Entrare nel mondo interiore di un'attrice come Katia Greco significa compiere un viaggio attraverso le pieghe dell'anima, laddove l'arte si fonde con l'esperienza personale, e il palcoscenico diventa un luogo di esplorazione di sé. Ogni personaggio che interpreta non è mai solo una figura sulla carta, ma una possibilità di riflessione, una porta che si apre su un angolo nascosto del suo essere.
Per Katia Greco, recitare non è solo un mestiere, ma un atto di trasformazione e di consapevolezza, un percorso parallelo tra la finzione della scena e le verità della sua vita. È in questo spazio che il suo ruolo di Maria Librizzi nella serie tv I fratelli Corsaro prende forma, un personaggio con cui sente un'affinità profonda, capace di riflettere le sue stesse battaglie e conquiste interiori.
Maria è una donna determinata, forte, capace di trasformare le proprie fragilità in risorse, esattamente come Katia Greco ha imparato a fare nel corso del tempo. La vita dell'attrice e quella del suo personaggio si intrecciano in modo quasi magico, rivelando quanto il percorso professionale di Katia Greco sia spesso stato uno specchio delle sue evoluzioni personali. Interrogarsi su Maria significa, per lei, interrogarsi su se stessa, su quel filo invisibile che lega l’arte alla vita, sul modo in cui i ruoli interpretati le hanno permesso di affrontare le sue vulnerabilità, di riconoscere le sue forze e di rafforzare la propria autostima.
Il viaggio di Katia Greco è costellato di momenti in cui la fragilità si è fatta forza, in cui il dolore si è trasformato in rinascita. La sua storia, come quella di molte donne, è segnata da momenti di grande introspezione, di lotta contro insicurezze e paure che affondano le radici nell'infanzia, ma che nel tempo hanno trovato una via di guarigione attraverso l’arte. Recitare, per Katia Greco, è diventato un modo per dare voce a ciò che dentro di sé non riusciva a esprimere, un mezzo per esplorare l'amore, il bisogno di riconoscimento, e soprattutto il valore che spesso si fatica a riconoscere in se stessi.
Ogni ruolo che interpreta è un passo verso una maggiore consapevolezza di sé, un'opportunità per crescere non solo come attrice, ma anche come donna. Ed è proprio in questo che risiede la forza della sua interpretazione di Maria Librizzi: non è solo il racconto di una donna che lotta per gli altri, ma anche quello di una donna che ha imparato a lottare per se stessa, per i suoi confini, per il rispetto e l’amore che merita. Attraverso Maria, Katia Greco esplora non solo la missione di chi si dedica agli altri, ma anche il profondo impegno di chi ha imparato a non farsi più calpestare dai sentimenti o dall’amore non ricambiato.
In questa intervista, Katia Greco ci porta dentro il suo mondo emotivo, rivelando le radici delle sue insicurezze, le sfide che ha dovuto affrontare e le trasformazioni che l’hanno portata a essere l’artista e la donna che è oggi. Ogni ruolo è una sfida, ma è anche una cura, un atto di ribellione contro gli schemi che il passato e le convenzioni sociali cercano di imporre. Katia Greco, come Maria, è una ribelle: una donna che ha imparato a rompere gli schemi, a riscrivere le regole, e a fare della sua vita e della sua arte uno spazio di libertà e di rinascita.
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Intervista esclusiva a Katia Greco
“Il mio personaggio si chiama Maria Librizzi e lavora come assistente sociale, avendo quindi come missione quella di occuparsi dei ragazzini meno fortunati”, ci risponde Katia Greco quando le chiediamo di raccontarci chi interpreta nella serie tv di Canale 5 I fratelli Corsaro. “Si imbatterà in Fabrizio Corsaro, il giornalista interpretato da Giuseppe Fiorello, durante una delle sue indagini. Fabrizio, che ha comunque un debole per le donne, rimane particolarmente colpito da Maria, una ragazza molto determinata, che fa quel che vuole e che ha fatto delle sue fragilità il suo punto di forza. Il loro sarà un rapporto alla pari, in un certo senso sono uno specchio dell’altro, e andrà incontro a un’evoluzione”.
