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Kimerica: “Ho imparato a vivere insieme ai miei fantasmi” – Intervista esclusiva

Nel suo album Fantasmi, la cantautrice e producer Kimerica affronta le varie facce dell’amore. Partendo dalla propria esperienza personale, realizza un excursus in bilico tra elettronica all’avanguardia e grande attenzione per i testi.
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Kimerica è uno di quei nomi che dovete segnarvi subito. Anzi, appena finite la lettura di quest’intervista esclusiva aprite Spotify e cercare il suo primo album, Fantasmi (Lost Generation Records/Believe). Sarete rapiti da un mix di musica elettronica e testi profondi che non hanno eguali almeno nel panorama italiano.

Cantautrice e producer ventinovenne, Kimerica affronta in Fantasmi le varie fasi del dolore legato a una separazione, fino ad arrivare a una rinascita. Come in una sorta di diario personale ora profondo ora psichedelico, Kimerica fa i conti con gli spettri con cui ha imparato a convivere, nascondendoli eventualmente sotto il letto pur di non far loro prendere il sopravvento. L’amore cantato assume varie sfumature e il rapporto con l’altro si declina in forme di scrittura vicine a un flusso di pensieri che ognuno di noi ha affrontato quando rimane da solo con il proprio io.

Kimerica (fotografo: Francesco Greco; make up artist: Luca Pieretti).
Kimerica (fotografo: Francesco Greco; make up artist: Luca Pieretti).

Erica Stella Kim Noventa, vero nome di Kimerica, è consapevole di ciò che racconta. Lo ha vissuto sulla propria pelle o l’ha provato attraverso le esperienze di persone a lei vicine. Ma non si piange mai addosso: ha la forza che ogni giovane età dovrebbe avere, quell’energia che ti fa capire che occorre andare avanti anche quando la notte prende il sopravvento.

Kimerica non è artista da testi smielati o da armonie sentite. In bilico tra grande cantautorato e sperimentazione elettronica, sa sorprendere, disturbare e talvolta piangere, come accade se ascoltate al buio Ninna nanna, uno dei pezzi sicuramente più forti dell’album, al pari di Honey. Ma Kimerica è anche un’artista che sa giocare con l’immaginario e la sua stessa immagine. Ed è una ragazza che dalla sua Padova si è imposta in un ambiente da sempre sessista e fortemente maschilista.

E, se non vi bastasse, Kimerica è anche una forza della natura, che ti avvolge, travolge e sconvolge, costringendoti a un bel trip mentale. L’intervista che segue è stata segnata da un continuo ridere e punzecchiarsi, da ironia e autoironia, due doti che sono sempre sinonimo di grande personalità e intelligenza. Fidatevi.

Kimerica (fotografo: Davide Valenti; make up artist: Valentina Montalto).
Kimerica (fotografo: Davide Valenti; make up artist: Valentina Montalto).

Intervista esclusiva a Kimerica

Cominciamo con la più semplice delle domande: quando ti sei avvicinata alla musica?

A sei anni ho cominciato a suonare il pianoforte. Sarò sempre grata ai miei genitori per avermelo lasciato fare. Da adolescente, poi, ho scelto il liceo artistico ed ero nel panico: volevo fare di tutto. C’è stato anche un momento in cui non consideravo nemmeno la musica perché per me era una “cosa che non si poteva fare”. O, meglio, pensavo che sarebbe stato figo fare la cantante ma avevo la convinzione che non sarebbe mai successo.

Un giorno, mentre ero intenta a cercare un’altra strada, un’amica di mia madre mi ha parlato di una scuola di musica a Milano. Per curiosità, sono andata a vederla e me ne sono totalmente innamorata. È come se improvvisamente i miei occhi si fossero aperti: non potevo più tralasciare la musica e non considerarla come la mia prima scelta. Sono così andata a vivere a Milano, dove per un paio d’anni ho frequentato il CPM, fino a quando, abbandonandolo, ho deciso di trasferirmi a Roma.

Nella capitale, avevo trovato una realtà che sembrava rispecchiarmi maggiormente, che mi potesse insegnare quello che volevo io: comporre e produrre la mia musica. Nella nuova scuola in cui sono arrivata ho avuto come la sensazione di entrare in un parco giochi bellissimo. Da lì, non mi sono più fermata. Sono rientrata tempo dopo a Milano e ho cominciato a frequentare una scuola di musica per producer, tecnici del suono e altre figure: mi serviva per affinare la tecnica.

