Chi dice che il rock sia morto non ha mai ascoltato Kreky & the Asteroids. E ha fatto male. Si è perso le dieci tracce in inglese di Banner Blindness, il loro primo album rilasciato sulle piattaforme digitali lo scorso 22 aprile (Romolo Dischi / Pirames International). In questo loro primo progetto, i componenti di Kreky & the Asteroids sono affiancati da due artisti di grande spessore, che non hanno bisogno di definizioni: Roberto Angelini e Carmelo Pipitone dei Marta sui Tubi.
Il titolo dell’album spiega qual è il filo conduttore che lega i brani: la cecità selettiva, quella reazione inconsapevole che mettiamo in atto per tutelarci dalla sovraesposizione dei messaggi pubblicitari. Eppure, è chiudendo i banner che riteniamo inutili che rischiamo di perdere notizie o informazioni che invece potrebbero essere importanti anche per noi stessi.
Discostandosi da quel rock che cerca nel glamour o nel rumore anche mediatico la sua ragione di essere, i Kreky & the Asteroids hanno molto da dire nei loro testi. Accompagnati da chitarre elettriche e hammond, sono articolati e complessi, in un inglese impeccabile e denso di significati. Ecco perché applicare su di loro la cecità selettiva sarebbe un errore imperdonabile. Se volete liberarsi dalla schizofrenia e dall’oppressione di ciò che è superfluo e vacuo, i Kreky & the Asteroids fanno al caso vostro.
Del disco e del progetto abbiamo parlato con Gabriele, autore e voce del gruppo. E nel corso di quest’intervista, una delle tante conversazioni fluide a cui TheWom.it vi ha abituati, scoprirete molto del gruppo, a partire dal perché del nome al periodo in cui lo stesso Gabriele ha vissuto una certa discriminazione solo perché sardo.
INTERVISTA ESCLUSIVA AI KREKY & THE ASTEROIDS
Iniziamo con la più semplice delle domande: quanti anni hai e di dove sei?
Ho quasi 33 anni e sono nato a Roma. Ma il mio sangue ha discendenze sarde.
E come ti definiresti?
Un punk che fa roba cantautorale in inglese, che ha tutt’altra cultura diversa rispetto a quella occidentale: ho più la cultura sarda, essendo cresciuto con quella a casa. Fuori dal coro, purtroppo, anche non volendo.
Perché fuori dal coro?
Perché, essendo crescendo qui a Roma, ho sempre riscontrato una notevole differenza con la Sardegna o, semplicemente, con gli amici che avevo lì. C’è tutto un modo di stare, fare o pensare diverso. Adoro gli amici che ho a Roma, chi mancherebbe altro, non li chiamerei altrimenti amici… però, vuoi o non vuoi, la formazione che ho avuto a casa mi ha reso diverso. C’è qualcosa di più forte che mi lega alla Sardegna.
Mi spieghi invece che vuol dire il nome del tuo gruppo, Kreky and the Asteroids? Agli asteroidi ci arrivo ma Kreky?
The Asteroids è qualcosa legato all’età di tutti i componenti della band: al retaggio da videogiochi anni Ottanta che accomuna la nostra generazione. Kreky, invece, è il mio cognome scritto come si pronuncia in campidano ma in forma inglese. È stata una mia intuizione e pensa che non mi drogo! Un giorno stavo parlando con mia mamma e le ho detto: “Sai che faccio? Prendo il mio cognome, lo converto in inglese ma come si pronuncia in Sardegna”. Ho costretto tutti quanti a chiamarmi in sardo, una cosa bellissima.
Ritorna quindi ancora una volta la storia della diversità legata alla terra d’origine…
Quand’ero piccolo, non per fare del vittimismo, a scuola sono stato costantemente preso in giro, come se fossi uno straniero: “puzzi di capra, puzzi di pecora”… Mi sono portato questa forma di discriminazione fino alle medie. Oggi fortunatamente è passato: sono contento di essere sardo e ne vado fiero.
Te l’avranno chiesto decine e decine di volte: perché hai scelto di scrivere e cantare in inglese?
È sempre legato alla mia persona. Sono cresciuto ascoltando musica inglese, l’alternativa a casa era altrimenti in sardo. Per questa ragione, non sono abituato a scrivere in italiano. Certo, lo facevo a scuola… a breve usciranno due brani in sardo. L’alternativa all’inglese per me è il sardo non è l’italiano. Finché scriverò io, i testi saranno così.