Quanto Maria ti somiglia e quanto è diversa da te?
Come per magia, il mio lavoro cammina di pari passo con la mia vita. Ogni volta che prendo un ruolo è come se vivessi su un doppio binario che fa sì che ci sia una certa corrispondenza tra l’aspetto professionale e quello privato. Ho amato interpretare Maria perché è arrivata in un momento della mia vita in cui avevo lavorato molto sulla mia autostima, sul far valere i miei confini e sul delineare dei limiti.
Mi rivedo, dunque, molto in Maria, nella sua determinazione, nell’avere un amor proprio, nel cercare di far sì che vengano rispettati dei valori e nel desiderio di non farsi più calpestare in virtù dei sentimenti o dell’amore. Come lei, ho capito che occorre accettare la realtà e di lasciare che le cose seguano il loro corso senza doverle direzionare a tutti i costi.
Ma mi rivedo anche nella sua grande forza e nell’impegno che profonde per gli altri. Maria si impegna ad aiutare il prossimo attraverso un lavoro che vede come una missione, un po’ come io vedo il mio: attraverso l’arte, posso essere uno strumento per arrivare al cuore delle persone, risvegliare coscienze, trasmettere messaggi e, soprattutto, dare voce alle donne. Ho potuto davvero mettere molto di me in lei.
Cosa minava prima la tua autostima?
Ognuno di noi porta con sé un bagaglio che deriva dalla propria infanzia. Per quanto i nostri genitori e la nostra famiglia ci abbiano amato e abbiano fatto il possibile, certe esperienze, sensazioni o emozioni, in base o meno alla sensibilità del bambino non andranno mai via e si protrarranno anche nell’età adulta.
È stata forse proprio la mia ipersensibilità a portarmi a fare l’attrice per essere finalmente riconosciuta, capita e vista in quanto Caterina in termini affettivi. A muovermi è stato il desiderio di amore, qualcosa che se non trovi all’esterno di te non riesci nemmeno a vedere all’interno puntando poco sul tuo valore e facendo sì che in te nascano insicurezza, poca stima di sé e dipendenza da altro che non sei tu.
Ed è un bisogno che non si esaurisce mai, almeno fino a quando non capisci che hai dentro te tutti gli strumenti necessari. Il realizzarlo ti cambia totalmente la prospettiva perché puoi attingere da te mentre il non farlo comporterà sempre che si continuino ad attirare o generare situazioni che non sono né giuste né sane.
Del tipo?
Mi sono resa conto di attirare nella mia vita delle persone, non sempre fortunatamente, con cui non veniva mai fuori la vera me. Con loro non ero autentica e, quindi, si innescavano dei meccanismi che non mi rendevano felice.
Cosa ti ha fatto realizzare che dovevi dire “basta”?
Il dolore. Quando soffri e tocchi il fondo con le dita. Hai davanti a te solo due opzioni: o soccombi o ti rialzi. Sono simbolicamente morta ed è stato qualcosa di bello perché mi sono spogliata della maschera che portavo per rinascere, un po’ come una farfalla che viene fuori dal suo bozzolo o come un fiore di loto che cresce dal fango. Spesso le difficoltà che incontriamo nella vita non sono altro che delle opportunità per conoscersi meglio e migliorarsi.
E a me, come accennavo prima, è capitato anche che i personaggi interpretati mi permettessero di raggiungere maggiore consapevolezza e conoscenza di sé: Maria è stato modo per mettere a frutto ciò che stavo iniziando ad apprendere per il mio benessere e per riconoscere le risorse di cui disponevo e che sarebbero diventate la mia forza.
