Kabir Tavani è tra gli attori protagonisti che compongono il cast della serie tv Sky Non ci resta che il crimine. Figlia della fortunata trilogia cinematografica, la serie tv Non ci resta che il crimine è composta da sei episodi che debuttano su Sky (e in streaming solo su Now) il 1° dicembre con una nuova avventura in bilico tra passato e presente. Dopo il viaggio cinematografico indietro nel tempo fino agli anni ‘80, in cui a Roma prosperava la Banda della Magliana, e poi quello nell’Italia fascista degli anni ‘40, la nuova serie Sky Original inizia subito dopo gli eventi dell’ultimo film e trasporterà l’affiatatissima banda di protagonisti formata da Marco Giallini, Gianmarco Tognazzi, Giampaolo Morelli e Massimiliamo Bruno negli anni ’70, fra gli ambienti della sinistra giovanile e delle contestazioni studentesche e quelli della destra eversiva del Golpe Borghese.
Diretta dallo stesso Bruno con Alessio Maria Federici, la serie tv Sky Non ci resta che il crimine può contare anche sulle interpretazioni di Maurizio Lastrico, Lialiana Fiorelli, Grace Ambrose, Sara Baccarini, Daniela Virgilio, Claudio Corinaldesi e, appunto, Kabir Tavani. Cercare di capire chi sia Kabir Tavani sulla carta è alquanto complesso: a parte il suo curriculum, online non trovate molto.
“Sono fiero di essere cresciuto negli anni Novanta, in contesti non c’era bisogno di esporsi così tanto sui social, dove cerco di divulgare quello che reputo sia giusto divulgare lasciando il mio spazio privato”, è una delle prime osservazioni di Kabir Tavani quando gli faccio notare che è difficile crearsi un suo profilo che esuli dalla sfera professionale. “Non credo che qualcuno voglia sapere cosa faccia nella mia quotidianità come io non voglio sapere cosa fa qualcun altro nella sua vita privata”.
Italianissimo, di Roma per l’esattezza (“cresciuto nelle case popolari”), Kabir Tavani deve il suo nome di battesimo al padre. “Siamo tutti italiani in casa mia ma mi piace dire che mio padre è un megalomane: Kabir in arabo vuol dire “grande”. Spesso uso la confusione che genera per socializzare e per aprire discorsi su argomenti di cui tendenzialmente non si non parlerebbe mai”.
Una confusione che nel caso di Kabir Tavani è anche dettata dal suo aspetto mediterraneo, quasi mediorientale. “Eppure, sono nato biondo e ho affrontato i miei primi cinque anni di vita da biondo: ho le foto che lo testimoniano”, controbatte sorridendo. “Da un punto di vista professionale, inizialmente è stato difficile far capire che non ero arabo: bastava il nome o il viso per farmi scartare dai provini quando cercavano un romano, ad esempio, proprio perché, ironicamente, non viviamo in un Paese che vive di stereotipi ed etichette. Non parlerei però di razzismo nel mio lavoro: chiaramente corpo e viso sono necessari e non sempre nel mio caso corrispondevano alle associazioni visive che chi occupava dei casting aveva”.
Ma è anche una confusione che in qualche modo Kabir Tavani è stato in grado di usare a suo favore come protagonista dello spettacolo teatrale Schifo, in cui ha prestato il volto a un immigrato assurto al simbolo dell’uomo solo ed emarginato. “Ero stanco di sentirmi dire che sembravo arabo e ho voluto dare agli altri ciò che volevano e cercavano da me. Ho coinvolto nel progetto Antonio Bannò, con cui sono cresciuto insieme affidandogli la regia. Ci conosciamo da molti anni, abbiamo affrontato il percorso formativo attoriale insieme e non potevo che pensare a lui: è un attore che stimo molto, oltre che una persona di una certa sensibilità”.
Intervista esclusiva a Kabir Tavani
Non è da tutti esporsi così tanto nei confronti di un altro collega.
So che è una strana abitudine non parlare di altri. Ma, per quanto ognuno di noi possa farcela da solo e ami il proprio lavoro, è anche grazie a qualcun altro che si cresce e si diventa degli artisti migliori: dobbiamo ricordarci sempre di non essere soli e io sono molto legato alle persone che mi hanno accompagnato fino a questo momento.
E tra coloro che ti hanno accompagnato c’è anche Massimiliano Bruno, che oggi ti ha voluto nel cast della serie tv Sky Non ci resta che il crimine, nel ruolo di Sergio Braga. Che rapporto vi lega? E cosa intravede in te?
A Massimiliano devo il tempo e lo spazio che mi ha concesso all'interno del suo laboratorio, dove ho potuto sperimentare e giocare al mio lavoro, e lo ringrazio molto di avermi dato l'occasione di avere un personaggio con un arco narrativo che mi desse l'opportunità di capire meglio "il gioco" del set.Avevo preso parte a un suo workshop qualche tempo fa e, ancor prima di questa nuova avventura, avevamo affrontato insieme anche esperienze teatrali. Il nostro è un rapporto che è andato nel tempo e di cui sono molto felice. Dovresti chiedere a lui cosa intravede in me: tuttavia, credo che veda quanto amore ho per questo mestiere e che mi riconosca un talento. A differenza di altri, ho iniziato in maniera molto strana: ho cominciato a recitare per costrizione.