Tu sei autore dei testi e delle musiche di questo primo album dei Kreky and the Asteroids, Banner Blindess. Già dal titolo è chiara una certa critica sociale.
Siamo dei “vecchi” criticoni. Abbiamo dei modi di pensare molto ottocenteschi o novecenteschi. Non abbiamo subito quella conversione di mentalità che è stata portata avanti negli ultimi dieci anni in Europa. Luca, il batterista ma anche pubblicitario, mi aveva fatto notare come io avessi un certo rifiuto nei confronti di tutto ciò che mi accade intorno. E come questo fosse simile a quello che accade alle persone nei confronti dei banner dei siti web. Questa è la banner blindess, ovvero la cecità selettiva che gli utenti adottano nei confronti dei banner che compaiono in continuazione. Siamo tutti disinteressati alle pubblicità ma in questo modo non notiamo quando questa potrebbe rivelarsi utile.
Dai testi dell’album emergono ovviamente dei temi ricorrenti. Uno di questi è la spiritualità, che emerge a partire da Moonless Sky, il vostro nuovo singolo. È così forte in te il bisogno di spiritualità?
Ti sei letto i testi? È raro che qualcuno si legga. Non so quanto possa parafrasare la risposta, è qualcosa che cerco sempre di bypassare. Evito anche la domanda perché se dovessi spiegare realmente i motivi di ciò dovrei tirare in ballo troppe persone e non mi va di farlo in questo momento. Non mi va di essere additato come “quello di quella roba spirituale”, un po’ occulta. Non è nelle mie prerogative.
Ribadisco però che i testi sono molto belli. Solitamente gli italiani che cantano in inglese, a parte qualche rara eccezione, scrivono testi brevissimi e anche senza senso. I tuoi, invece, sono lunghi, articolati e ben scritti. Hanno dei contenuti che non sono lì in inglese perché si adattavano al rock o volessi fare il figo.
Sarò onesto: sono frutto di un processo di conoscenza che si mette in atto facendo tanti errori. Delle interferenze che sono tipiche di ogni essere umano. Sono come riflessioni: più cazzate fai, più impari. Ovviamente, non è l’unico modo per imparare, ce ne sono anche altri. Coniugare la musica rock un po’ americana, con dentro venature anche di country, con quei testi mi ha stranito all’inizio: se non fossi arrivato a determinate conclusioni, alle metaforiche testate contro il muro, non avrei mai scritto testi del genere. Manca adesso quel tipo di spiritualità nella musica in Europa, in Occidente. Risulta anche una banalità ribadirlo: non è una cosa nuova.
Come gruppo, avete fatto delle scelte che sono poco mainstream. In un momento in cui il rock italiano è glamour, non vi siete fatti travolgere. Anche la durata delle vostre canzoni va sopra quelli che sono diventati oramai i tre canonici minuti usa e getta.
Sono contrario a certe dinamiche del mercato. L’anno scorso, ad esempio, avevo fatto il gravissimo errore di accettare un consiglio e comprare una scheda audio: io voglio entrare in studio e sentirne l’odore. Un brano, per me, è finito quando è finito: non sto a guardare il minutaggio, non rincorro il singolo. Se accorgi o allunghi qualcosa che senti già completo, puoi fare solo danni.
Anche la scelta degli ospiti del disco, Roberto Angelini e Carmelo Pipitone dei Marta sui Tubi, non è stata fatta pensando all’esito commerciale: sono lì perché stavano bene in quei contesti. Io sono cresciuto ascoltando Marta sui Tubi, è normale che sia stato permeato dai loro suoni e dal loro modo di fare musica. Idem per Angelini, che ha le nostre stesse influenze.
Non ho mai amato i singoli commerciali. Se pensiamo ai Led Zeppelin, non penso alle grandi hit. A me piacciono pezzi come Black Mountain Side. La parte musicale è molto importante e va curata tantissimo.
Come va curata tantissimo anche la parte video. Il video di Moonless Sky sembra quasi un documentario artistico sulla natura, con tantissimi bei paesaggi americani che rendono bene il senso della canzone.
Se avessimo avuto i soldi, sarebbe stato ancora migliore. Ma i ragazzi che abbiamo scelto per realizzarlo sono stati bravissimi ad accontentare tutte le nostre richieste con poco. Per fare musica servono i soldi, come servono per tutto.
E come siete arrivati a pubblicare il primo disco?
