Kety Fusco ha incontrato l’arpa a sei anni e da lei non si è più separata. Nata a Pisa ma svizzera d’azione, tornerà a esibirsi nella terra natia il prossimo 22 luglio, al Teatro del Silenzio di Lajatico, in occasione della tappa italiana del Corona Sunsets Festival World Tour, un festival musicale unico nel suo genere, dove tutti i partecipanti potranno vivere un’atmosfera speciale tra natura, attenzione all’ambiente, musica e tante attività all’insegna del relax e del divertimento.
Non sarà ovviamente da sola. Nella location dell’anfiteatro naturale, circondata dalle colline toscane e nata per volontà di Andrea Bocelli, si avvicenderanno artisti di caratura nazionale e internazionale per oltre dieci ore di musica: i Subsonica, i Lost Frequencies, Francesca Michielin, Venerus, i Planet Funk, The Zen Circus e Bobo Rondelli. Sul palco, a presentare ci sarà anche Ylenia, speaker di Radio 105, la radio ufficiale dell’appuntamento italiano di Corona Sunsets Festival World Tour.
Kety Fusco non sa ancora come sarà la sua esibizione. Del resto, come sottolinea nell’intervista esclusiva che ci ha concesso, decide all’ultimo momento quale sarà la scaletta dei brani che proporrà e suonerà. Ma di una cosa Kety Fusco è sicura: è sempre sua volontà lasciare il pubblico con mille domande a cui dare risposta. Non a caso a ciò corrisponde anche il suo ultimo progetto musicale, The Harp, una trilogia che destruttura e rivoluziona l’arpa classica tra postmoderno, elettronica e sperimentazione.
Di The Harp è già uscito il Chapter 1 (su etichetta Floating Notes Records) mentre i restanti due saranno pubblicati nei prossimi due anni. E, una volta terminato, tutto il progetto verrà presentato alla prestigiosa Royal Albert Hall di Londra. Viaggio di 19 minuti che inizia con il crine che sfrega sulle corde dell'arpa e termina, per il momento, con suoni controversi e un battito incessante di strilli all'interno della cassa armonica, Chapter I è stato registrato a San Bernardino in Svizzera, a 1700 metri di altezza, con Kety Fusco impegnata a suonare l’arpa classica Daphne 47, l’arpa elettronica Salvi Delta in carbone e l’arpa elettronica Salvi Delta in legno.
Intervista esclusiva a Kety Fusco
Cosa porta una bambina di sei anni a suonare l’arpa?
Dietro c’è una storia molto particolare. Quando ero piccolina, ero una bambina iperattiva, un disturbo che all’epoca non di diagnosticava come oggi. A quattro anni avevo iniziato a praticare il karate ma la situazione era peggiorata: ero ancora più iperattiva di quanto mi servisse. Poi, un giorno a scuola si è verificato un episodio poco piacevole che purtroppo mi ha vista protagonista: senza farlo apposta, ho finito con il tirare un calcio sui denti a una bambina.
Sono stata allora mandata in terapia e lo psicologo ha consigliato ai miei di farmi smettere con le arti marziali e di farmi avvicinare al mondo del musica. Ma io non volevo saperne di suonare uno strumento… a parte mia sorella, in casa mia non suonava nessuno. La svolta è arrivata quando per caso, durante una vacanza in montagna, ho assistito a un concerto di arpa e mi sono innamorata dello strumento: ho avuto come una folgorazione. Ricordo tuttora l’attimo esatto in cui a sei anni ho detto a mamma e papà che volevo suonare quella cosa che non sapevo nemmeno cosa fosse. Dopo una settimana, ho cominciato le lezioni e non ho più smesso.
Hai appena pubblicato il primo capitolo di un progetto particolare, The Harp, che ti vede suonare tre arpe diverse. Come nasce?
Nasce dalla mia esigenza di ricercare con l’arpa sonorità più moderne o, meglio, più vicine a me e al mio modo di intendere l’arte. Il mio approccio allo strumento è molto istintivo. Frequentando il conservatorio, mi sono resa conto a un certo punto che avrei dovuto disimparare quello che avevo imparato perché mi stava limitando: avrei dovuto smettere con la tecnica che mi avevano insegnato per iniziare a creare e divertirmi. Ed è da quello che viene anche la volontà di abbinare vari tipi di arpa, classica ed elettronica.