Finito il percorso accademico ti sei però confrontata con l’ambiente discografico presentandoti come producer, una figura tipicamente maschile. Conoscendo il sessismo di quel mondo, non sarà stato facile.

Per certi versi, sono stata fortunata da un punto di vista pratico. Ho cominciato a produrre persone che conoscevo e che, quindi, venivano appositamente da me. Ci sono state anche delle figure di riferimento che mi hanno aiutato molto, ad esempio un mio ex insegnante che credeva moltissimo nelle mie capacità e che mi ha messo in contatto con vari artisti.

Noto maggior sessismo quando mi presento con il mio progetto da artista. Si dà per scontato che non è roba mia, che lo ha prodotto qualcun altro. Da quando sto con il mio attuale ragazzo, anche lui musicista, per tutti è diventato in automatico lui il mio produttore ma non ha mai prodotto nulla in vita sua, anzi: sono io la sua produttrice. Noi donne siamo sempre messe in discussione: un cantautore rimane sempre un cantautore mentre una cantautrice, chissà perché, non può far tutto lei e, soprattutto, non può aver un contenuto da presentare.

Nel tuo caso, il contenuto non è solo musicale e letterario ma è anche visivo. I tuoi video presentano spesso immagini ben curate e non lasciate al caso.

A me vien da parlare di immaginario. Mi piace collegare musica, parole e immagini per creare un mondo in cui nulla è distinto.

Kimerica (fotografo: Francesco Greco; make up artist; Luca Pieretti).
Kimerica (fotografo: Francesco Greco; make up artist; Luca Pieretti).

Il tuo primo album si chiama Fantasmi. I fantasmi a cui fai riferimento sono quelli della tua anima, quelli che ti hanno perseguitata. Hai vinto oggi quei fantasmi?

Non so se li ho vinti o se cerco di vincerli. Cerco semmai di conviverci, di localizzarli e di farci amicizia. Il percorso che racconto nel mio disco parla proprio di questo: non si tratta di scacciare i fantasmi ma di viverci insieme. A volte sono io il fantasma, altre volte no. Ci sono canzoni che sono più tormentate, in cui sono totalmente succube dei fantasmi e ce ne sono altre che hanno a che fare con la rinascita, con il voltare pagine, ma senza mai rinnegare quei fantasmi.

Uno dei fantasmi più presenti è quello di una relazione tossica. Ne canti in maniera anche cruda, se vogliamo, in Honey e in Ninna nanna, due canzoni che dialogano tra loro e che forse non potrebbero esistere l’una senza l’altra.

Sono tra i brani più vecchi di tutto il disco e sono stati scritti nello stesso periodo. Entrambe parlano di una storia che ha qualcosa di violento dentro ma non l’ho fatto apposta, me ne sono accorta dopo. Nelle canzoni non parlo esattamente di me o della mia esperienza diretta: ho semmai usato le storie di qualcun altro per raccontare qualcosa di me.

Ho scritto Ninna nanna, per esempio, mentre studiavo a Roma. Ho conosciuto lì una ragazza, una mia compagna di corso anche lei cantautrice, che si era da poco lasciata con il suo fidanzato storico. Ed era finita molto male, con lui che le aveva messo le mani addosso quando lei era tornata nella loro casa per riprendersi le sue cose. Il giorno dopo, a lezione, mi aveva raccontato quello che le era successo con il modo candido che ha lei nel porsi. Mi sono in quel momento sentita vicino a lei: è come se avessi condiviso le sue sensazioni, le sue emozioni e le sue paure. E ho deciso allora di dedicarle una “ninna nanna”, che alla fine parla tanto di me.

Una cosa simile è successa anche per Honey. Anche se, per quella canzone, non ha il mio punto di vista ma quello maschile. Ciò non vuol dire che ho cercato di immedesimarmi in lui o di giustificare quello che accade. Semplicemente, avevo voglia di scrivere una canzone che parlasse di violenza senza ricadere nei cliché solitamente abusati.

In Honey, senza girarci troppo intorno, costruisci un percorso che sfocia nella peggiore delle violenze che un uomo può commettere ai danni di una donna. Ed è una di quelle canzoni che lasciano trasparire la figura del maschio tossico che esercita tutto il suo potere.

