Kaze è una delle cantautrici più promettenti sulla scena italiana. Anche attrice apprezzata nel film Prime Video Anni da cane e nella serie tv Sky Call my agent – Italia, Kaze ha vissuto più vite insieme. Fino all’età di undici anni, la sua casa era il Burundi, dove è cresciuta con la mamma burundese e il papà napoletano, in un contesto molto differente da quello europeo o italiano: a stretto contatto con la natura e circondata dalla tanta musica che in famiglia era un mezzo per stare tutti insieme e divertirsi.
Una volta giunta in Italia, Kaze ha continuato a coltivare il suo talento per il canto e per la recitazione ma si è anche laureata in Infermieristica, campo che nel 2021 l’ha vista impegnata in prima linea in un pronto soccorso a gestire l’emergenza CoVid. Aveva tentato la strada di X-Factor ma non era passata: dei quattro giudici, solo Manuel Agnelli ed Emma Marrone erano disposti a darle un’opportunità: le mancava l’’esperienza ma non il talento.
E quel no Kaze ha saputo metabolizzarlo e trasformarlo in altro. Fino a essere chi è oggi, una giovane donna che, cercando di vincere l’ansia che da sempre l’accompagna, trasforma la sua vita in canzoni. È sempre dalla propria esperienza personale che nasce anche Sad (Island Records), il singolo da poco uscito in cui Kaze, in perfetto equilibrio tra pop e soul, racconta le emozioni contrastanti di una relazione che destabilizza e rende inquieti.
Intervista esclusiva a Kaze
“Bene, un po’ esaurita ma bene. L’uscita di un singolo comporta sempre un bel lavoro anche se parlarne è la parte che mi viene un po’ meglio, non mi stressa e vivo abbastanza bene le interviste: mi piace chiacchierare e le prendo come chiacchierate molto tranquille tra amici”. Inizia così la nostra intervista con Kaze, sin da subito a suo agio, sposando la nostra concezione per cui un’intervista è come un the delle cinque, davanti al quale si può parlare liberamente senza schemi prestabiliti.
Ci racconti cos’è Sad, il tuo nuovo singolo?
È un brano che a me piace molto perché segna un momento molto particolare della mia vita: sono stata a Parigi per scriverlo. Ero lì per delle sessioni ed era la mia prima volta che mi trovavo a Parigi: rendermi conto di essere in quella città per fare il mio lavoro da cantante mi ha letteralmente fatto esplodere il cervello! È stato come realizzare che effettivamente sta funzionando, sto facendo qualcosa che ha un senso.
E poi è un brano importante perché il testo è il riassunto di un’esperienza, come sempre mia: tendo a innamorarmi ogni tre per due… sono adesso impegnata ma, prima di fidanzarmi, avevo la capacità di idealizzare le persone che incontravo e di scriverci storie. La storia che racconto non è andata però nella mia testa avevo tutto un mondo fantastico di come avrei voluto viverla.
E il tuo attuale fidanzato lo sa che prima di innamoravi ogni tre per due?
No… in realtà sono una gran romanticona. Ho alle spalle tre relazioni lunghissime perché quando mi innamoro mi faccio prendere molto. Ma al contempo sono anche una gran sognatrice: hai presente quando vedi qualcuno in metro e inizi a fantasticare sui vostri tre figli insieme? Ecco, quella roba lì: poi lui scende e non lo vedi mai più…
Dal testo di Sad si evince come quest’amore “fantasticato” ti abbia lasciato spalle al muro, facendoti vedere le ombre dentro di te…
Ho da sempre un rapporto molto strano con l’amore. Ho sempre cercato appoggio e stabilità nella relazione con l’altro, in amore come in amicizia (forse ancor più nella seconda: le attribuisco più importanza). È come se avessi voluto trovare qualcuno che mi colmasse: la famosa seconda metà della mela… ed è una cosa sulla quale sbatti continuamente la testa finché non ti accorgi che qualcun altro non ha il potere di riempire il tuo vuoto e di darti quello che ti manca.
Siamo noi che dobbiamo gestire i nostri vuoti e non qualcun altro: Sad parla anche di questo, del momento in cui ho realizzato che, se non mi fossi fermata a gestire da sola le mie insicurezze e le mie mancanze, avrei continuato a cercare sempre qualcuno, come in un loop continuo. Era arrivato il momento di dire “Basta, finché non sto bene e non mi sento completa, non posso entrare nella vita di qualcun altro”. E, di conseguenza, ho iniziato a lavorare sulla mia sicurezza, sui miei traumi e su tutta una serie di cose per riuscire a vivere una relazione sana con una persona senza che questa mi faccia da baby-sitter.