I fratelli Corsaro: Katia Greco (Foto: Valentina Glorioso)
1 / 9Eppure, la determinazione è una caratteristica che avresti dovuto avere quasi insita in te perché per diventare attrice partendo da Messina occorre essere determinati…
Sono stata determinata ma non avevo la percezione di esserlo: non mi attribuivo il giusto valore e non lo riconoscevo. Mi accade ancora oggi di non darmi valore, nonostante prenda parte a progetti molto belli o abbia avuto di recente una candidatura come miglior attrice europea. Mentre altri si gioverebbero della sola nomination, per me è qualcosa che è successo, come se fosse comune o normale.
Sarà che affronto il mio lavoro con grande umiltà, una dote che ho riconosciuto ad esempio in una delle più grandi attrici con cui ho avuto la fortuna di lavorare: Claudia Cardinale. L’ho amata sul set del film tunisino L’isola del perdono proprio per il suo modo di porsi: è stato osservandola che mi son detta che avrei voluto continuare con questo mestiere e che avrei voluto farlo essendo come lei.
Tornando ai miei primi passi, sì, non sono nata a Roma ma in Sicilia in una famiglia in cui nessuno ha mai lavorato in ambito artistico, per cui per divenire attrice ce n’è voluta di determinazione, unita a una dose di incoscienza…
Hai però prima frequentato l’Università, hai conseguito la laurea e sei diventata una biologa nutrizionista. Era il tuo piano B per darti sicurezza?
La verità? Non è che volessi far l’attrice: è capitato per caso. I miei compagni di scuola mi hanno costretto a iscrivermi a un laboratorio extrascolastico ed è stato lì che ho scoperto che recitare mi piaceva. Da un lato, dunque, laurearsi era un piano B ma dall’altro lato era l’unico piano ponderabile: i miei genitori non volevano mandarmi a Roma e ho dunque continuato con gli studi accademici.
Non che mi dispiacesse farlo, anzi: mi piaceva concludere quel percorso. E sono contenta di averlo fatto: anche se non pratico come biologa mi affascina l’universo dello studio della vita… tutto ciò che è vita mi appassiona, compreso il mondo della recitazione che non consiste in altro che nel far vivere dei personaggi o comunque delle emozioni.
Perché i tuoi non volevano mandarti a Roma?
I miei provengono da famiglie di lavoratori e, come tali, sono persone molto concrete: temevano che la recitazione non avrebbe potuto garantirmi un futuro sicuro e sereno. Il loro “no” non era dettato da ragioni che non fossero per il mio bene. Dei due, mio padre è sempre stato quello più combattuto dato che è stato il mio primo fan mentre mia madre, donna con i piedi molto per terra, era categorica.
Ma, alla fine, quasi impuntandomi, sono riuscita ad avere la possibilità almeno di provarci ma solo dopo aver gettato le basi del porto sicuro degli studi e della laurea, anche se l’equazione “laurea-lavoro-sicurezza” lascia il tempo che trova.
Ripensandoci, i miei studi mi sono tornati utili anche nel mio lavoro di attrice: per i provini da medico o chimico, posso sfoggiare la mia conoscenza tecnica!
Nel percorso che hai finora fatto da attrice, non ti hai mai infastidita l’essere scelta spesso per ruoli legati a personaggi siciliani?
A esser sincera, no. Mi darebbe fastidio se i personaggi fossero sempre legati a storie sulla mia terra legate a stereotipi o a vicende di mafia. Non perché certe realtà non esistano più ma ce ne sono anche tantissime altre che meritano di essere raccontate. Me ne sono capitati ma con il tempo sempre meno: ho anche avuto la fortuna di girare I fratelli Corsaro in una Palermo non incentrata esclusivamente sulla mafia o di lavorare in Cruel Peter, un horror girato tra la Sicilia e l’Inghilterra in cui racconta della Messina del 1908, del terremoto e della comunità inglese.
