scrittura?

Di sicuro, mi ha reso una persona molto più sicura di sé… e mi sembra una grandissima valutazione. Ho sempre seguito quell’istinto che mi porta ad avere voglia di fare musica nella vita. Sento che questo è il mio percorso e non mi importa se sto sotto gli occhi di tutti, se devo concedere interviste o parlare di me, dopo aver scritto di me: parto dalla consapevolezza che i miei testi possono essere di riflesso a ciò che sta vivendo qualcun altro. Dopotutto, certi compromessi possono essere accettati se ti aiutano a essere chi sei nella vita.

Cos’è che ti dava insicurezza?

Ho avuto i miei problemi legati al periodo adolescenziale. Alcuni li ho risolti mentre altri sono lì che aspettano di essere affrontati e che delle volte riemergono: non cambiamo da un giorno all’altro, purtroppo. Erano problemi fondamentalmente connessi al fatto di sentirsi piccolo rispetto a quelle che reputi le tue capacità. Nel ripensare ai momenti in cui mi sentivo insicuro per aspetti che oggi sono invece la mia forza mi sembro quasi stupido… ma allora sembrava tutto gigantesco e insormontabile. Parte di quel sentirsi inadeguato è ancora presente ma vado avanti.

Jeson.
Jeson.

Il sentirsi inadeguato nasce dal giudizio che viene dagli altri o da quello che hai nei confronti di te stesso?

Nell’affrontare il mio percorso artistico, sto scoprendo lati di me che non pensavo ci fossero. Sentire un po’ di insicurezza quando ci si espone così tanto è inevitabile. Però, al tempo stesso, mi rendo conto che quello che giorno dopo giorno sto facendo è grandioso: mi sto mettendo in gioco e non ascolto più quella vocina che prova ancora oggi a dirmi che potrei non essere adeguato e che potrebbero esserci altri più bravi di me.

Provo semmai ad ascoltare maggiormente me stesso e valutare i primi riscontri avuti. Solo ora sto capendo che il mio viaggio è reale e non è un sogno o pazzia. In passato, mai nessuno mi diceva se ero bravo o meno, oggi qualcuno c’è: sono in carreggiata e continuerò a esserlo per arrivare al mio obiettivo e quel senso di sicurezza che voglio trasmettere.

Che peso ha per te la parola “coraggio”?

Il coraggio per me è tutto. Chi non trova il coraggio di fare determinate scelte, non saprà mai come sarà, rischiando di vivere di rimorsi. Credo di aver avuto coraggio diverse volte, tant’è che proprio “coraggio” è un termine che torna spesso nei miei vari brani… il coraggio di mettersi in gioco è ciò che per me e per come tanti altri artisti che vengono dal nulla permette di farsi largo nel mondo della musica.

Sei cresciuto nella periferia romana…

Ho vissuto tanto Roma e c’è tanto di Roma nei miei brani. Sono cresciuto a Cinecittà, in periferia, ed è lì che ho cominciato a scrivere musica, affidandomi quand’ero piccolo a quelli che erano i gusti di mio padre. Crescendo, ho però capito che l’hip hop e il rap erano la strada giusta per me: mi permettevano di esprimere tutte le mie emozioni senza alcuna censura… Non è stato facile far capire agli altri che volevo far musica nella vita: per tante persone, la musica non è un lavoro come gli altri, ignorando come dietro vi siano la fatica immensa e l’anima di tantissime persone.

Non smetterò mai di ringraziare il mio attuale produttore, MDM: il progetto Jeson si basa proprio sulla nostra conoscenza. L’ho conosciuto a Roma e lo incontravo per le mie prime sessioni che, da normale cliente, pagavo… finché un giorno non ci siamo resi conto che insieme potevamo fare qualcosa di unico. Abbiamo cominciato allora a collaborare per progetti che venivano iniziati, cancellati e iniziati nuovamente. Eravamo arrivati a un EP di cinque brani che volevamo far uscire ma il CoVid ha rallentato i nostri piani fino al giorno in cui abbiamo pubblicato nel 2021 Fuori da un oblò.

L’attenzione catturata ci ha anche aiutati a capire quello che volevamo fare, virando verso il pop e gettando le basi dei brani che pian piano usciranno e che hanno quell’identità che ho sempre sognato di dare alla mia musica. Fin quando non hai una tua identità, sei solo uno tra tanti che spera di farsi notare nel mucchio. E oggi credo di avere una mia identità: quando mi riascolto, non mi annoio… anzi, sono soddisfatto delle mie canzoni e ne vado fiero: è una vincita per me.

Jeson.
Jeson.

Domanda banalissima: come mai avete scelto Jeson come nome d’arte?

Risposta ancora più banalissima: mi piaceva. La “e” dava poi quel tocco un po’ più artistico e, quindi, “scriviamolo come si pronuncia”.

Hai trovato la tua identità a livello personale?

Ho sempre solo 25 anni… non l’ho ancora trovata ma ci lavoro. Per me, non è scissa da quella artistica: non si tratta di due sfere differenti. L’una influenza l’altra.

Nel lavoro che fai su te stesso, hai capito se sei più istintivo o razionale?

Razionale. È tutto molto ragionato: sono il primo ad accorgermi dei miei limiti e a voler affrontarli. Esamino molto me stesso ma anche gli altri, senza però mai permettermi di dire che li conosco. Mi bastano però pochi attimi per capire determinate sfumature del loro carattere.

E in questa presa in esame che peso dai alla parola “diverso”?

Essere diversi è un pregio. Purtroppo, nella società in cui viviamo, la diversità è spesso paragonata a qualcosa di negativo. A livello artistico, il diverso piace: anche se inizialmente non viene capito, si fa lo sforza di comprenderlo e di trasformarlo anche in un marchio. A livello personale, invece, si fa più fatica a entrare in collegamento con chi non capiamo proprio perché diverso da noi: occorre sempre fare un passo in avanti da entrambe le direzioni.

Nessuno ti aveva mai detto se eri bravo o no. Come hanno preso i tuoi genitori la scelta di far musica?

Mio padre era scettico. Si è rassicurato soltanto nel vedere che comunque me la sto cavando. A oggi, sono molto soddisfatti del mio percorso. È vero che lo faccio solo per me stesso ma è bello condividere chi sei e cosa fai con le persone a cui vuoi bene. Se non lo condividi, il successo è inutile.

Se avessi una di quelle palle magiche per vedere il futuro, cosa vedresti?

Tanti bei concerti con tante persone contente di pagare un biglietto per ascoltare la mia musica. Mi piacerebbe vedere la mia musica in cima al mondo: è quello a cui ho sempre creduto e per cui farò di tutto per cercare di farla arrivare a quanta più gente possibile. La mia scrittura è terapeutica non solo per me ma anche per gli altri: so per certo di aver cucito molte ferite così come molte sono state ricucite a me da canzoni di altri, spesso artisti emergenti. Viviamo in un momento in cui si dà poco peso ai testi ma per me, insieme alle linee melodiche e all’interpretazione, sono la chiave di una bella canzone.

Jeson.
Jeson.
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