Jonis Bascir si è distinto nel panorama televisivo e cinematografico italiano non solo per il suo talento, ma anche per la sua unica prospettiva culturale. Attualmente impegnato nella serie tv di Canale 5 Viola come il mare 2, dove interpreta il personaggio di Osman Demir, Jonis Bascir porta sullo schermo una complessità e una profondità che sfidano le tradizionali rappresentazioni degli attori con origini straniere nell'industria dell’audiovisivo.
Oggi, Jonis Bascir condivide con noi la sua esperienza nel settore, riflettendo su come la sua identità italo-somala abbia influenzato la sua carriera e le opportunità che gli sono state offerte. Parleremo delle sfide che ha incontrato nel rappresentare personaggi che si discostano dagli stereotipi prevalenti e di come la sua partecipazione a produzioni mainstream e indipendenti abbia contribuito ad anticipare quel cambiamento nel panorama televisivo e cinematografico in Italia che tutti quanti auspichiamo.
Con una carriera che abbraccia la recitazione, la musica e la composizione, Jonis Bascir rappresenta una voce potente e necessaria nell'arte italiana contemporanea, impegnato a sfidare le aspettative e a ispirare cambiamenti nell'industria. Ma, man mano che l’intervista procede, la conversazione non può che vertere sulla sua esperienza di vita privata, segnata dall’assenza del padre ma anche dalla presenza delle tante donne che lo hanno accompagnato.
Intervista esclusiva a Jonis Bascir
“Mi hanno chiamato in tutte le maniere tanto che faccio un monologo in cui racconto tutti i modi in cui l’hanno fatto: sono abituato”, scherza subito Jonis Bascir quando, dopo averlo salutato, gli chiedo se ho pronunciato in maniera corretta il suo nome. “Certo, se sbagliano il tuo nome tra i titoli di un film di cui sei tra i protagonisti, un po’ ti innervosisci”.
Ti stiamo vedendo tra i protagonisti della serie tv di Canale 5 Viola come il mare 2, dove interpreti il personaggio di Osman Demir. Chi è?
Osman è sicuramente un personaggio intrigante e intricato. Ha tante sfaccettature e proprio per questo desta curiosità la sua apparizione. Molto elegante, è un avvocato, ha una certa formalità e al tempo stesso un carattere abbastanza forte che lo mette nelle condizioni, situazione che si verifica spesso, di essere incapace di gestire nel modo giusto alcune cose di natura affettiva, anche se è sempre in buona fede. Ovviamente, la sua incapacità di gestire le emozioni crea, pur non volendo, dei problemi agli altri, soprattutto alle persone con cui si rapporta e a cui vuole bene.
Osman è un avvocato, finalmente aggiungo. Finalmente perché nella rappresentazione di certe identità culturali nella serialità o nel cinema italiano alcune professioni, quelle più nobili, venivano ignorate. È ancora così difficile per un attore italiano non bianco interpretare personaggi come il medico, il commercialista o il ministro?
È un argomento che tratto anche nel monologo che porto in giro da tantissimi anni: dove mi chiedo come mai non possa interpretare un medico o un poliziotto in scena. In Viola come il mare c’era già uno straniero protagonista che ricopre il ruolo del poliziotto ma per far sì che questo avvenisse hanno dovuto prendere un attore tanto amato e meno caratterizzato dal punto di vista delle origini. Di fatto, l’assenza di determinati ruoli per certi attori è di fatto un ritardo culturale: per molto tempo ho sperato il gap fosse colmato (di certo, oggi va meglio) ma ho finito con il perdere le speranze.
Solo negli ultimi anni ho interpretato diversi personaggi italiani, persino romani, ma scommetto nelle generazioni che verranno per cambiare l’immaginario collettivo italiano. È lì che risiede il problema e a ciò si appellano sceneggiatori e registi finché si parla di mainstream: per le produzioni indipendenti o di nicchia, vale invece tutto.
Negli Stati Uniti negli ultimi anni è cambiata molto la composizione dei cast grazie anche alle piattaforme. Credi che abbiano contribuito comunque a sdoganare un certo tipo di rappresentazione anche in Italia?
Ho delle riserve sul cosiddetto sistema delle quote destinato alle diversità: la meritocrazia e il talento dovrebbero essere le chiavi per la composizione di un cast. Ma, fino a quando l’immaginario collettivo non cambia, che ben vengano le forzature: permettono al grande pubblico di abituarsi a certi volti e di accettarli. È un po’ come un cane che si morde la coda: nel momento in cui il grande pubblico lo accetta, anche chi scrive, pensa o dirige progetti arriva a pensare che sia giusto mettere in atto un’inversione di tendenza rispetto a ciò che è rimasto inchiodato per tanti anni.