Mi piace giocare con la bipolarità dello strumento: l’arpa classica ti restituisce un suono che ti aspetti, quello a cui sei abituato, mentre l’arpa elettronica produce sonorità inattese. Mixandole, crei quasi un elemento di disturbo perché si rompe un’abitudine e si permette a chi ascolta di avvicinarsi a un’altra attitudine. Ricordiamoci che l’arpa classica è uno strumento che è nato nel VII secolo: la mia idea era ed è quella di modernizzarla. Parto da un presupposto semplice: ma se l’arpa nascesse oggi, come la inventeresti o la faresti?
Non è la tua voglia di sperimentazione frutto dell’iperattività di cui parlavi prima?
Penso proprio di sì: non riesco a stare ferma neanche con il mio strumento. Ho sempre bisogno di fare cose: la mia mente è alla ricerca di stimoli continui, di qualcosa che abbia comunque un senso. Da un certo punto di vista, non trovo mai pace ma è proprio questo il mio carburante.
The Harp è stato registrato in un ex fienile adibito ad abitazione a 1700 metri d’altezza in Svizzera. Che valore ha per te il contatto con la natura?
Per me, è fondamentale. Da quando ho iniziato il mestiere di musicista, ho perso il contatto con me stessa. È come se fossi diventata un progetto, sono Kety Fusco l’artista, e ciò ha fatto sì che mettessi quasi da parte la persona che sono. riconnettermi ogni tanto con la natura, toccarla e sentirne l’aria addosso, mi aiuta a sentirmi: so in quel momento che esisto anche come individuo. Nel profondo, sento di essere ancora una persona che vive e respira. È una sensazione che provo solamente o a contatto con la natura o mentre suono durante i live. Gli altri giorni, invece, è molto più difficile che io pensi a me stessa: il musicista è oramai più un imprenditore, costretto stare dietro al marketing o alle altre mille cose da fare.
E al Corona Sunsets Festival World Tour a cui prenderai parte avrai modo di essere sia a contatto con la natura sia su un palco a esibirti davanti a un pubblico. Ogni volta che suoni, cosa ti auguri che percepisca chi viene a sentirti?
A me interessa che il pubblico si faccia delle domande. Mi piacerebbe che il suono che percepisce lo spingesse a riflettere e a crearsi un nuovo pensiero: “Cosa vuole dirmi Kety Fusco con la sua musica?”. Vorrei che si lasciasse ispirare da ciò che viene offerto in quella specifica situazione: i miei live non sono mai uno uguale all’altro… Mi adatto molto a ciò che ho davanti. Decido sul momento quali pezzi suonare in base all’ambiente circostante e il pubblico a fine concerto può anche andar via incazzato nero: l’importante è che abbia un pensiero e che non mi rimanga indifferente.
Tant’è che The Harp, il tuo progetto, ha come obiettivo quello di “lasciare l’amaro in bocca”, sia positivamente sia negativamente. Come fa l’amaro, che di per sé ha una connotazione negativa, a esser positivo?
L’amaro può essere anche qualcosa di apprezzabile: a me, ad esempio, piace tantissimo la sensazione che mi rimane in bocca dopo aver mangiato il radicchio… l’amaro in bocca è un po’ quell’elemento disturbo che ti lascia delle questioni in sospeso. E a me interessa sapere che l’ascoltatore sia “disturbato” da una sensazione, per rifletterci e arrivare alle sue deduzioni anche in un secondo momento dopo un’esplorazione. La mia ricerca si basa proprio su questo: le cose semplici che funzionano o arrivano subito non fanno parte di me. Tant’è che The Harp dura ben 19 minuti, l’anti-marketing per eccellenza: chi ascolta lo stesso brano per così tanto tempo? Se lo fai, è perché hai bisogno di andare a fondo e capire.
Sei giovanissima. E alla tua età ci si pone ancora delle domande sulla propria identità. Hai capito chi sei e cosa vuoi realmente anche dalla vita stessa? Hai chiaro il tuo percorso?
