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L’era d’oro, il mondo nascosto dentro Lucy – Intervista esclusiva alla regista Camilla Iannetti

l'era d'oro film
Nel suo film documentario L’era d’oro, Camilla Iannetti esplora la maternità, i legami familiari e l'identità femminile attraverso la storia intima di Lucy, una giovane donna italo-inglese, e il suo percorso di trasformazione. Presentato ad Alice nella Città, il film è un ritratto sensibile e autentico che invita lo spettatore a riflettere su temi universali di crescita e cambiamento.

L’era d’oro, il primo film di Camilla Iannetti, presentato nella sezione Panorama Italia ad Alice nella Città, si propone come un viaggio intimo e delicato nella vita di Lucy, una giovane italo-inglese alle prese con la maternità e la complessità dei legami familiari e personali. Girato tra il 2021 e il 2023, il film L’era d’oro offre uno sguardo profondo sulla trasformazione interiore della protagonista e delle donne che la circondano, esplorando le sfide legate alla genitorialità, all'identità femminile e alla ricerca di una casa.

Al centro della narrazione, la maternità di Lucy diventa il punto di partenza per una riflessione più ampia sulla crescita personale e i legami affettivi. L’incontro di Lucy con Kitim, padre di sua figlia e proveniente dal Gambia, è un elemento cruciale ma complesso, che non arriva a definire la storia. Camilla Iannetti, infatti, sottolinea che non è sua intenzione strumentalizzare o approfondire questioni di cronaca legate alla scomparsa dell’uomo sopraggiunta nel 2024, ma piuttosto concentrarsi su temi più universali e personali.

La scelta del titolo del film, L’era d’oro, trae ispirazione da una canzone scritta dalla protagonista stessa, evocando un luogo interiore di speranza e resilienza. Attraverso riprese prolungate, la regista segue con sensibilità il percorso di Lucy e della sua famiglia, mostrando una trasformazione lenta ma significativa. Il film, grazie all’approccio documentaristico di Iannetti, cattura l'autenticità della quotidianità, permettendo allo spettatore di immergersi nelle dinamiche di queste donne straordinarie.

Con L’era d’oro, prodotto da Zabriskie (società di produzione di Palermo, città che accoglierà l’opera e la regista nell’ambito delle proiezioni della 46a edizione dell'Efebo d’Oro Film Festival il prossimo 10 novembre al Cinema De Seta) in collaborazione con Cut& e Rai Cinema, Camilla Iannetti afferma uno stile inconfondibile, di cui aveva già dato prova nel suo primo lavoro Uno due tre (2017), dimostrando ancora una volta la sua capacità di osservare la realtà con un occhio empatico e rispettoso, senza mai forzare o manipolare la verità.

Camilla Iannetti, regista del film L'era d'oro (Press: Delia Parodo e Nicoletta Gemmi).
Camilla Iannetti, regista del film L'era d'oro (Press: Delia Parodo e Nicoletta Gemmi).

Intervista esclusiva a Camilla Iannetti

L’era d’oro, progetto a cui hanno creduto i produttori Pierfrancesco Li Donni e Daniele Modina, la produttrice indipendente Laura Romano e la coproduttrice Valentina Grossi, è stato girato tra il 2021 e la primavera del 2023”, spiega subito Camilla Iannetti quando le si chiede per quanto tempo ha seguito le protagoniste del suo film.

La domanda è quasi d’obbligo dal momento che tra le persone riprese compare anche il gambiano Kitim Ceesay, scomparso nel marzo del 2024 a seguito di un fatto di cronaca. “Il racconto non arriva dunque a ciò che è successo dopo. Da parte mia non c’è mai stata nessuna intenzione di strumentalizzare la sua storia e mi auguro che nessuno pensi che voglia offrire un punto di vista sulla cronaca: parlo di ben altro. Kitim è comunque presente perché al centro di un rapporto di coppia con la protagonista Lucy che faticava a funzionare per diversi motivi”.

Tolta l’impasse del misunderstanding, perché hai voluto chiamare il tuo film L’era d’oro?

L’era d’oro è il titolo di una canzone scritta da Lucy, una ninna nanna che, ascoltata ancora prima delle riprese del film, ho trovato molto poetica. Lucy ha una penna meravigliosa ma diverse volte mi sono chiesta a cosa alludesse con quel testo coniugato alla prima persona plurale e vi ho intravisto una sorta di linea di demarcazione tra un passato che ha visto e un futuro in cui si rifugia.