Su cosa ti sentivi insicura o cosa ti mancava? Cosa hai capito di te stessa lavorandoci sopra?
Tendenzialmente, sostengo sempre di stare molto bene da sola ma… non è così! Ci sono dei momenti in cui da sola non riesco proprio a stare. Ci sono periodi anche lunghissimi in cui non voglio vedere nessuno ma poi, quando mi convinco che voglio stare da sola, succede il macello!
Spesso è difficile affrontare i propri pensieri e la colpa è anche “un pochino” della società in cui viviamo: va molto veloce, ci sono tanti impegni da gestire e non siamo più abituati al dialogo interiore, a rimanere in casa a pensare o a leggere un libro, e a fare tutta una serie di attività che ci permettono di ragionare. Siamo costantemente sommersi di informazioni, immagini e suoni: è come un binge eating continuo.
Faccio dunque molta fatica a star da sola con i miei pensieri. È come se avessi bisogno costantemente di qualcuno per distrarmi. Ho allora cercato di lavorare su questo: mi sono chiusa in casa e ho provato ad occupare il tempo in maniera diversa. Ho cominciato ad esempio a scrivere dei “giornalini” in cui parlavo della mia giornata, dei miei sentimenti e delle interazioni con gli altri, perché poi appartengo anche a quella categoria di persone che quando va a dormire la notte ripensa molto a quello che ha detto o fatto, chiedendosi se qualcuno ci è rimasto male.
Scrivendo, ho cercato di elaborare anche quei pensieri intrusivi che non ti lasciano dormire con l’obiettivo di riuscire a confrontarmi seriamente con me stessa e di non gettare il bagaglio che mi porto sulle spalle sugli altri. Ed è stato molto utile: si fa tanta fatica, fa anche male ma mi è servito.
Chiusa in casa… La casa ritorna anche nel video di Sad, tutto girato all’interno di un’abitazione. Che significato ha per te, reduce anche da 19 traslochi, la parola “casa”?
Mi sono spostata molto e non ho mai avuto un punto di riferimento. Molto probabilmente gran parte di tutti i miei disagi partono da lì: è bellissimo spostarsi, vedi un sacco di cose nuove, ma a forza di farlo finisci con il perdere ogni riferimento. Per “casa” intendo il luogo in cui abito adesso (potrebbe anche cambiare): per me, la casa non è il posto in cui sei cresciuto o hai dei ricordi legati a persone, luoghi o infanzia.
Una casa che abbia sentito come mia non ce l’ho: l’ho però sempre cercata e voluta tant’è che, quando faccio dei disegnini su carta, questi rappresentano sempre casette stilizzate. È una mancanza che avverto molto ma a cui negli anni mi sono abituata, iniziando a dare un significato diverso alla parola “casa”: può essere la musica, le persone che scelgo di avere intorno o qualcos’altro… casa è dove riesco a stare bene: può essere un luogo fisico o non fisico.
La parola “casa” riporta anche alle tue origini. Fino a undici anni, la tua casa non era l’Italia ma il Burundi, dove hai vissuto circondata da una famiglia in cui la musica era molto presente. Che ricordi hai di quel periodo?
Ho dei ricordi molto belli, nostalgici ma belli. C’era tanta musica: tutti i miei zii suonavano e la domenica dopo pranzo si cantava e si suonava tutti insieme. È lì che ho imparato quella che sarebbe stata la mia concezione di musica: serve a volersi bene e a stare insieme. Sono molto grata ai miei genitori per avermi fatto vivere la musica in maniera così libera e non come un’imposizione: non sono mai andata in una scuola di musica, non l’ho mai vista come qualcosa da imparare per forza. I miei genitori sono riusciti a tramandarmi l’amore per la musica in maniera allegra.
I ricordi legati al Burundi sono tutti bellissimi, pieni di natura e di condivisione in generale. Chiaramente, il Paese aveva anche i suoi lati negativi: non è tuttora uno Stato molto felice ma quando si è bambini non ci si rende conto delle difficoltà che si vivono. I grandi tendono a proteggerti molto e io sono stata molto protetta. Pensandoci, mi manca molto il Burundi…
Hai vissuto quello sradicamento a un’età molto particolare: quella della preadolescenza…
Avrei voluto avere qualcuno che mi raccontasse come sarebbe stato… non avevo la consapevolezza di come sarebbe andata ed ero molto curiosa di arrivare in Italia. Non vedevo quasi l’ora. Vedevo in televisione le serie americane e pensavo che l’Europa fosse come gli Stati Uniti: immaginavo già le mie prime storie d’amore, la scuola da frequentare, gli amici da conoscere… Poi, sono arrivata, e mi sono accorta che era molto diverso da come me l’ero prospettato.
