La B.Fujiko è insieme a Dargen D’Amico, Beatrice Quinta e Polly and Pamy, protagonista di The Sound of Colors, l'appuntamento firmato Serravalle Designer Outlet e Jungle, tra spettacoli di luci, rassegna musicale e performance esclusive che si svolge al Parco Ravizza di Milano il 22 giugno.
Evento speciale e gratuito, in partnership con Milano Pride e il patrocinio del Comune di Milano, lo show sarà un’esplosione di gioia e colori, in una location resa ancor più magica e immersiva dall’installazione luminosa che caratterizzerà l’area per l’intera durata della Pride Week e che trasformerà le fronde degli alberi in una mastodontica bandiera arcobaleno di oltre 700mq.
L’evento si inserisce sulla lingua d’asfalto di via Bach, la via interna al parco che collega via Vittadini a via Bocconi, completamente riqualificata a settembre 2022 grazie a un intervento di rigenerazione e urbanismo tattico sviluppato sempre da Serravalle Designer Outlet, ideato con la collaborazione dello street artist Luca Font.
Ballerina, coreografa e organizzatrice di eventi, La B.Fujiko è la pioniera del mondo del vogueing (o voguing) in Italia. Mother della House of Ninja e fondatrice di Bballroom con cui organizza ball ed eventi tra i più importanti in Italia (tra cui The Scandalous Ball e Milano is Burning), La B.Fujiko ci racconta la sua esperienza nel corso di un’intervista esclusiva che procede tra l’importanza del vogueing nella lotta contro ogni discriminazione sociale e la sua sfera personale.
Con collaborazioni alle spalle con grandi marchi della moda, artisti come Myss Keta ed Emma Marrone, e con programmi tv come Amici di Maria De Filippi, La B.Fujiko è anche fondatrice di Unagency, agenzia di talent management nata con la volontà di rappresentare performer con conformi.
Intervista esclusiva a La B.Fujiko
Sarai tra i protagonisti della serata del 22 giugno a Milano di The Sound of Colors. Quali sono i colori che il vogueing porterà?
Il vogueing nasce all’interno della ballroom scene, che si sviluppa tra gli anni Settanta e Ottanta a New York all’interno della comunità LGBTQIA+, black e latina. Quindi, anche in un momento che coniuga divertimento e intrattenimento, il vogueingporta sempre con sé dei valori molto importanti con la precisa volontà di combattere omofobia, transfobia, razzismo, sessismo e quant’altro. Durante la performance di una ventina di minuti in cui vedremo alcune delle varie categorie che ritroviamo anche nelle ball, lanceremo i nostri messaggi, ragione per cui ci fa piacere essere connessi a un evento che si lega al Milano Pride.
Hai cominciato con il vogueing nel 2008. Com’è cambiata la percezione del pubblico rispetto all’arte che porti in scena?
Rispetto a tanti anni fa, il pubblico oggi è più informato, grazie anche a serie tv come Pose, a reality come Legendary e ad altri programmi che, anche se più orientati al lato spettacolare, hanno contribuito a portare maggior informazione su questo mondo. Il vogueing, come dicevo prima, ha alle spalle una storia molto particolare e molto importante che cerchiamo di mantenere radicata anche nell’attuale scena italiana.
Non siamo più e non viviamo nella New York degli anni Settanta ma continuiamo a essere molto ferrei sui valori, su ciò che deve entrare dalla porta durante un evento e sul tipo di mentalità del nostro pubblico. Il vogueing abbraccia tanti e diversi meccanismi, terminologie e categorie: per quanto la gente sia informata, occorre sempre un po’ di tempo prima che capisca con che cosa ha a che fare: l’informazione non è mai abbastanza!
Abbiamo sicuramente molto più pubblico e c’è molto più interesse rispetto a prima su ciò che facciamo, anche perché negli anni la scena ballroom è molto cresciuta. Nel 2008 eravamo in pochissimi a portarla avanti mentre oggi ci sono molti più eventi, molte più serate e molte più conversazioni sulla comunità LGBTQIA+, tante lettere che corrispondono a tante persone a cui la ballroom vuole dare spazio. La ballroom vuole dare spazio a tutti: nel nostro pubblico è possibile trovare, per esempio, anche delle donne etero cisgender che si riconoscono nei nostri messaggi per la situazione di violenza o discriminazione di genere che vivono nella quotidianità.