Molto probabilmente, l’era d’oro è quel mondo nascosto che tutti quanti abbiamo dentro di noi (un desiderio, un ricordo, un legame affettivo) e che, custodendolo, ci illumina nei momenti bui… una formula misteriosa che lei ha usato per descrivere il tutto e che a me è sembrata perfetta per raccontare un modo di andare avanti rimanendo aggrappati a se stessi e quel oro che da dentro funge da guida.

Il sogno di Lucy di cantare è ben presente nel tuo film: la vediamo riguardarsi in un filmato del passato. Proviene dal primo film, Uno due tre, che avevi già a lei dedicato mentre studiavi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo?

Esattamente. Ogni anno al CSC dovevamo presentare un girato e quello è stato il primo film da me realizzato. Tra l’altro, ho avuto la fortuna appena arrivata a Palermo di conoscere Lucy per quello che reputo un incontro “destinico”: nel cercare una sistemazione, ho trovato una stanza in casa sua. Ed è stato così che ho conosciuto le protagoniste di quello che sarebbe poi diventato il mio primo lavoro in assoluto.

Ero tra l’altro a digiuno di cinema, provenivo da una laurea in Antropologia ma grazie al legame di fiducia che si è creato Lucy, sua madre e sua sorella si sono fidate di me rendendosi disponibili a quello che hanno vissuto come un gioco, un’esperienza protetta che nella peggiore delle ipotesi sarebbe rimasto un film di scuola che nessuno avrebbe mai visto. Hanno avuto una generosità e una larghezza di vedute incredibili: sarò loro sempre grata, quel film non è piaciuto solo a loro ma anche agli altri.

Ritorno a filmare Lucy, la madre Roberta e la sorella Danny a cinque anni di distanza da allora, quando la prima rimane incinta. In quell’istante, avevi chiaro da dove partire ma non avevi alcuna idea di come la storia sarebbe continuata. Realizzi così due anni di riprese. Come sei riuscita successivamente a mettere ordine?

Quando ho cominciato a filmare, avevo delle coordinate: l’attesa di una nascita è di per sé un evento forte che offre tanti spunti narrativi. In più, Lucy in quel momento si trovava in Inghilterra, dove la madre e la sorella erano andate a trovarla per un periodo limitato prima di rientrare a Palermo, là dove avevano la loro vita. Non so perché ma ciò mi lasciava intuire che a un certo punto qualcosa di grande sarebbe arrivato. A muovere il racconto era comunque l’idea della trasformazione ma mi ero data un anno di tempo per documentarla ma, come spesso accade, il proposito si è scontrato con una realtà colma di eventi che ha richiesto più tempo del previsto.

Avrei potuto troncare il racconto in un momento per loro buio e difficile ma, avendo a che fare con persone a cui volevo restituire un ritratto che rimanesse per sempre anche a loro, non me la sono sentita: mi sembrava una crudeltà inutile e inaudita. Al di là dell’ottimismo che si può avere nello sperare che tutto vada meglio, esiste quasi una formula matematica che ci suggerisce che prima o poi qualcosa cambierà e, dunque, è stato mio desiderio attendere una nota speranzosa per chiudere la narrazione.

La ricerca di Lucy di una casa a Palermo e la conseguente rottura con Kitim hanno poi contribuito a farmi intravedere quell’evoluzione che era in atto perché alla fine “ciò che non uccide fortifica”. Del resto, conoscendo Lucy, volendole bene accompagnandola nel suo percorso, non ho mai creduto che la sua storia potesse essere completamente tragica: ha delle risorse interiori, la famosa era d’oro di cui sopra, che prima o poi avrebbero preso il sopravvento. Il finale non sarà un happy end in senso stretto ma restituisce un tocco di speranza.

Il rapporto d’affetto che lega le protagoniste a te e la presenza della camera non hanno inficiato la naturalezza e la verità del racconto?

No, perché comunque riprese che si protraggono per così tanto tempo fanno sì che ci si dimentichi della presenza della camera. Nei tanti momenti in cui ho ripreso da sola a una vicinanza impossibile da ignorare, ho invece chiesto loro di ricordarsi del mezzo e di sfruttarlo spronandole a essere se stesse il più possibile. Conoscendole, le poche riprese in cui hanno finto o non sono state loro sono finite in un cestino…

Chiaramente, ho anche detto loro che avrebbero dovuto eventualmente dirmi se qualcosa creava in loro confusione o disagio: in quel caso, mi sarei fermata perché non ero alla ricerca del momento sensazionalistico ma della sola verità. E la verità non è qualcosa che emerge in un secondo: è fatta semmai di comportamenti e di corrispondenze che si accumulano nel tempo. Quando viviamo dei conflitti interiori, tra reagire e reiterare scegliamo quasi sempre la seconda strada: ed è solo con il passare del tempo che reagiamo o cambiamo, ragione per cui passare così tanto tempo insieme a loro mi ha poi dato la possibilità di apprezzare e cogliere il cambiamento.