È interessante la lettura che hai dato ai miei testi e ha assolutamente un senso. In Discokim o Guarda come me ne vado, ad esempio, (guarda caso dedicate entrambe alla stessa persona) c’è sicuramente una persona che mi ha fatto del male, però il potere viene esercitato in modo completamente diverso. Non è violento come quello di Honey ma è il potere che un uomo impone nel momento in cui rifiuta di assumersi la responsabilità delle cose e lascia tutto in mano all’altra persona. È un pattern che riscontro in parecchi uomini: non voglio ovviamente generalizzare.

La “stessa persona” a cui accenni mi sembra di capire che ti ha segnata in qualche modo.

Diciamo pure che ho davvero faticato ad andare avanti. Per anni non sono andata oltre e ne ho portato i segni. In realtà, i segni potrei averli ancora però li ho metabolizzati in modo completamente diverso. Nonostante avessi altre storie, mi sentivo sempre ferita e sembrava che nulla potesse cambiare lo stato delle cose. Finché un giorno mi sono svegliata e mi sono resa conto che stavo guarendo. Ed è lì che ho scritto Guarda come me ne vado: era la mia rinascita.

Cosa ti ha fatto capire che stavi “rinascendo”?

Mi sono resa conto che faceva meno male, che non ci pensavo più molto spesso, che ero più leggera e che mi fidavo maggiormente delle persone. Perché non si tratta solo di metabolizzare il dolore. A volte, le separazioni sono traumi e i traumi lasciano dei segni, come la difficoltà a relazionarsi non solo con i nuovi amori ma anche alle altre persone. Capisci di esserne in qualche modo fuori quando avverti sensazioni o emozioni che non pensavi di poter provare senza quella persona.

Hai vissuto anche tu la fase di isolamento emotivo?

Avevo delle persone accanto. È vero che ci si isola emotivamente ma ho cercato di non farlo. Più che l’isolamento io ho vissuto la fase della paura di non poter vivere più tutto ciò che per me era bello. E, invece, sono semplicemente cresciuta, anche a costo di fare un passo indietro. Occorre sempre reagire quando qualcosa prova a distruggerti.

Il trauma della separazione non ti ha fatto passare la voglia di rimetterti in gioco?

No. Di carattere, sono una donna che, anche se sbatte la testa tremila volte, il giorno dopo è pronta a risbatterla.

E lo si evince chiaramente da altri due pezzi sull’amore, tra loro molto diversi. Uno è Lasciami entrare e l’altro è Un’altra vita. Il primo è una sorta di dichiarazione, l’altro un rimpianto per qualcosa di non vissuto.

In Un’altra vita si parla di un amore mai nato del tutto. Mentre la scrivevo, c’era la disillusione di chi sa che qualcosa non può funzionare e per cui non fa nemmeno un mezzo tentativo. Lasciami entrare, invece, è l’esatto opposto.

In Lasciami entrare canti “mia dolce preda, sei anche la belva che oggi si sazierà”. Bel cambio di prospettiva.

Da produttrice, quel verso ho pensato tante volte di non metterlo ma poi ho deciso che fosse utile per capire anche la situazione raccontata. La prima strofa ha un tono quasi imperativo, sembra quasi che l’altro non volesse “farmi entrare”. Ma non era così: semplicemente, la vita a volte è un casino e può capitare di incontrare qualcuno che in quel momento non è “aperto”, predisposto a lasciarti entrare. La dicotomia preda/belva fa capire che anche lui avrebbe voluto, che la situazione era reciproca.

Chiudi gli occhi è un continuo stato di alternanza tra sogno e realtà.

Con Coro per la fine del mondo, è una delle due sole canzoni del disco che non ho scritto da sola. L’ho scritta con un mio amico d’infanzia, Marcello Realdon, ed è forse la meno personale perché parla di lui! Nasce da una sua esperienza personale: è stato ricoverato in ospedale, ha subito un’operazione e ha vissuto per qualche giorno in uno stato di veglia, sonno e semi veglia. Partendo da ciò, ci siamo fatti un viaggio quasi mentale, che poi è lo stesso meccanismo che sta alla base di Coro per la fine del mondo, dove però l’esperienza di partenza era tutt’altra. Ci siamo lasciati ispirare dalle parole e dal suono delle stesse.