È stato un vero shock culturale. Vedevo cose che non avevo mai visto ed era molto strano… Molto banalmente, i bambini della mia classe erano tutti italiani mentre in Burundi ero abituata ad avere compagni che provenivano da tutto il mondo (conseguenza del colonialismo che ha interessato l’Africa). E, per di più, alle medie andavo a scuola dalle suore: sono cresciuta in una famiglia cattolica ma mi faceva strano.
Ho dovuto rivedere anche il mio concetto di città e di come viverla: ho scoperto gli appartamenti, i condomini, i citofoni… e i supermercati e i centri commerciali: chi ne aveva mai visto uno?
E ci sono stati anche dei momenti un po’ più difficoltosi da affrontare perché, prima o poi, ci si scontra con il razzismo. In un certo senso, sono stata fortunata: nessuno dei miei compagni di classe ha avuto atteggiamenti discriminatori, erano tutti molto gentili, accoglienti e carini con me. Non mi hanno fatto pesare la diversità ma ero io a vederla con gli occhi: mi sentivo molto diversa da loro e ho cercato pian piano di cambiarmi. Per essere come loro, ho cambiato i capelli e il mio modo di vestire, ad esempio.
La diversità era data dal vedere dei corpi anche diverso dal mio. In Africa, l’avere dei corpi abbondanti viene visto come una cosa bella… ero cresciuta con quella concezione ma, una volta in Italia, ho realizzato di quanto i fisici europei fossero diversi da quelli africani. E realizzarlo da adolescente ti sposta completamente… è solo crescendo che mi sono resa conto dei traumi vissuti e pian piano ho cercato di sanarli, tornando alle mie origini, ai miei capelli e alla mia pelle e… ad amarmi come mi amavo prima! Sono tornata a sbocciare come quell’orchidea che si vede nel video di Sad apprezzando la mia singolarità.
Il non aver studiato musica ha però richiesto il suo conto nel momento in cui nel 2020 ti sei presentata ai provini di X-Factor, non superati perché secondo i giudici di allora non avevi abbastanza esperienza alle spalle. Ti ha fatto male quel no?
Sul momento, sì. Ho pianto tantissimo: sono tornata in albergo e ho continuato per ore e ore. Era la prima volta che mi mettevo in gioco: sognavo da sempre un momento del genere e pensavo che sarebbe andato tutto bene. E, invece, mi sono scontrata con una realtà che non era esattamente come la immaginavo. Cantare su un palco non è come cantare sotto la doccia, non si può dare per scontata la riuscita: l’ansia da prestazione ti uccide. Ed è quello che è accaduto a me.
Ma quel no è stato come uno schiaffo che mi ha permesso di rendermi conto di quanto me lo meritassi sul serio. Una parte di me credeva che il mio sogno si potesse realizzare da solo, senza impegno e senza studio. Ho capito che non era così: serve preparazione alle spalle. Ciò mi ha spinta a studiare molto più seriamente canto, a interessarmi anche alla teoria e alla musica in generale, dalla produzione a tutta una serie di aspetti che avevo conosciuto in maniera diversa. E, alla fine, sono molto contenta che sia andata così: mi serviva per crescere… se fosse andata bene, probabilmente avrebbe finito con il distruggermi e farmi ancora più male: il no mi ha preservata.
Anche se in quell’occasione Manuel Agnelli ed Emma Marrone ci avevano visto lungo: erano gli unici due che volevano darti un’occasione…
E infatti ho voluto loro molto bene… è come quando gli insegnanti ti dicono che sei bravo ma non ti applichi. Se c’è amore e impegno, qualcosa prima o poi accadrà: bisogna non mollare. Anche se per un nanosecondo ho avuto la tentazione di farlo.
In molti non lo sanno ma tu hai una laurea in Infermieristica e hai lavorato come infermiera al pronto soccorso. Eri lì quando nel 2021 eravamo in piena emergenza CoVid. Com’è stato viverla in prima linea?