Sei per metà somalo e per metà romano. Quando ti viene chiesto di interpretare un turco, non si crea confusione culturale?
Un po’ come quando tutti i neri che arrivavano in Italia erano marocchini… c’è una bella differenza culturale e così facendo non si va a educare in senso positivo ma a minare la cultura della gente. C’è stato un momento in cui avevo anche deciso di non accettare più certi ruoli ma avrei dovuto purtroppo cambiare lavoro: con una famiglia e tre figli non potevo permettermelo.
Di certo, se recitassi nel mio dialetto, avrei delle sfumature più ampie che mi permetterebbero di aggiungere qualche coloritura in più che chi non conosce bene quella cultura non può aggiungere. È la cosa a cui più anelo perché non posso conoscere in maniera profonda tutte le diverse culture che con i miei personaggio ho attraversato in questi anni, da tutto il Nord Africa al Sud America. Ma guardo anche l’aspetto positivo: ciò mi ha permesso di fare un lavoro pazzesco sui personaggi che magari altri, sempre uguali a se stessi, non hanno fatto. Ogni volta, mi sono divertito nel dovermi riadattare e reiventare, giocando ad esempio con gli accenti, dal francese all’inglese all’arabo. Se vogliamo vederci un lato positivo, direi che mi sono specializzato negli accenti, italiani compresi.
Ma ciò non ti fa sentire sempre “precario”?
Un attore è precario di natura. Detto ciò, le difficoltà hanno di certo minato le mie possibilità ma, come ripeto in una parte del monologo che si chiama Beige, l’importanza di essere diverso, ho avuto la fortuna di rendere positiva la mia diversità e di usarla al meglio senza farmi schiacciare. Molta gente che conosco ha smesso di lavorare come attore proprio per via della sua diversità: penso ad esempio a tante attrici africane a cui hanno sempre e solo offerto il ruolo della prostituta…
Ho sempre cercato di evitare di finire imbrigliato nello stereotipo ma il pericolo è che, se nei database di buona parte dei casting non mettessimo la parola magica “arabo” o “sudamericano”, le nostre facce non verrebbero mai fuori. Diventa così una sorta di mobbing virtuale perché in pratica non siamo messi nelle condizioni di poter giocare a fare un ruolo qualunque italiano, terra in cui sono nato, sono cresciuto e ho quasi sempre vissuto. Lavorerò fino al giorno in cui qualcuno capirà che anch’io posso essere un Mario Rossi qualunque, senza spiegare le mie origini, chi è mia madre o chi è mio padre, anche se tuttora continuano a esistere frange politiche che non accettano ancora l’idea dei nuovi italiani.
Sinceramente, è il pubblico o sono sceneggiatori, registi o produttori che faticherebbero a vederti nei panni di Mario Rossi?
Vale quanto detto prima: è un cane che si morde la coda. Le due parti si influenzano a vicenda: se venisse accettata l’idea nell’immaginario collettivo, probabilmente chi scrive, dirige o produce si sentirebbe più a suo agio nel descrivere, inserire o scegliere un personaggio come me… ma anche viceversa: se un personaggio come me fosse descritto in maniera diversa, il pubblico comincerebbe a mostrare più solidarietà.
Ci stiamo pian piano lavorando ma siamo in ritardo rispetto ad altri Paesi: non che in USA sia stato risolto il problema del razzismo e delle diversità ma Denzel Washington può ricoprire il ruolo di poliziotto protagonista senza che nessuno si indigni. Mi auguro che con i nuovi italiani, ancora molto giovani, muti tale immaginario non solo nel pubblico ma anche nei broadcast, nei produttori e nei distributori: alla fine, sono loro a decidere molto.
Hai cominciato con il tuo percorso da attore intorno ai trent’anni.
Non molto tardi ma neanche tanto presto. Forse un po’ tardi per i tempi in cui ho iniziato a farlo: non ero proprio un ragazzo.
Cosa ti ha portato verso la recitazione?