Avevo sedici anni, ero un adolescente fuori dalle righe e un po’ arrabbiato con il mondo. Mio padre è stato lungimirante, oltre che attento, a mettermi letteralmente dentro una scuola di teatro, che era una palestra ai Colli Portuensi: di tutto odorava tranne che di teatro ma è stato lì che ho trovato delle persone che sono riuscite a incanalare la mia rabbia, che mi hanno dato la possibilità di formarmi il più possibile come essere umano e trasmesso il desiderio di continuare con un mestiere che a oggi mi restituisce il senso di stare al mondo.
La recitazione a livello professionale è arrivata tardi, qualche anno dopo. Ho svolto molti lavori che non c’entravano nulla in contesti che non avevano nulla a che spartire con le mie aspirazioni e ho anche iniziato l’università fino a quando è nato in me il desiderio di impegnare il mio tempo in ciò che amavo, tentando il percorso accademico. Ero stato scelto già a Udine, all’Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe, quando, aprendosi il bando al Teatro Stabile di Genova, ho tentato l’ammissione: è andata bene e il percorso fatto a Genova è stato per me folgorante.
La rabbia adolescenziale a cosa era dovuta?
Di recente, ho letto una frase che mi ha toccato molto e che mi ha pacificato: la rabbia è il sentimento alla base dell’etica. Quando pensi che qualcosa non sia corrispondente ai tuoi valori, si accende un certo stato d’animo, la rabbia per l’appunto. A 16 anni era dettato dal non avere una struttura familiare che mi consentisse di affrontare al meglio il mio percorso di vita: ero distratto da aspetti a cui non si vuol pensare e a cui non si dovrebbe pensare. Incanalare attraverso il teatro quel sentimento di rabbia, mi ha aiutato a rendermi conto che i miei genitori erano prima di tutto degli esseri umani e che, come tali, commettevano errori.
Com’è stato lasciare Roma prima per Udine e poi per Genova?
Non semplice. Per i primi due anni lontano da casa, ho cercato di capire cosa fossero le accademie stesse. Quando sono stato ammesso a Udine, non sapevo nemmeno in cosa consistessero: qualcuno mi aveva detto che, se avessi voluto far teatro, sarebbe stato lì che dovevo andare. Ho pensato che fosse fantastico che esistessero dei posti in cui qualcuno insegna a qualcun altro il lavoro a cui aspiravo. Ho cominciato allora a cercare quali fossero le accademie “ufficiali” e ne ho trovate solo cinque, una a Roma, due a Milano, una a Udine e una a Genova (troppo poche, la maggior parte dislocate al Nord e solo due collegate a un teatro nazionale).
E ho realizzato così che ogni accademia aveva i suoi criteri di selezione a cui non sempre un aspirante attore corrisponde. Ma non solo: a volte, i criteri cambiano di anno in anno e in base alla commissione esaminatrice, che è composta da persone che rispondono anche a una loro emotività (o all’umore del giorno).
Non ti è pesato abbandonare il tuo mondo e le tue reti sociali?
Non è stato per me tanto doloroso come si possa immaginare. Quando si viene selezionati per qualcosa di così prestigioso, ti aprono le porte per una nuova vita. Quel mondo che ti ritrovi davanti ti dà la spinta verso il futuro, non facendoti guardare indietro. Sono stato però fortunato a ritrovare i miei amici quando sono ritornato in pianta stabile a Roma: tutto era com’era. E non sempre capita: la mia famiglia e i miei amici di sempre sono ancora il mio porto sicuro.
Poco cinema finora e tanto teatro nella tua vita. Che sensazione ti restituisce il feedback del pubblico?
È qualcosa che comincio a ricevere da poco. Appena diplomato, ho avuto la fortuna di poter continuare a militare nelle fila del Teatro Stabile di Genova prendendo parte a spettacoli come Il gabbiano, ad esempio, in scena con Tommaso Ragno ed Elisabetta Pozzi. Da giovane attore, i primi riscontri arrivavano più dagli addetti ai lavori o dai colleghi: accettavo ogni proposta, anche semplicemente per entrare due secondi in scena per dire “Il pranzo è servito”, pur di guardare dei mostri sacri recitare e accumulare esperienza. Sentivo la necessità di osservare qualcuno molto più bravo di me e con grandi competenze: la sento ancora oggi. Ho amato ad esempio poter ammirare da vicino Marco Giallini per la serie tv Sky.
A proposito della serie Non ci resta che il crimine, chi è Braga?