Da un lato, quasi terapeutico: a differenza di chi era costretto a stare chiuso in casa per il lockdown, ho continuato a lavorare recandomi sul posto di lavoro. La mia routine quotidiana non era cambiata: mi rendevo conto della chiusura solamente quando mi spostavo per andare all’ospedale di Rozzano e per strada vedevo le lepri.
Dall’altro lato, devastante. Il lavoro dell’infermiere è già di per sé molto complesso e difficile. Il CoVid era qualcosa che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato: non sapevamo durante i primi mesi cosa fare o come aiutare i pazienti. Avevo studiato per dare aiuto concreto e assistenza agli altri ma, come tutti, mi sono ritrovata a non avere gli strumenti per farlo. Il personale sanitario era del tutto coperto per protezione e mancava anche il contatto fisico, umano.
Lo ricordo come un periodo molto cupo e complicato: chi svolge quel lavoro, ha a che fare tutti i giorni con la morte ma la mancanza di contatto rendeva tutto molto difficile da gestire anche psicologicamente. Ma mentre gestivamo l’emergenza il mondo continuava ad andare avanti: c’era il CoVid ma c’erano anche tutte le altre cose, dagli infarti agli ictus…
Hai mai avuto paura per te stessa in quel periodo?
No, sarà forse perché ho fatto pace con l’idea della morte molto presto. Da infermiera sapevo anche che è qualcosa di ordinario: è la conclusione naturale della vita, tutto ha un inizio e una fine. Non ho mai avuto il terrore di prendere il CoVid o di morire: temevo più per mia mamma, per mia sorella o per i miei colleghi.
In che senso hai fatto pace con l’idea della morte molto presto? Per cultura o per esperienza diretta?
Per esperienza diretta. Ho perso mio padre quando avevo diciotto anni e due anni prima avevo perso anche mia nonna. La scomparsa di mio padre è stata più difficile da gestire e ha lasciato tanti segni dentro me.
Hai anche citato tua sorella: che rapporto hai con lei?
Ho un bellissimo rapporto. Come tutti i fratelli e le sorelle, da piccole litigavamo tantissimo: ci prendevamo a botte dalla mattina alla sera… ma eravamo sempre unite e affiatate: anche le botte erano piene d’amore! Oggi è la mia migliore amica e io sono la sua: ci diciamo tutto e ci aiutiamo nelle situazioni di difficoltà. La musica durante l’adolescenza è stata un po’ il nostro mezzo di comunicazione, lei suonava la chitarra ed io cantavo.
Era il nostro rituale per stare bene insieme e lo è ancora: Wena mi aiuta a disegnare le copertine dei singoli o ascolta le mie canzoni prima che escano, mi fido molto di lei e del suo giudizio. È più piccola di me ma sembra lei la sorella maggiore, è molto tosta, risoluta e decisa: dice sempre quello che pensa e non si ferma davanti a niente. Adoro il suo carattere forte: tra le due, io sono sempre stata la giocherellona, la scema, ma ci divertiamo tanto insieme: il nostro è un bel rapporto.
Ti abbiamo di recente vista come attrice nella serie Sky Call my agent – Italia, ben accolta da pubblico e critica. Cosa hai pensato quando hai letto le prime recensioni?
Ero terrorizzata dal leggere… Non ho voluto vedere la serie prima della sua messa trasmissione. Quando andavano in onda le puntate, stavo su Twitter a cercare i commenti negativi perché volevo capire come fosse andata. Ma di commenti negativi non ne arrivavano. Mi son detta che molto probabilmente al pubblico stavo piacendo ma non riuscivo a convincermi del tutto della cosa: ho avuto bisogno di fermarmi e di vedere le puntate per provare a essere il meno autocritica possibile. Alla fine, sono stata molto contenta del risultato: Call my agent – Italia, oltre che essere un buon prodotto, è stata per me un’avventura molto bella. Ci siamo divertiti molto sul set e io ho potuto mettermi in gioco e in discussione come non mai.
Eppure, avresti dovuto essere abituata alla recitazione: hai anche interpretato in passato Lisistrata a teatro…
Il teatro ha un sapore del tutto diverso da qualsiasi altra forma d’arte. È come un concerto: ti restituisce un’emozione immensa quando sei sul palco. È l’unico posto in cui non ho mai avvertito ansia da prestazione: su un palco, mi sento a casa e libera. Da persona molto ansiosa, non riesco a vivermi tutto ciò che faccio con libertà ma interpretando qualcun altro ho la possibilità di non essere io: Lisistrata è ad esempio l’esatto opposto di me!