Più che quello della siciliana, ha cominciato a starmi stretto il ruolo, anche per via dei miei lineamenti, della “brava ragazza”, della giovane della porta accanto un po’ vittima. Mi ha divertito ad esempio recitare in Studio Battaglia con un personaggio comico, per cui mi piacerebbe poter esprimere ancora quel mio lato o cimentarmi nel ruolo di una cattiva, di una stronza senza uguali. Potrebbe anche essere catartico: potrebbe far vivere parti di me che ancora non si conoscono.
Da quando hai esordito nel film Noi due di Massimo Coglitore sono passati già 18 anni. Quand’è stata la prima volta che ti sei definita un’attrice?
Un momento per me particolarmente importante, se non fondamentale perché prima ero talmente demoralizzata da non voler quasi presentarmi al provino, è stato quando mi hanno scelta per interpretare Mery nella serie tv Il giovane Montalbano. Facevo l’attrice già da 5 anni ma vincere quel provino è stato per me un grande riconoscimento: da quel momento, anche i casting director che prima non credevano in me hanno cominciato a notarmi. È come se Mery mi avesse dato la spinta anche personale per continuare ad andare avanti.
Giovane Montalbano che tutti continuano a richiedere a gran voce…
…non solo in Italia. Nonostante non mi importi nulla della popolarità o della fama, mi sono emozionata tantissimo quando in Inghilterra, dove sono stata per il Lancaster International Film Festival, sono stata riconosciuta mentre in incognito ero in un posto sul mare intenta a mangiare fish and chips e con i capelli arruffati.
Nel 2019, è arrivato per te il ruolo di Rosamaria in Piccididda, il film che il regista Paolo Licata ha tratto dal romanzo di Catena Fiorello. Film che avrebbe potuto spingere ulteriormente la tua carriera ma che per uno strano scherzo del destino sarebbe dovuto arrivare in sala lo stesso giorno in cui il CoVid imponeva la chiusura di cinema e teatri…
E, nonostante ciò, siamo tutti quanti molto felici del riscontro che il film ha poi avuto: nei successivi tre anni ha continuato a girare per il mondo, dall’Australia all’Olanda. Considero quel film un’altra delle tappe importanti della mia carriera: interpretare Rosamaria non è stato catartico ma di più, una terapia a 360°…
Picciridda raccontava una storia tutta siciliana ambientata negli anni Sessanta, dove di riflesso è come se si fossero proiettate certe dinamiche e certe atmosfere che si respiravano nei racconti della mia famiglia, quelle inerenti al contatto con il mare e con la terra o alle donne costrette a lottare per emergere e liberarsi dal giogo della violenza psicologica dettata dalla differenza di genere, che le rendeva sottomesse agli uomini. Ho dovuto scavare molto dentro di me ed è stato doloroso per via della linea narrativa del mio personaggio, bella, intensa e profonda.
Tra l’altro, abbiamo girato a Favignana, una terra molto particolare che, se da un lato ti attrae e ti accoglie, dall’altro ti respinge, soprattutto d’inverno, quando a causa del mare agitato si rimane anche isolati dalla terraferma, facendo sì che tutto sia ancora più accentuato.
Di quell’esperienza, in cui abbiamo tutti vissuto insieme come una grande famiglia, mi ricorderò sempre come il regista Paolo Licata abbia permesso a noi giovani attrici, io e Tania Bambaci, di “sporcarci”, nascondendo la nostra bellezza per far posto alla sofferenza.
Hai ritrovato Licata per il film L’amore che ho, finito di girare da poco, che racconta di un’altra donna siciliana che ha lottato per la propria affermazione: Rosa Balistreri.
Si racconta di lei ma anche della sorella e della figlia. Sebbene il ruolo fosse breve, ho accettato per il piacere di tornare a lavorare con Paolo ma anche con Lucia Sardo. E perché, a differenza di Maria o di Rosamaria, mi sarei dovuta cimentare con un personaggio realmente esistito.