Ho girato tantissime scene che tra di loro si somigliano ma spettava poi a me il compito di raccontarle al meglio: il mio ruolo era quello di essere al servizio della loro verità e non della mia. Ho sempre sentito una responsabilità molto forte al riguardo proprio perché il film sarebbe rimasto per sempre nelle loro vite, chiedendomi anche quali ne sarebbero state le conseguenze.

Il poster del film L'era d'oro.
Il poster del film L'era d'oro.

L’era d’oro è un film che racconta anche di tre modi diversi di stare al mondo come donne. Ha favorito lo sguardo il fatto che tu stessa eri una donna?

Penso di sì. Ci siamo sempre sentite come una grande famiglia di donne fin da quando mi sono trasferita a casa loro. Roberta mi ha accettata come coinquilina anche quando non pensava di affittare la stanza per lunghi periodi, preferiva farlo per brevi frangenti per proteggere la sua quotidianità, la sua intimità con le figlie e la sua dimensione familiare.

Sono rimasta con loro così abbastanza a lungo da forgiare un bel rapporto di fiducia, diventando anche una sorta di sorella maggiore per Danny. Non so se è stata una questione di empatia a legarci ma sicuramente hanno contribuito la sorellanza (sono figlia, sorella e spero in futuro anche madre), la vicinanza e la stessa visione dell’arte: mi sento parte non solo della loro esperienza cinematografica ma anche umana.

Possiamo definire L’era d’oro anche un film di sogni infranti, pensando al canto per Lucy o alla famiglia per Roberta?

Non lo so. Di sicuro, Lucy ha un grande talento per la scrittura e per il canto. La maternità e l’interruzione degli studi hanno comunque trasformato il sogno e aggiunto la necessità di voler essere madre in maniera differente da come Roberta lo è stata per lei. Essendo vite in divenire, tuttavia, non me la sento di profetizzare il futuro e di scrivere una parola definitiva: chi può dire cosa accadrà nelle loro vite tra cinque o dieci anni? Il periodo difficile attraversato ha sì interrotto la ricerca musicale che Lucy aveva intrapreso ma non è escluso che in futuro la riprenda.

Sogno rimane una bella parola. Cosa ha spinto Camilla Iannetti a rimodulare il suo dopo la laurea in Antropologia?

Prima di iscrivermi all’università non sapevo ancora che mi piaceva al cinema: ci sono arrivata grazie all’Antropologia. Non mi posso definire una cinefila, anche se continuo a studiare, a guardare film e a esplorare tutte le potenzialità che il linguaggio cinematografico, in cui credo tantissimo, ha. Il cinema è uno strumento potente di narrazione e, per me, il documentario include una relazione molto diretta con la realtà. Non mi reputo tanto una regista di visione con il suo mondo in testa da replicare sullo schermo: mi piace semmai la commistione tra vita e cinema, la possibilità di entrare in relazione con qualcosa di cangiante, vivo e vibrante, che esiste a prescindere da me.

Ho scelto di non conseguire la magistrale dopo aver seguito dei corsi di antropologia visuale che mi hanno ispirata molto rispetto alla possibilità di praticare la ricerca anche in termini narrativi e visivi, un’ipotesi che forse per ignoranza o pregiudizio non avevo mai preso in considerazione… consideravo il cinema esclusivamente come un mondo di scrittura. Il documentario, invece, fornisce una serie di spunti che, in modalità anche un po’ randagia, devi crearti da solo.

È il tuo interesse per il reale che ti ha spinto nel 2020 a fondare Riavvolte, un archivio di memorie audiovisive private? Qual era l’urgenza che ti ha spinto a farlo?

Dal punto di vista della produzione privata di immagini, i supporti a disposizione cambiano continuamente, si trasformano e si evolvono. Di conseguenza, il recupero delle riprese amatoriali o comunque private e non destinate a un pubblico si è reso necessario. Pensiamo ad esempio a tutte le testimonianze in vhs o in pellicola che rischiano di andare perse per sempre per il deterioramento e l’usura dei supporti.

Noi le salviamo e le rendiamo disponibili per chi in futuro sarà interessato per ragioni private, storiche e culturali, ma anche creative: chi decide di depositare le proprie immagini in archivio ha così la possibilità di estendere la memoria degli avi o la propria al grado di memoria collettiva, senza il rischio che vadano perse.

L'era d'oro: Le foto del film

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