Ho alle spalle una formazione abbastanza variegata che verte sul mondo delle arti e della comunicazione a 360°, anche se poi quello che mi ha permesso di vivere è stata soprattutto la recitazione, almeno fino a ora: negli ultimi anni, ha sempre preso più piede la mia attività di musicista e di compositore, quasi parallela a quella di attore. Diciamo pure che ho cominciato a recitare per sbaglio: avevo lavorato molto nell’ambito della moda dimostrando di avere una certa attitudine allo spettacolo (cantavo, suonavo, scherzavo, giocavo) e i tempi comici giusti per determinate attività, quando, mentre mi trovano con mio amico che faceva il mio stesso lavoro in un bar storico vicino al Teatro delle Vittorie, questi nel ricevere un messaggio dalla Rai mi ha chiesto se volessi andare con lui.
Sono andato, ci siamo presentati e abbiamo lasciato le nostre foto. Misteriosamente, sono stato poi richiamato io e non lui: da un giorno all’altro, mi sono così ritrovato all’interno di un programma di Gigi Proietti che si chiamava Di che vizio sei?. Tra tanti attori che avevano fatto il laboratorio di Gigi, alcuni anche consumati e noti, Proietti mi ha notato, inspiegabilmente aggiungerei: gli sono piaciuto e, nonostante non avessi esperienze alle spalle, si sono inventati un personaggio per me. Da persona lavorativamente molto duttile e facilmente plasmabile, è andata bene: andavo, facevo, guardavo e apprendevo… sono nati così i fratelli Wafer, due fuori di testa che camminavano attaccati l’uno all’altro, catapultandomi in un programma di prima serata su Rai 1.
Hai cominciato per sbaglio ma non ti sei più fermato.
Credo sia stata la capacità di metterci una mia energia a colpire Proietti… e pian piano il nostro personaggio ha ottenuto sempre più spazio all’interno della trasmissione, segno che funzionava.
Hai citato prima la parola meritocrazia: pensi che a Proietti sia stato riconosciuto il giusto valore?
Gigi Proietti è riconosciuto come un grande ma secondo me è ancora più grande di quanto sia riconosciuto. Da un certo cinema, non è stato abbastanza valorizzato tanto che diversi aspetti della sua formazione e della sua poliedricità molta gente li avrà scoperti dal documentario girato da Edoardo Leo su di lui, Luigi Proietti detto Gigi. Dal mio punto di vista, lo considero – come tanti altri – un maestro ma anche di più, qualcosa che a parole non si può spiegare: gli devo tanto e gli sarò sempre riconoscente perché ho imparato più con lui in poco tempo che in tante altre situazioni.
Negli anni mi ha poi richiamato per la serie tv Villa Arzilla e abbiamo lavorato insieme a teatro, occasioni che mi hanno dato l’opportunità di assorbire molto: mettere in scena uno spettacolo con Proietti equivale a dieci anni di una scuola o di un’accademia.
Riconoscenza, bella parola… poco usata e poco praticata.
La gratitudine forse non è di moda ma più vado avanti più capisco quanto sia fondamentale riconoscere ed essere grati a chi ti hanno da qualcosa di importante per la tua realizzazione come artista e come persona in generale. E, quindi, devo sicuramente tantissimo a Gigi Proietti, senza ombra di dubbio, così come negli ultimi anni devo tanto anche a Edoardo Leo: siamo amici e grazie alla nostra amicizia ho imparato molto anche da lui, sebbene sia più giovane di me.
Ma l’amicizia non è una questione anagrafica ma di come sei, delle qualità che hai e delle skills che uno ha e l’altro no. Nel lavoro, Edoardo è molto più pragmatico di me, ad esempio, ragione per cui considero alcune delle cose che mi dice importanti e illuminanti. Devo molto anche a Marco Risi, il primo ad avermi scelto per la composizione della colonna sonora di un film, Tre tocchi. E sono grato anche a tutti coloro che nella mia vita mi hanno messo in condizione di fare cose belle e interessanti.
È sempre bello sentir parlare di amicizie al maschile, di complicità, di riconoscenza e di gratitudine…
Tra me ed Edoardo Leo c’è un grande affetto. Questo ci ha permesso tra l’altro di mettere su uno spettacolo che di fatto è il suo, Ti racconto una storia, con le mie improvvisazioni musicali che gira per l’Italia da nove anni. Siamo partiti da un pub sulla Casilina con cinquanta persone davanti fino ad approdare sul palco dell’Ariston a Sanremo o all’Auditorium di Roma, dove la settimana prima aveva suonato Ben Harper e quella dopo lo avrebbe fatto Herbie Hancock. La nostra simbiosi sul palco si evince subito: pur non avendo mai fatto prove, ci conosciamo così bene che basta guardarci l’uno con l’altro, con un’intensità e una forza che arriva anche al pubblico in sala.