E qual era l’esperienza alla base di Coro per la fine del mondo?

Il lockdown. Vissuto da una persona della mia generazione, il lockdown ha messo in discussione anche il futuro, ancora più di prima. Perché non sai più cosa sia la normalità, ti disabitui persino a stare in mezzo alle persone. Ed è per questo che ci siamo immaginati una persona che, per la prima volta dopo il lockdown, va a una festa e non sa più come relazionarsi agli altri. Già il fatto di essere in mezzo a una folla è uno sballo.

Guardando al futuro, dopo quell’esperienza di chiusura, c’è la paura di farsi male perché si ha la consapevolezza di non capirci più nulla e di non avere minimamente il controllo delle cose. La canzone è come se fosse un attacco di panico. Ecco perché il protagonista cerca di calmarsi e di dirsi che non è la fine del mondo. E lo capisce sul finale, quando va in un parco e aspetta l’alba.

In Chiudi gli occhi, canti anche di salti e brividi che commemorerai. Quali sono?

Domanda difficilissima. Non è facile trovare una risposta perché si tratta più che altro di una sensazione che non riesco a spiegare a parole. Un po’ come quando ho provato emozioni forti in momenti significativi della mia vita. Mi rimane il ricordo della sensazione ma non quello dell’avvenimento.

In Not Anymore ti diverti a cambiare lingua, con una prima parte cantata in inglese.

Mi è capitato spesso di cantare in inglese in passato. Così come mi è capitato di scrivere in inglese o alternando inglese e italiano. A me piace scrivere tantissimo in italiano. C’è stata una fase in cui credevo che, come lingua, fosse più veritiera e sincera. Ma poi mi sono resa conto che non è che l’inglese lo è: non sono meno sincero ma cambia semplicemente il modo di scrivere, tanto che molto probabilmente in futuro sentirete anche dei pezzi tutti in inglese.

Per natura, mi piace molto sperimentare. E Not Anymore ha una prima parte in inglese e una in italiano ma sembra che si parli di due cose differenti. In realtà, sono le due facce della stessa medaglia, una più emozionale e una più istintiva, presa dal momento. La prima parte sembra quasi un mantra che si ripete nella testa della persona. La seconda, invece, segna il ritorno alla realtà, alla lucidità e alla pragmaticità.

Quindi, tra le righe, stai già lavorando a un nuovo disco?

Non ancora. Ho già scritto parecchio ma devo capire in che direzione andare. Non escludo che metterò da parte alcune delle cose che ho scritto. Anche perché vorrei fare qualcosa che non ho mai fatto prima: scrivere un intero album con lo stesso concept o lo stesso mood. Tutte le volte che sono partita con l’idea di “programmare” la scrittura, non mi è mai venuto fuori niente: scrivo solitamente le canzoni quando non ho il tempo di scriverle. Se ho troppo lavoro da fare, mi nascono contemporaneamente mille idee per una canzone!

Ma hai anche cantato in un’altra lingua, il rumeno. Non è contenuta in Fantasmi ma per la colonna sonora del film Un altro giorno d’amore hai rivoluzionato Dragostea din tei.

È stato super divertente: mai nella mia vita avrei pensato che mi avrebbero commissionato una cover di Dragostea din tei. Riarrangiare i pezzi degli altri è qualcosa che mi piace da sempre, lo facevo molto spesso soprattutto quando ho iniziato a studiare produzione. Si tratta di qualcosa che, però, si può fare con una certa tranquillità solo su alcune canzoni, quelle più leggere. Sapevo che Dragostea din tei sarebbe stata inserita in una scena molto drammatica di scontri tra manifestanti al G8 di Genova e la polizia e, di conseguenza, ho voluto trasformare la canzone in qualcosa di super serio.

La copertina di Fantasmi, l'album di Kimerica.
La copertina di Fantasmi, l'album di Kimerica.

Hai anche realizzato la copertina di Fantasmi. Com’è nata?

È nata da un dipinto che avevo realizzato qualche anno fa mentre mi trovavo a Roma, quando ho scritto le prime canzoni. Mi era rimasto nel cuore e per la copertina ho pensato a una sua versione più stilizzata, in bianco e rosso, i miei colori. Sono io che mi crogiolo: rappresenta il mood del disco (ride, ndr).

Kimerica (foto di Michele Scalzo).
Kimerica (foto di Michele Scalzo).
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