Rosa Balistreri ha avuto una vita molto difficile, fatta di dolore e di sofferenze, un po’ come tutte quelle donne che subiscono rapporti tossici e violenti per via del loro amare tanto con la speranza di essere ricambiate. Come suggerisce il saggio Donne che amano troppo, si tratta spesso di donne che soffrono di dipendenza affettiva e che, come tali, sono attratte da uomini che danno loro le briciole perché in fondo sono le prime a non voler entrare in intimità, dando vita a un gioco perverso in cui i ruoli tra vittima e carnefice sono interscambiabili.
Già, al solo leggere della sceneggiatura, ho provato una potente commozione. Ed è subentrato nuovamente quel pensiero della “missione” a cui accennavo, con la speranza di svegliare le coscienze di molte donne e dare loro il coraggio di cambiare vita.
Per molti, Rosa Balistreri è stata una ribelle. Cos’è per te la ribellione?
È rompere gli schemi in virtù di un grande rinnovamento. La ribelle, sebbene sembri la pecora nera della famiglia, è quella che invece può salvarla senza seguire schemi e regole già percorsi, scardinandoli per un cambiamento che porti a qualcosa di nuovo e metta in discussione il vecchio. Per me, la ribellione è rinascita, cambiamento, rigenerazione.
E tu ti senti ribelle?
Sì. E ne sono fiera.
Cosa ti ha dato invece il tornare a lavorare per un secondo film in Tunisia, una terra da noi lontana?
Ma neanche tanto: sono siciliana e la considero molto vicina, per molti aspetti. Non dimentichiamo che è il Paese più moderno di tutta l’Africa del Nord. Certo, esistono ancora realtà difficili da comprendere ma ho avuto modo di conoscere una Tunisi modernissima, in cui le donne avevano gli stessi diritti e le stesse abitudini delle nostre. Al di là delle differenze culturali, da nata in Sicilia, amo tutto ciò che si affaccia sul Mediterraneo e, quindi, anche la Tunisia, che considero una terra cugina in cui si parla una lingua che adoro, il francese (lo studio da quando sono piccola).
Mi ha quindi dato tanto starci a contatto, aiutandomi a scoprire il mio rapporto con l’Africa. Il cast di entrambi i film lì girati era quasi tutto tunisino così come la produzione, elementi che hanno fatto sì che mi sentissi integrata sin dal primo giorno.
Hai avuto anche la possibilità di essere diretta da registi come Luca Zingaretti al suo film d’esordio, La casa degli sguardi, ma anche da Sidney Sibilia, Emanuele Crialese e Ferzan Ozpetek per degli spot pubblicitari. Quando sei stata scelta, ti sei chiesta “perché io?”?
No, perché comunque era più forte il senso di gratitudine. Era comunque la conferma di essere sulla strada giusta e di stare lavorando bene, avendo contemporaneamente la possibilità di fare scuola e imparare da autori, ognuno per le proprie caratteristiche e visioni, unici. Di Ozpetek ricordo ad esempio come mi ha trasformata anche fisicamente facendomi sembrare quasi una diva degli anni Quaranta, di Crialese la sua visceralità e di Sibilia il suo lato comico.
E come hai imparato a reagire ai ‘no’?
Ci sono stati momenti difficili all’inizio. E altri sono arrivati dopo Il giovane Montalbano. Di fronte allo scoramento, mi è passata per la testa l’idea di abbandonare ma poi son arrivate pian piano le conferme. Ma la conquista definitiva è stata quando ho imparato a lasciare andare i ‘no’ e a non trattenerli: se non arriva un progetto oggi, arriverà domani. E da quel momento in poi tutto ha cominciato a fluire in maniera diversa e migliore, con una diversa metabolizzazione dei ‘no’: non sono contro di me ma per me, come una forma di protezione.