Abbiamo registrato le canzoni e cominciato a mandarle per mail alle varie etichette. Ricordo qualcosa come 25, 30 brani messi in scaletta che davano comunque un senso a tutto l’insieme. Non siamo andati in studio perché ci aspettava un’etichetta, come spesso accade. Abbiamo fatto tutto nell’incertezza e di nostra volontà, come è stata volontà nostra invitare Angelini e Pipitone. E loro sono venuti in studio senza chiedere nulla: sono stati due grandi, due persone eccezionali.
La lavorazione dell’album è stata anche estremamente travagliata. Spotlight, il primo singolo che è uscito, aveva prima un titolo diverso e non aveva nemmeno un ritornello. E ci sono state anche delle rinunce o dei brani che considero incompleti. Arpeggio, ad esempio, non ha un ritornello.
Quanto è difficile in una band mettere d’accordo tutti quanti?
Non mi reputo bravo ma mi considero molto fortunato. Ho una band che apprezza quello che scrivo, dal primo all’ultimo singolo. Per me, è una cosa molto importante.
Perché non ti reputi bravo?
Mi manca la spocchia: non so vendermi. Ed è un problema, soprattutto nel mondo attuale o nel mercato musicale. Quando vedo o ascolto gli altri, mi sento sempre piccolissimo, chiunque essi siano. Penso ci sia sempre qualcosa da imparare: non si è mai bravi abbastanza. So quando scrivo cosa mi piace di più e cosa meno. Forse solo una volta ho detto di essere riuscito a scrivere un testo bello. E ho cominciato a scrivere nel 2013.
È la pratica che aiuta. E, dal momento che non abbiamo produttori artistici alle spalle che sistemano i brani, siamo noi a dover muovere le braccia. Ecco perché occorre che io diventi bravo a scrivere. Sono quindi fortunato ad avere vicino a me persone che hanno studiato musica o che fanno questo lavoro da vent’anni. Non occorre che io dica nulla a loro: sanno già quello che devono fare.
Se penso un attimo ai tuoi testi, cosa devi fare ancora per poterti reputare bravo?
Bisogna sforzarsi di fare sempre meglio. Una canzone deve arrivare alla gente anche senza aver letto il testo. Deve saper cogliere bene un sentimento, un’emozione, un’esperienza di qualsiasi tipo, e trasmetterla alla gente. Non occorre fare dei brani che passano alla radio o stanno in classifica, occorre generare trasporto nell’ascolto. E per farlo anche la voce deve avere la sua giusta intonazione. Carmelo Pipitone dice che sono bravo ma mi imbarazza: per me non è mai abbastanza.
Sei indubbiamente bravo. Ma il continuo mettersi alla prova nasconde comunque un desiderio di riscatto che forse deriva dagli anni della scuola.
Indubbiamente, la voglia di riscatto viene fuori da quelle esperienze: se non ci fossero state, probabilmente non mi sarei nemmeno messo a scrivere musica. Ho ricominciato a suonare la chitarra a 23 anni, dopo che a 18 avevo smesso perché interessato ad altre cose. Ho frequentato una scuola di fumetto, probabilmente avrei fatto strada come tutti quelli che in quel momento studiavano con me. Però il richiamo della musica è stato forte: se devo comunicare qualcosa, mi sono detto, preferisco farlo con le canzoni, non con il disegno. Le canzoni sono fatte di parole, voce e musica: tre cose messe insieme.
Hai smesso a 18 anni per poi riprendere a suonare. Ma quando avevi iniziato?
Ho cominciato e smesso con la chitarra non una ma tre volte. Ho iniziato a tredici anni per una canzone degli Afterhours: volevo suonarla e cantarla tutta quanta. Ma comunque la musica mi ha sempre accompagnato a casa, sin da piccolo. Ricordo che cantavo le canzoni di Andrea Parodi dei Tazenda già a tre anni in giardino!
E quanti anni avevi quando hai scritto la tua prima canzone?
Penso 13 o 14 anni, quasi subito dopo aver imparato a suonare. Si chiamava Live ma non mi ricordo il testo di cosa parlasse.
Per chiudere, c’è secondo te una scena underground valida in questo momento in Italia?
Fino allo scorso anno, avrei risposto di no. L’estate scorsa invece ho avuto modo di conoscere tantissimi gruppi da cui sono rimasto realmente e piacevolmente impressionato: i The Whitefang in Sardegna, i C4, i Panta a Roma, Cigno che ha quasi riempito il Monk Club a Roma… Il problema è semmai che non ci esistono più i locali come il Circolo degli Artisti, che concentrava in un unico luogo le realtà più interessanti. Adesso tocca inseguire i vari club per scoprire qualcuno di nuovo.