Pubblico che ti ama parecchio. Quando hai avuto la percezione di essere così tanto amato?
Ho iniziato subito bene ma grazie a Un medico in famiglia ho avuto e ho ancora oggi un riconoscimento d’affetto del pubblico che è pazzesco, esagerato quasi. Quasi lo stesso di quello che sto provando oggi grazie alla serie tv Il clandestino, dove interpreto un bel personaggio dal quale mi sta tornando un feedback molto, molto bello. Ma sono arrivati già anche le prime manifestazioni di calore per Osman in Viola come il mare 2. Quando si lavora su scritture che ti permettono di fare qualcosa di interessante, il pubblico si affeziona e ti riconosce quest’affetto.
Il clandestino, per ritornare da dove eravamo partiti, presenta un racconto molto forte in cui l’inclusività è reale e non finta.
Certi racconti si possono fare quando una scrittura, un regista come Rolando Ravello e interlocutori che sono coraggiosi.
Guardando al tuo passato, ti sei mai sentito coraggioso?
Sì, soprattutto se ripenso ai primi anni in cui ho cominciato quando, incontrando un ragazzo che aveva fatto l’attore e anche il modello, questi mi scoraggiò all’idea di proseguire perché stavo, appunto, cominciando tardi: “Ti ritroverai solo a far ruoli di contorno, non è un lavoro su cui vale la pena di investire”. Ma io da caparbio e testone, lento ma inesorabile, sono andato avanti.
Da bambino, per un periodo limitato di tempo, hai vissuto in Somalia. Hai ricordi nitidi legati a quel periodo?
Ho dei ricordi nitidissimi e ben chiari, anche di tutto quello che facevo, della gente e delle strade. Di recente, ho aperto Google Earth per vedere se mi ricordavo ad esempio dove fossero le vie: sono andato a cercare la casa in cui abitavo…
Sei più ritornato negli anni lì?
No, ma un giorno ho avuto l’illuminazione di farlo con Google Earth, appunto. Ed è stato un colpo al cuore: ho ritrovato i miei posti… la situazione in Somalia è alquanto drammatica, si muore facilmente lì, e quindi non è il caso che io vada per il momento ma spero prima o poi di farlo.
Che legame hai con le tue radici?
Mio padre ha vissuto pochissimo, quasi niente, con me e non ha dunque avuto modo di trasmettermi più di quello che poi avrei potuto apprendere. Ho vissuto in Somalia per cinque anni, poco se vogliamo, ma sento le radici nel mio DNA: ci sono tante cose che mi legano a quella terra, anche se poi culturalmente sono molto romano. Essendo cresciuto con mia madre, ho frequentato fondamentalmente i sobborghi di Roma, trascorrendo l’adolescenza alla Montagnola. Sono un ragazzo cresciuto nei quartieri “allegri” ed è ciò che mi ha dato la forza di sapermela cavare sempre.
L’aver vissuto poco o niente la figura paterna ha inficiato il rapporto che da adulto hai avuto con i tuoi figli?
In qualche maniera, ho cercato di dare ai miei figli tutto ciò che mio padre non è riuscito a darmi: la presenza, il sostegno, l’affetto e l’amore. Ma anche la fiducia e la sicurezza, che io non avevo. Avevo dieci anni quando mio padre non c’è più stato e fino a quando avevo vent’anni ci siamo visti sporadicamente, quelle volte che altre esigenze veniva in Italia. Nei successivi vent’anni, non l’ho più rivisto: ci siamo incontrati nuovamente quando di anni ne avevo quaranta. E la sua assenza ha di certo condizionato il mio essere padre: era facile non far più danni di quanti lui ne avesse fatto con me ma per riuscirci ci ho messo molto del mio.
Avvertivi in quegli anni la mancanza di una figura maschile di riferimento?
Sì, e ho covato rabbia nei suoi confronti per tanti anni: ci ha abbandonati e la rabbia era inevitabile, l’ho anche raccontata nella prima canzone che ho scritto, Rabbia, appunto. Lo scrivere canzoni si è rivelato però in qualche modo terapeutico tanto che a un certo punto ho scritto Vieni, padre: era per me importante che lo facesse per completare l’uomo che ero a trent’anni, per definire alcune mie caratteristiche.
