Presentato nella sezione Zibaldone del 42° Torino Film Festival, L'amore che ho è un film che si addentra nei drammi e nelle gioie della vita di Rosa Balistreri, figura iconica della canzone popolare siciliana. Diretto da Paolo Licata, già noto per il pluripremiato Picciridda - Con i piedi nella sabbia, il film L’amore che ho trae ispirazione dall'omonimo romanzo di Luca Torregrossa, nipote della stessa Rosa Balistreri. Licata, insieme a un team di sceneggiatori composto da Maurizio Quagliana, Heidrun Schleef e Antonio Guadalupi, firma una sceneggiatura capace di restituire la complessità di un personaggio che ha segnato la cultura italiana del Novecento.
Il film L’amore che ho racconta con delicatezza e intensità il tentativo di Rosa Balistreri, ormai anziana, di ricucire il difficile rapporto con la figlia Angela. Il legame tormentato, che alimenta il filo narrativo dell’opera, si sviluppa attraverso un dialogo tra presente e passato, con continui flashback che ripercorrono l’infanzia e la carriera di Rosa. Cresciuta nella povertà più estrema della Sicilia rurale e segnata da esperienze di violenza e discriminazione, Rosa ha trovato nella musica non solo una via di riscatto personale, ma anche uno strumento di denuncia sociale.
La sua voce, graffiante e vibrante, è diventata il simbolo delle lotte per i diritti dei lavoratori, contro la mafia e a favore dell'emancipazione femminile, in un periodo cruciale per l’Italia.
La recensione del film
Il cast di L'amore che ho è uno dei suoi punti di forza. Lucia Sardo, Donatella Finocchiaro, Anita Pomario e Martina Ziami interpretano Rosa nelle diverse fasi della sua vita, ciascuna restituendo con autenticità un aspetto della sua personalità poliedrica: dalla determinazione della giovinezza alla fragilità dell’età adulta. Tania Bambaci dà volto e anima ad Angela, la figlia di Rosa, il cui rapporto conflittuale con la madre diventa il cuore emotivo della storia. Vincenzo Ferrera interpreta Emanuele, il padre di Rosa, un personaggio impregnato della cultura patriarcale del suo tempo, in cui amore e durezza convivono in un equilibrio drammatico.
Non meno importante è il contributo di Carmen Consoli, che, oltre a interpretare il ruolo di Alice, firma le musiche originali del film. La cantantessa siciliana, dichiarata discepola di Rosa Balistreri, riesce a trasportare nelle sonorità della colonna sonora tutta l’intensità e la passione che hanno caratterizzato la vita e le canzoni di Rosa. La musica, infatti, non è solo un elemento narrativo, ma un vero e proprio personaggio, capace di scandire le fasi della vicenda e dare voce ai sentimenti più profondi.
Il film, il cui titolo richiama una delle canzoni più celebri di Rosa Balistreri (L’amuri ca v’haiu, "L’amore che ho per voi"), non è solo un omaggio a un'artista straordinaria, ma anche un racconto che attraversa un periodo storico di grande fermento per l’Italia. Attraverso la figura di Rosa, Licata esplora le trasformazioni culturali, sociali e politiche degli anni ’60 e ’70, con uno stile visivo che distingue nettamente le epoche rappresentate. La fotografia dei flashback utilizza tonalità pastello e atmosfere vintage, in contrasto con le tinte più fredde e spoglie del presente, per enfatizzare la nostalgia e il peso dei ricordi.
Lo stile di regia si muove tra realismo documentaristico e lirismo visivo. Licata usa spesso la macchina a spalla per catturare i momenti più intimi e autentici, come i dialoghi tra Rosa e Angela, mentre nei flashback opta per una composizione più classica, che restituisce il senso di un’epoca lontana e sofferta. La narrazione si intreccia strettamente con il dialetto siciliano, usato per immergere lo spettatore nelle atmosfere dell’entroterra isolano e sottolineare la connessione viscerale di Rosa con la sua terra.
Prodotto da Dea Film e Moonlight, L’amore che ho arriverà prossimamente nelle sale. Si tratta di un’opera destinata a toccare le corde più profonde dello spettatore, con la sua capacità di raccontare una storia personale che diventa universale. Rosa Balistreri, con il suo canto intriso di dolore e speranza, non è solo una figura del passato, ma un simbolo senza tempo, capace di parlare ancora oggi a chiunque creda nella forza della musica e dell’amore per trasformare il mondo.
La voce femminista della Sicilia dimenticata
Rosa Balistreri, raccontata nel film L’amore che ho, è stata una cantautrice capace di trasformare la sua musica in un grido di ribellione e di denuncia sociale, unendo tradizione e attivismo in un modo unico e radicale. Nata nel 1927 a Licata, un piccolo paese della Sicilia rurale, Rosa Balistreri è cresciuta in un mondo intriso di povertà, disuguaglianze e violenza patriarcale. Le sue origini erano quelle di una Sicilia dimenticata e marginale, ancora intrappolata in una mentalità feudale che rendeva la vita delle donne un percorso di sofferenza e privazione.