Diciamo pure di no. Sono in una fase esistenziale un po’ speciale, in una sorta di limbo. Non riesco a vivere e pensarmi al di fuori di un’arpa. Ne parlo spesso anche in terapia con la mia psicologa: non riesco a vedermi senza il mio strumento. È come se fosse diventato il mio scudo, la mia forza, ed è qualcosa che un po’ mi spaventa perché non mi vedo più come una persona ma come un tutt’uno con quello che sto facendo. E non mi riconosco. Come vedo il mio futuro? Insieme a qualcuno? No, io vedo me e l’arpa sempre insieme.
Detta così, sembro una di quelle psicopatiche che si vedono in certi programmi tv che amano le loro auto e le coccolano come se fossero figli (ride, ndr). Però, scherzi a parte, è come se il mondo al di fuori dell’arpa non mi interessasse. È come se avessi bisogno di connettermi con la musica per esistere e stare al mondo, altrimenti non ce la faccio: è complicato… è così tanto che stiamo insieme che non riuscirei proprio a vedermi senza.
L’arpa è comunque uno strumento che ha una sua certa dimensione e imponenza. È facile per una donna salire su un palco e suonare l’arpa?
Dipende da quale arpa. Quando suoni l’arpa classica, devi proprio abbracciarla. Ne senti tutte le vibrazioni sul petto perché l’appoggi alla spalla destra. Con l’arpa elettronica, è diverso: non hai bisogno di appoggiarla addosso, tant’è che mentre suono ballo anche.
Hai provato mai sulla tua pelle i pregiudizi per essere una musicista donna?
Domanda interessante. Nel mondo dell’arpa, a suonarla siamo praticamente solo donne: è un po’ come se si ribaltasse la situazione e a essere maggiormente discriminati sono gli uomini. Tant’è che non è difficile che un arpista venga anche snobbato (ride, ndr).
Però, mi rendo conto soprattutto quando sono in giro a suonare di avere a che fare quasi solo con uomini. Esiste ancora un fortissimo gender gap tanto che associo una delle mie più brutte esperienze della mia vita di artista a quella volta in cui ho suonato in un ensemble con due uomini: ero la sola donna ed ero pagata meno di loro, nonostante facessimo le stesse cose. Ero scioccata, è accaduto due anni fa ma non si sembrava vero.
Ripeto: quello dell’arpa è un mondo prettamente femminile. Quindi, non ho mai sentito il peso di essere donna. E, poi, ammetto di essere veramente molto cazzuta e gli uomini me li mangio a colazione! (ride, ndr).
Una volta terminato, The Harp verrà presentato alla Royal Albert Hall di Londra, dove hai già suonato. Che emozione provoca esibirsi in quello che è uno dei templi riconosciuti della musica mondiale?
Rappresenta un punto fermo nella mia carriera. È vero che sono ancora giovane e che ho iniziato veramente da poco però suonare lì ma è il coronamento di un sogno che avevo mentre studiavo. Ho seguito, quando frequentavo il Conservatorio, delle lezioni al Royal College, che si trova proprio di fronte: ogni tanto, mi giravo verso la Royal Albert Hall e mi chiedevo se mai un giorno avrei avuto la possibilità di suonare lì dentro.
Riuscirci non è solo merito della formazione comunque solida datami dal conservatorio ma anche degli sforzi che ho fatto successivamente per crearmi la mia identità. Chi mi ha chiamata ha creduto nel mio progetto e in ciò che volevo dire anche con la parte visual accentuando ancor di più la mia motivazione e permettendomi di dire “ok, sto arrivando e posso continuare a seguire il mio percorso in questo modo”.
Quanta autodeterminazione serve per far diventare l’arpa uno strumento di lavoro?
Mi sono imposta di vivere suonando l’arpa perché comunque non so fare nient’altro. Quando ho finito il Conservatorio, avrei potuto provare a insegnare o a entrare in un’orchestra ma non erano strade che facevano per me e il mio modo di vedere l’arte. Volevo costruirmi la mia identità e creare qualcosa di mio. Ho avuto la fortuna di conoscere persone che mi hanno avvicinata al mondo della musica indipendente e, grazie a loro, ho capito che per vivere con l’arpa avrei dovuto cambiare il mio approccio. Ovvero, disimparare quello che avevo appena finito di imparare, come dicevo prima.