Sergio Braga è un personaggio che non ha nulla a che fare con me come persona: è ambiguo perché costretto dalle circostanze a mentire. È un poliziotto che si infiltra nei nuclei di sinistra per indagare sui potenziali attacchi terroristici. Siamo negli anni Settanta, in un contesto in cui in Italia si vive la cosiddetta “strategia della tensione ma, indagando, Braga scopre he il nucleo in cui si è infiltrato non ha niente a che spartire con il terrorismo: manifesta semplicemente per temi e valori in cui crede. Di conseguenza, in qualche modo, Braga decide di aiutare il gruppo ma nel frattempo si innamora di una donna che è fondamentale per vari snodi narrativi e per risolvere un conflitto che interessa Giuseppe, il personaggio interpretato da Gianmarco Tognazzi (alla ricerca dei suoi genitori biologici, ndr).
La parola manifestazione non può non far pensare a quella tenuta sabato 25 novembre a Roma, a cui tra l’altro hai preso parte, per la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. In teatro, insieme a Francesca Chillemi, sei protagonista dello spettacolo Il giocattolaio, in cui interpreti il ruolo di un abusatore. Cosa ti ha aiutato a interpretarlo?
Chiaramente, noi attori siamo chiamati a interpretare anche personaggi che non ci somigliano. Tuttavia, la nostra esperienza è chiamata a entrare in gioco e contribuire a delinearne sensazioni ed emozioni. Per interpretare quel protagonista, mi sono di fatto concentrato sul potere. Da molti punti di vista, l’uomo occidentale è un privilegiato che sa di avere il coltello dalla parte del manico in ogni aspetto della vita: ci sarà stata nell’esperienza di ognuno di noi almeno un momento in cui si siamo sentiti più potenti di qualcun altro (e non solo di una donna) e in cui abbiamo usato quel potere a nostro favore.
Con Francesca Chillemi c’è stata sin da subito un’ottima intesa. Spesso quando emerge qualcosa su un personaggio lo si deve anche all’altro in scena e all’effetto che ha su di lui. Abbiamo dunque lavorato insieme per capire quali fossero le dinamiche di potere in scena.
L’arma a cui ricorre il giocattolaio è la manipolazione, usa forma subdola di violenza non solo di genere. Cos’è la violenza per Kabir Tavani?
Non è una e non è uguale per tutti. Uomini e donne vengono sottoposti a diversi tipi di violenza. Ci si concentra a ragion dovuta su quella fisica, che non va mai giustificata in nessun modo. Occorrerebbe però concentrarsi maggiormente anche su quella psicologica: parlando di differenze di genere, mi auguro che si cominci sin da subito a identificare cosa sia violenza e cosa non lo sia. Stabiliamo delle regole a cui tutti attenerci ma, soprattutto, cominciamo a dircele senza creare barriere o nemici ma lavorando tutti nella stessa direzione. Non dividiamoci in schieramenti: mettiamo in atto semmai un atteggiamento solidale che si basi sull’ascolto reale.
A livello lavorativo, ti sei mai sentito manipolato?
Sì, ma anch’io mi sono messo nelle condizioni di esserlo. Ho messo nelle mani di altri la considerazione che avevo di me stesso: cercavo approvazione ma ho ottenuto l’effetto contrario. Ho dovuto poi fare un grande lavoro su me stesso per riappropriarmi della mia sicurezza e liberarmi dalla sensazione di non sentirmi adatto in quello che avevo scelto di fare nella vita. E, oggi, mi sento più sicuro di me, sento di aver fatto dei grandi passi in avanti e di aver trovato la strada giusta.
Non ci resta che il crimine: Le foto della serie tv
1 / 18Per interpretare il ruolo di immigrato africano in Schifo, sei andato fisicamente alla Maddalena, il quartiere nordafricano di Genova per portare in scena il giusto accento. Lo spettacolo si apriva con te che dalla platea provavi a vendere delle rose al pubblico…
E sì, sono stato spesso trattato molto male. Soprattutto, durante la prima, quando nessuno era a conoscenza dell’escamotage narrativo. Ricordo ancora la reazione di un ragazzo che, vedendomi, ha reagito in malo modo chiedendomi persino cosa ci facesse lì uno come me. “Vattene”, mi ha urlato a gran voce, cacciandomi via. Si è sentito violato non si capisce bene da cosa ma se fossi in lui qualche domanda me la farei sulla sua percezione dell’altro e sul suo modo di relazionarsi a esso.
La soddisfazione maggiore è stata nel ritrovarlo a fine spettacolo: mi si è avvicinato per dirmi che aveva ricevuto un grande insegnamento. Il teatro svolge quindi ancora la sua funzione primaria, ovvero quella di raccontare all’uomo che cos’è l’uomo stesso: è uno specchio del mondo che ci permette di capire chi siamo. Mi sconvolge ogni volta pensare a quanto sia sottovalutato in Italia non solo dalle istituzioni ma anche da chi non ha mai pensato di creare un sistema produttivo che permetta agli attori anche affermati di confrontarsi direttamente con il pubblico. Sono stato di recente per la prima volta a Londra e, ricercando quel posto in cui mi sento a casa, sono stato tutti i giorni in teatro, assistendo a spettacoli clamorosamente belli che da noi per diversi fattori, anche economici, non si mettono in piedi.