La sua infanzia e giovinezza sono state segnate da profonde ingiustizie. Cresciuta in una famiglia poverissima, con un padre violento e alcolizzato, Rosa Balistreri fu costretta a lasciare presto la scuola e a lavorare nei campi. A soli sedici anni fu data in moglie, contro la sua volontà, a un uomo altrettanto violento. La sua reazione a questo matrimonio forzato, culminata in un tentato omicidio del marito come atto di difesa, è stata il primo segno di una ribellione istintiva e di un coraggio fuori dal comune. Arrestata e poi rilasciata, Rosa Balistreri si trovò a dover lottare da sola per mantenere sua figlia Angela, affrontando lavori umili e soprusi in ogni ambito della sua vita.
Eppure, nonostante tutto, Rosa Balistreri trovò nella musica una via di salvezza e di riscatto. Dotata di un talento naturale, iniziò a reinterpretare i canti popolari siciliani, caricandoli di una drammaticità e di una profondità che rispecchiavano la sua vita tormentata. Era una voce ruvida, intensa, intrisa di dolore e di forza, capace di esprimere tanto la miseria quanto l’orgoglio del popolo siciliano. La musica di Rosa Balistreri non era un semplice intrattenimento: era una forma di protesta. “Non sono una cantante”, diceva di sé stessa. “Sono un’attivista che fa comizi con la chitarra”.
Il suo percorso artistico prese forma negli anni Sessanta, quando, trasferitasi a Firenze, incontrò intellettuali come Dario Fo e Manfredi Lombardi, che la introdussero in un ambiente culturale più aperto e progressista. Grazie a loro, Rosa Balistreri poté finalmente dare voce alle sue esperienze e al dolore della sua terra natale. Fu proprio Dario Fo a invitarla a partecipare al suo spettacolo Ci ragiono e canto, un punto di svolta che le permise di emergere nel panorama musicale italiano come una delle voci più autentiche e rivoluzionarie.
I suoi brani erano un ritratto fedele e doloroso della Sicilia: una terra amata e odiata, madre e matrigna, che non offriva altro che miseria ai suoi figli e li costringeva a emigrare. Canzoni come Terra ca nun senti e Cu ti lu dissi sono ancora oggi testimonianze vive di quel sentimento di abbandono e di lotta. Rosa Balistreri cantava la violenza subita dalle donne, le ingiustizie sociali, il peso di una vita oppressa dalla povertà e dall’omertà. Ogni nota era un atto di resistenza, ogni parola un’accusa contro una società che aveva fatto del silenzio una regola di sopravvivenza.
Tra successo e tragedie
Tornata in Sicilia negli anni Settanta, Rosa Balistreri non era più la giovane donna schiacciata dalla miseria, ma un’artista riconosciuta a livello nazionale. Collaborò con poeti e pittori come Ignazio Buttitta e Renato Guttuso, trovando finalmente un ambiente in cui esprimersi liberamente. Tuttavia, la sua musica non perse mai quel legame viscerale con il popolo. Rosa Balistreri continuò a cantare nelle piazze, tra la gente, rifiutando di distaccarsi dalle radici popolari delle sue canzoni.
La sua vita privata rimase complicata e segnata da tragedie. L’assassinio della sorella da parte del marito, il suicidio del padre e le difficoltà economiche continuarono a tormentarla, ma non le impedirono di combattere attraverso la musica. Rosa Balistreri era più di una cantautrice: era una cantastorie moderna, capace di reinterpretare una tradizione antica in modo radicalmente nuovo, introducendo temi mai affrontati prima dai suoi predecessori, quasi tutti uomini. La sua musica non era etnografia, ma un mezzo per dar voce ai dimenticati, alle donne oppresse, ai lavoratori sfruttati.
Morì nel 1990, a Palermo, dopo aver dedicato tutta la sua vita a denunciare le ingiustizie e a raccontare la verità nascosta dietro il silenzio. Oggi Rosa Balistreri è considerata un’icona della musica folk italiana e un simbolo della resistenza femminile. La sua eredità vive grazie a nuovi interpreti come Carmen Consoli, che hanno riportato alla luce le sue canzoni e la sua storia.
In un’epoca in cui la musica folk rischiava di essere relegata al passato, Rosa Balistreri riuscì a trasformarla in un linguaggio universale di protesta e di speranza. La sua voce, piena di dolore e di forza, continua a risuonare come un monito e un esempio, ricordandoci che l’arte può essere un’arma potente contro l’oppressione. Rosa Balistreri non è solo una figura del passato: è un simbolo di ciò che significa resistere e trovare la propria voce in un mondo che cerca di zittirti.