So che mi rivolgo a una nicchia ma il mio obiettivo è quello di provare a cambiare il presupposto per cui l’arpa è uno strumento antico. Ci credo fermamente e attribuisco alla mia convinzione anche un valore simbolico: vorrei far credere a chi mi segue che, se con l’arpa riesco a fare tutto quello che voglio, anche loro possono. Non c’è nulla di impossibile.
Come ti senti quando ti ritrovi in contesti con altri musicisti magari più affermati o pop?
È difficile fare dei paragoni perché si proviene da mondi distinti. Tuttavia, trovo sempre bello sapere che anche loro stanno vivendo del loro mestiere, facendo musica in un modo diverso dal mio e credendo nel loro progetto. Non penso mai che si sia a livelli differenti: io ho il mio trip con l’arpa, loro con altro. Però, è bello vedere che nonostante le diversità ci ritroviamo insieme su un palco a condividere un’esperienza.
Cosa hai sacrificato di te per l’arpa?
La mia vita, le mie relazioni. È un lavoro che è fatto di mille aspetti differenti: seguo l’etichetta, seguo la distribuzione, compongo, suono, mi esibisco… per sopravvivere con questo lavoro, sono costretta a far tutto, altrimenti dovrei cominciare a dare percentuali in giro e non mi resterebbe niente. Da musicista indipendente, se ne sta andando della mia salute, anche mentale: sono arrivata molto vicina al burnout svariate volte ma ne vale la pena. Non mi vedo a far nient’altro che questo. Da un lato, viaggiare tanto, essere in giro, vedere mondi nuovi e conoscere persone nuove è bellissimo ma, dall’altro lato, manca la stabilità. Non si può avere tutto, lo so, ma intanto ho scelto di continuare così perché mi piace.
Concetti chiavi del Corona Sunsets Festival World Tour, oltre alla natura, sono anche relax e divertimento. Cosa sono per te?
A me piace tantissimo ballare e ascoltare musica techno: per me, può essere una forma di divertimento… e giuro che vado senza arpa! Associo invece il relax ai momenti in cui sono a San Bernardino, a 1700 metri d’altezza. Ci vivo soprattutto d’estate e trovo lì un po’ di pace.
Tornando indietro nel tempo, cosa pensavano i tuoi coetanei quando da bambina suonavi l’arpa? Non era di certo una cosa comune…
I miei compagni di classe ne erano incuriositi e, non so perché, ne erano contenti. Si interessavano a me che suonavo l’arpa e non di rado mi permettevano di portarla a scuola. Ovviamente, a fine anno, ero sempre lì a far i concertino per loro! Gli amici lo hanno sempre trovato bello mentre, per assurdo, è proprio oggi che sembra strano vedere qualcuno che suoni un’arpa. Ultimamente, mi è capitato fin troppo spesso che ci siano persone che non sappiano cos’è un’arpa.
Vedi ancora la tua terapista?
Sono stata costretta ad andare proprio perché al limite del burnout. Sempre super impegnata, sono arrivata al punto di sentire il cuore agitarsi quando non faccio nulla. È strano ma non riesco più a star ferma, è come se si fosse per me invertito tutto. Ho dunque bisogno di qualcuno che mi dia disciplina in tal senso: se fosse per me, lavorerei e basta, proprio perché mi piace quello che faccio e non vorrei mai smettere neanche per dormire.
Qual è la regola più importante che ti sei data?
Il non aver regole. Mi sento libera da ogni imposizione e, soprattutto, mi lascio ispirare dalle situazioni, dalle giornate e dal momento.
È facile starti accanto?
Dico solo che il mio tour manager è andato in esaurimento. Le persone che mi stanno accanto diventano un po’ matte perché non riescono a starmi dietro. Devo tenere a bada la mia iperattività e cercare di non trasmetterla agli altri: sono troppo agita e agito anche gli altri. Devo imparare a stare più tranquilla.