A proposito di quotidianità, qual è stato lo stereotipo per te più difficile da abbattere da un punto di vista personale?
La ballroom mi ha aiutata a fare un percorso su me stessa, sulla mia identità di genere e sul mio modo di approcciarmi a tutte quelle tematiche che questo lavoro comporta. Sono nata nel 1986 a Modena, non certo una città enorme. Nel 2008, l’anno in cui ho iniziato a viaggiare, mi sono ritrovata a New York di fronte a realtà e argomenti di cui oggi, anche grazie a internet, si parla e di cui allora non si conosceva nemmeno l’esistenza. Certe terminologie, io mi identifico ad esempio come persona non binary, non le avevo mai sentite…
Il ballroom mi ha portata a porre delle domande e me le fa porre quotidianamente anche oggi: sono sempre molto a contatto con situazioni, discussioni e persone della comunità, e su quello che succede intorno a noi nel momento che stiamo vivendo. Ma mi aiuta a capire anche tanto di me stessa e a raggiungere punti a cui non credevo di poter arrivare, grazie anche al confronto con chi ha un’età diversa della mia: ho 37 anni e nella mia house ci sono diversi ventenni, c’è un continuo incontro e confronto di generazioni tra gente che vive a Milano e altra che viene dai paeselli più sperduti con realtà molto diverse alle spalle.
La scena ballroom porta dunque a metterti sempre in discussione e a mantenere aperte tante conversazioni.
Quando hai cominciato, hai scelto come nome quello di Fujiko. Cosa c’era dietro?
C’è una storia dietro al nome che non ho mai raccontato e che ovviamente non racconterò neanche adesso perché è troppo personale.
Fujiko è comunque un alter ego. Che cosa ha Fujiko che B non ha?
Fujiko è il mio lato da persona comune che si trasforma in supereroe e riesce a tirar fuori lati di me che non verrebbero mai alla luce nella vita “normale”. Sono sempre stata una persona molto timida, riservata e taciturna: è con un percorso di approfondimento con uno psicologo che ho capito quanto in realtà la danza fosse il mio mezzo di espressione, quello grazie a cui dall’inizio potevo sfogar tutto. Sicuramente, la scena ballroom mi ha sato un contesto ancora più ampio e ricco per esprimermi, utilizzando più le immagini che le parole.
Fujiko è frutto della ricerca di una versione più forte di me. L’ho conservato come nome anche se poi con il tempo ho cominciato a utilizzare anche la B, l’iniziale del nome con cui le persone mi chiamavano abitualmente. Al riguardo, ho avuto anche delle conversazioni con i miei parents, che non mi hanno mai posto problemi sul doppio nome. Il doppio nome è qualcosa che poi curiosamente è tornato fuori quando ho affrontato il mio non binarismo con lo psicologo: in maniera inconsapevole, a livello di nomi mi muovevo già in una direzione che ho capito solo dopo.
L’essere un super eroe comporta sempre un costo: è stato così anche per te? Quanto di te hai dovuto mettere da parte?
Inizialmente tanto, anche se in maniera inconsapevole. Mi sono concentrata molto sulla danza, sull’andare in giro, sullo studiare, sul capire, sul far le battle: era la mia priorità. È solo in seguito che ho capito che era il mio modo di tirar fuori ciò che avevo dentro: mi ha aiutata ma mi ha anche evitato di approfondire meglio il mio lato emotivo. È anni dopo che ho realizzato che dovevo curare entrambi i miei lati: andava bene avere uno spazio in cui rigettare tutto ma occorreva anche fare i conti allo specchio e capire cosa mi stesse succedendo. Mi rendo conto a posteriori che i momenti in cui mi allenavo ore e ore erano gli stessi in cui non stavo così bene: la danza era una dimensione rifugio.