Qualche settimana fa invece ti abbiamo sentita cantare in napoletano. È stato strano aggiungere un’ulteriore lingua alle tue canzoni dopo l’italiano, il francese e l’inglese?
Non tutti lo sanno ma sono per metà napoletana: mio padre era napoletano ed è stato bello cantare nella sua lingua. Ringrazierò sempre Napoleone per avermi proposto Il giardino di Maddalena: agli inizi della mia carriera, avevo pensato di inserire dei versi in napoletano nelle mie canzoni ma poi ho desistito dal farlo. Non mi sentivo abbastanza sicura e, non avendo vissuto a Napoli, mi reputavo una sorta di fake: trovavo quasi pretenzioso esprimermi in quella lingua, era un po’ come se me ne volessi appropriare culturalmente.
Quando invece ho ricevuto il brano di Napoleone, ho sentito fortissimo la parte in napoletano: dovevo cantarla, legittimata anche dal fatto che Napoleone usa spesso il napoletano nei suoi brani. E devo ringraziarlo anche per come mi ha sostenuta: mi è piaciuto mettermi in gioco con un pezzo che mi piaceva tantissimo e che aveva un bellissimo senso.
Arriverà prima o poi un album tutto tuo?
Arriva arriva, ci sto lavorando. E sono entusiasta di ciò che sta venendo fuori: nonostante l’ansia che caratterizza ogni mia esperienza, ho provato a cambiare un po’ di cose e a sperimentare con il sound: spero che piaccia anche agli altri quanto piace a me.
E il self empowerment è anche questo…
Ma non sempre è facile farsi valere soprattutto quando si è artisti emergenti. Devi conquistare tutti piano piano: in un primo momento, sei impaurito da tutto il mondo che ti circonda e dalle persone con cui lavori, ti senti sempre l’ultimo arrivato. Quindi, capita che si facciano delle rinunce e che non si esprima al 100% il proprio pensiero: questa volta, invece, mi sono sentita libera di essere come sono.
Cosa vuol dire Kaze?
Benvenuta. Era un cognome personale (si è soliti darne uno in Burundi alla nascita) ma, quando sono arrivata in Italia, per una dimenticanza all’anagrafe è diventato il mio terzo nome: Paola Gioia Kaze. E sono felice di averlo scelto come nome d’arte, anche perché ci ho messo molto tempo ad accettarlo dopo che da ragazzina a scuola tutti lo storpiavano in altro… è un modo per me di mantenere le mie origini e devo onorarlo al massimo. E poi mi dà un po’ la sensazione di avere un alter ego, di essere un’altra persona.
Qual è oggi il rapporto con il tuo corpo?
Sfondiamo una porta aperta… oggi voglio bene al mio corpo, tanto bene: me ne sto prendendo cura ma è difficile. Credo che avere un rapporto difficoltoso con il proprio corpo sia uno dei problemi più diffusi tra le donne di oggi: siamo costantemente soggette a modelli di riferimento sbagliati.
Sarà scontato ma i social influenzano in maniera molto negativa da questo punto di vista: vedi un sacco di persone che hanno degli standard di bellezza quasi irrealizzabili, non tutti possono permettersi interventi chirurgici o di andare in palestra sette volte a settimana. È difficile trovare tra le tante immagini il tuo modello di corpo ma io piano piano ho imparato che è bello essere così come si è, ad apprezzare altre forme di bellezza da quelle standardizzate e a cercare anche nei social modelli diversi da questi in moda da cambiare l’algoritmo e vedere altro.
Occorrerebbe da parte dei brand maggiore spinta verso l’inclusività con l’uso di modelle molto più inclusive. Tanti brand lo stanno già facendo ed è la strada giusta. E poi c’è un altro aspetto che sui social fa male: le prime a scrivere commenti negativi sul fisico delle donne sono le donne stesse… lo trovo assurdo. Dovremmo essere semplicemente tutti un po’ più aperti, gentili e anche innamorati di noi stessi.
Sei più ritornata in Africa?
Sono tornata un anno dopo essermi trasferita. Dopo non ci sono più stata ma mi manca. Una delle cose che farò prossimamente sarà il grande ritorno in Burundi: è lì che vorrei trasferirmi quando sarò più anziana o avrò consapevolezza che sta per arrivare la mia ora. Voglio morire in Burundi a contatto con la natura, con un mango da una parte e il tramonto dall’altra.