Per ironia della sorte, è morto poco tempo dopo che ci eravamo rivisti ed è seppellito a tre chilometri da casa mia. Ma nel periodo in cui ci siamo frequentati ho avuto con lui un dialogo molto diretto, ponendogli anche domande importanti e cercando di capire come fosse per scoprire tante cose che non conoscevo ma che erano tipiche del mio carattere. Ho preso da lui, ad esempio, il senso dell’ironia e dell’umorismo molto sviluppato…
Se non avessi fatto quel passo forse non sarei l’uomo che sono oggi. Per me, è stato come rimettermi in gioco, tra l’altro in un periodo della mia vita in cui stavo lavorando su me stesso ed ero in terapia. Poiché credo che nulla capiti per caso, quell’incontro ha come accelerato la stessa terapia. Da quel momento in poi è cambiata totalmente la mia vita.
Ovviamente, grande ruolo nella tua vita ha ricoperto tua madre. Ha influenzato la sua figura il tuo rapporto con il femminile?
Sicuramente, sì. Mia madre ha avuto la forza di tirare su noi figli senza chiedere una lira a mio padre o una al secondo marito da cui aveva avuto un altro figlio. Ha sempre lavorato e mantenuto noi tre da sola. Ma non c’era solo mia madre: sono cresciuto in mezzo alle donne e ciò ha provveduto a formarmi in una certa maniera. Mi è stato detto più volte che ho una parte femminile molto sviluppata, nonostante all’apparenza sembri un uomo integerrimo e tutto d’un pezzo: forse è solo una maschera dietro la quale mi sono nascosto ma negli ultimi anni ho scoperto che non andava fatto, lasciando scoprire lati inediti di me. Mi sento molto più tranquillo e sicuro, forse… Mia nonna è stata ad esempio fondamentale ma anche le cugine con cui ho vissuto che erano per me come sorelle o mia sorella stessa.
Dove cercavi quella figura maschile che mancava?
Un po’ me la sono disegnata da solo: è come se avessi preso i tratti dei padri dei miei amici e di tutti coloro che mi restituivano qualcosa, e me la fossi ricreata. In ciò, la figura di Gigi Proietti è stata determinante.
Hai raccontato la tua esperienza di vita ai tuoi figli?
Sì, sanno tutto. abbiamo un rapporto molto aperto e ho raccontato loro ogni esperienza, a eccezione di quelle da quartiere “allegro”: mi hanno vietato di farlo a casa per evitare il rischio emulazione. Lo farò anche quando il terzo dei miei figli, oggi undicenne, sarà grande (ride, ndr). Dopo due figlie femmine, è con lui che sto vivendo l’emozione di avere uno scambio affettivo diretto da maschio a maschio.
Ecco, forse una figura fondamentale maschile che è sempre stata nella mia testa è quella di mio nonno paterno: è stato per me un faro per ciò che ha fatto. Persona carismatica, è stato il primo Presidente dell’Assemblea Somala dopo l’indipendenza, oltre che poi Ministro della Salute e leader religioso: il fatto che venendo in Italia non parlassi più il somalo e non fossi musulmano lo faceva imbestialire non poco. Per me, è stato un grande esempio per capire come affrontare le difficoltà.
Nel personaggio di Osman hai messo molto del tuo rapporto padre-figlio. Ma nel tuo presente e futuro non c’è solo Viola come il mare 2 ma anche la musica.
Sono ripartito con un progetto mio, Jazz Club, in cui canto in romano canzoni jazz. È molto particolare e curioso… comporre colonne sonore per spettacoli teatrali o film mi piace tantissimo ma spero di poter collaborare anche con artisti che hanno bisogno di canzoni. È qualcosa che non ho ancora fatto abbastanza ma sono lento e inesorabile: finirò per fare anche quello, in una maniera o nell’altra.
Cosa ti dà la musica che la recitazione non ti dà?
La musica è da sempre stata una compagna di vita. C’era già quando ancora non esisteva la recitazione e mi ha accompagnato in ogni momento, bello o difficile che fosse, della mia vita: è da quando ho tredici anni che vivo attaccato a una chitarra elettrica. È stata il porto sicuro dentro cui ripararmi, la mia salvezza. E mi ha permesso anche di togliermi delle piccole soddisfazioni, come il comprare delle chitarre che sognavo sin da quando ero bambino: una di queste appartiene allo stesso modello che usava Steve Howe, il chitarrista degli Yes… probabilmente gliela farò autografare nei prossimi giorni quando sarà a Roma per un concerto.