Nella scena ballroom fondamentali sono la personalità, la creatività e la libertà di espressione.
E infatti come dicevo prima nasce come safe space, come necessità per alcuni gruppi di persone di trovare uno spazio sicuro contro ogni discriminazione. E se esiste ancora oggi è perché alcune problematiche, nonostante i tempi cambiati, perdurano ancora. Una ball non è semplicemente un evento in cui con un paio di ciglia finte e un super outfit andiamo in scena: quelli servono come escamotage per una serata in cui si cerca di veicolare ben altri messaggi.
E le stesse tre caratteristiche sono quelle che cerchi di portare avanti con la tua agenzia di talent, la Unagency, in cui recluti performer non conformi.
Negli anni ho lavorato in tanti e diversi contesti, dalla televisione al teatro e agli eventi. Il fatto di essere alta e di portare una taglia 40/42 mi ha agevolato: ero giusta per tutta una serie di lavori. Ma la ballroom ha attivato in me conversazioni, domande e riflessioni, che si rimescolano continuamente. Per essere buoni performer, servono personalità, creatività, tecnica e studio: l’agenzia è nata per sottolineare come il fisico non debba mai prevalere sull’artisticità o sul talento di una persona.
Mi sono ritrovata in passato a lavorare con tante persone che tecnicamente non erano wow ma avevano secondo chi le aveva scelte il fisico giusto e conosco altrettante persone che sono arrivate a Milano col sogno di fare i ballerini ma che ora fanno tutt’altro perché non rientravano nei canoni predefiniti. Quindi, perché non dare spazio e possibilità a questi talenti, ricordandoci che ognuno di noi è unico? Ho dunque voluto creare un canale che permetta agli altri di vederli in scena e dire wow come ho detto io stessa… e sono convinta che la sera del 22 giugno a Milano il pubblico lo dirà nel vedere sei rappresentanti della scena ballroom di Milano cimentarsi in varie categorie nel corso di 20 minuti e nell’avere un assaggio di quello che è il nostro ambiente.
Il mio scopo era ed è quello di cercare di iniziare a farli lavorare, soprattutto in una Milano che si spaccia come inclusiva e che poi inclusiva non è, dal mondo dei brand a quello della danza. Provo a livello lavorativo di portare a loro ciò che questo lavoro mi ha insegnato e quello in cui credo, con l’aiuto di un mio caro amico, Giacomo Tagliati: stiamo tentando insieme quest’avventura e abbiamo già raccolto dei bei frutti, mossi dal desiderio di voler essere un’agenzia veramente inclusiva, attenta anche a ciò che gli altri sottovalutano, dall’uso dei pronomi ai fitting per una persona in transizione.
Tra i tuoi titoli c’è anche quello di Mother della House of Ninja. Sei una “madre” severa?
Il ruolo di Mother è quello da leader, guida e punto di riferimento. Si hanno sulle spalle tutte le responsabilità, a partire da quelle legate alla ballroom. È un ruolo che rimane addosso anche nella vita di tutti i giorni, dove si devono affrontare sia i problemi legati alle cose più futili che riguardano un evento sia quelli più importanti che si presentano tra persone che interagiscono tutti i giorni. È un ruolo che rivesto con orgoglio: a volte è pesante ma mi restituisce tanto dalle persone a cui voglio tantissimo bene. La House è realmente una famiglia, unica e vera.
Una madre severa?
Il giusto. Sono una madre che ascolta tutti e che cerca di dare spazio a tutti.
Riesci mai durante la giornata a staccarti da Fujiko per essere solamente B?
Oggi B e Fujiko sono la stessa persona: abito Fujiko sia dentro sia fuori dalla ballroom, in qualsiasi contesto e dimensione. Porto ovunque la stessa testa, gli stessi valori e le stesse idee. Ho trovato ormai una sorta di equilibrio: in me convivono tante sfaccettature ma il cuore è sempre lo stesso. All’inizio del mio percorso, Fujiko poteva essere un personaggio ma ho finito con l’inglobarlo diventando un tutt’uno.