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La prima regola: Intervista esclusiva a Massimiliano D’Epiro, regista del film

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La prima regola è il film che il regista Massimiliano D’Epiro ha tratto dall’opera teatrale La classe di Vincenzo Manna. Alla vigilia della presentazione al Festival del Cinema Europeo di Lecce, ne abbiamo parlato con il regista approfondendo aspetti e tematiche.
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La prima regola è il nuovo film di Massimiliano D’Epiro che viene presentato in anteprima al Festival del Cinema Europeo di Lecce. Prodotto da Dinamo Film, Goldenart Production con Rai Cinema in associazione con Notorious Pictures (con il contributo di Apulia Film Commission), La prima regola sarà in sala dal 1° dicembre. E promette di essere uno di quei titoli che sorprenderà pubblico e critica per il suo racconto.

Tratto dalla pièce teatrale La classe di Vincenzo Manna (che con D’Epiro ha scritto anche la sceneggiatura del film), La prima regola ci porta all’interno delle mura di una scuola di periferia, dove un giovane professore appena trasferito è chiamato a tenere un corso di recupero per sei studenti “difficili”, quasi tutti italiani di seconda generazione. È così che Gabriele (uno straordinario Marius Bizau), il docente, entra in contatto con un impatto violentissimo con Talib, Nicolas, Maisa, Vasile, Petra e Arianna, gli alunni portati in scena tutti superbamente – si fatica a capire chi è più bravo o meno – da Haroun Fall, Andrea Fuorto, Ileana D’Ambra, Luca Chikovani, Cecilia Montaruli e Antonia Fotaras.

E al giovanissimo Andrea Fuorto tocca il difficile compito di far da antagonista principale a Gabriele. Il suo Nicolas è il ragazzo più difficile della classe e sin da subito, sotto la minaccia di un coltello, spiega al docente quali sono le regole da seguire. La prima e più importante di tutte è “Nessuno tocca nessuno”. Ma non è facile rispettarla quando intorno alla scuola scoppiano gli scontri tra gli abitanti del quartiere e i migranti di un campo profughi, detto lo “Zoo”. In un’escalation di tensione, emergono tutte le contraddizioni di una società che, abbandonata a se stessa, non è in grado di sedare i conflitti che covano dietro agli studenti.

Girato quasi interamente all’interno delle mura della scuola, il film La prima regola è una testimonianza asciutta, diretta e senza fronzoli di quanto può succedere in una scuola dei giorni nostri quando i giovani sono chiamati a confrontarsi con la diversità e, nello specifico, con il tema dei migranti. Spesso a parlarci di loro e del punto di vista che adottano sono gli adulti ma il testo di Manna prima e il film di D’Epiro dopo lasciano che a parlare siano i ragazzi stessi. Quelli che la scuola la vivono tutti i giorni, provando sulla loro pelle contraddizioni e conflitti.

Del film La prima regola, di cui alcuni brani sono scritti, prodotti e interpretati da Boosta (il cofondatore e tastierista dei Subsonica), abbiamo parlato con il regista e sceneggiatore Massimiliano D’Epiro. Al suo primo lungometraggio diretto da solo, D’Epiro sviscera insieme a noi le tematiche affrontate da quello che definisce un “Mery per sempre che incontra Suspiria” (dall’estremismo all’inclusività, passando per la contrapposizione città/periferia), augurandosi che i giovani che vanno a vederlo in sala si pongano delle domande. Le stesse che dovrebbero porsi i loro genitori.

La speranza di chi scrive è che un film come La prima regola possa essere proiettato all’interno delle scuole, negli stessi ambienti in cui è stato girato. Solo così potrà aprirsi un confronto serio tra generazioni o potranno colmarsi vuoti che faticano a riempirsi. Sfidare i pregiudizi e le convenzioni è il gravoso compito che studenti e professori devono affrontare insieme, trovando uno spazio di cooperazione e solidarietà. Utile, necessario e urgente, il film La prima regola ha nel cast anche gli attori Fabrizio Ferracane (è il preside della scuola) e Darko Peric (è il bidello, con la sua indimenticabile lezione sulle galline).

Il regista Massimiliano D'Epiro sul set del film La prima regola.
Il regista Massimiliano D'Epiro sul set del film La prima regola.

Intervista esclusiva a Massimiliano D’Epiro

La prima regola porta al cinema La classe, un’opera teatrale di Vincenzo Manna, frutto anche del suo lavoro di ricercatore. Come ti sei mosso per la trasposizione cinematografica?

È stato un lavoro particolarmente difficile. Ho comprato i diritti dello spettacolo e insieme a Vincenzo ho lavorato alla sceneggiatura del film. Adattare uno spettacolo teatrale per il cinema significa anche cercare di capire quello che funziona per immagini in un film e quello che non è funziona: non è detto che al cinema e al teatro certe situazioni abbiano la stessa resa.

In primo luogo, ci siamo concentrati sulla location. Per una settimana, io e Vincenzo abbiamo dormito all’interno di una scuola: è stata un’esperienza quasi mistica. Ci è servito per come i personaggi dovevano muoversi nello spazio e come dovevano parlare. Abbiamo dopo eliminato alcuni personaggi e ne abbiamo introdotti altri, come quello del bidello interpretato da Darko Peric. Abbiamo modificato anche il personaggio del preside e cercato di modulare meglio i dialoghi: a volte al cinema basta un’immagine senza bisogno di tante parole. Una volta che questo processo è terminato, abbiamo deciso anche di cambiare il titolo: non più La classe ma La prima regola.

Dello spettacolo, ovviamente, si conserva il non luogo, ovvero la scuola. Una scuola non posizionata in una periferia particolare. Potrebbe trovarsi a Roma come a Milano o Palermo. Proprio perché il racconto vuole diventare universale, quanto era fondamentale non localizzare la scuola in cui è ambientata la vicenda?

Non volevo realizzare un film civile o sociale. La mia idea di base era quella di una fiaba nera. Nelle fiabe non sai mai dove ti trovi e l’azione comincia sempre in medias res. La prima regola inizia con un piano sequenza in cui il professore entra in una “foresta nera” e incontra le fiere che lo assalgono, i ragazzi.

Più che di un non luogo, mi piace parlare di una dimensione laterale, di una realtà vicino alla nostra ma laterale in cui avviene uno scontro tra archetipi. I ragazzi che muovono la storia sono come satelliti che ruotano su loro stessi e le cui orbite non si incontrano mai. L’arrivo del professore mette in atto un moto di rivoluzione cambiandone i punti di vista e sorprendendoli. Non li colpisce a livello fisico ma umanamente: si mette alla loro altezza e li ascolta. Forse perché anche lui è stato uno di loro. E non è detto che è stato quello molestato o bullizzato: può darsi che anche lui fosse un bullo, un giovane Nicolas.

Il poster del film La prima regola.
Il poster del film La prima regola.

In un momento in cui tutti tendono a raccontare gli italiani di seconda generazione in maniera inclusiva, qual era l’urgenza di mostrare le vere difficoltà e i veri scontri a cui vanno incontro questi ragazzi?

Bisogna essere forti per costruire qualcosa. Siamo sempre in uno stato perenne di “distruzione calma” e ciò riguarda anche i ragazzi italiani di seconda generazione che combattono e sono sempre incazzati neri. Facciamo sempre finta che non sia un problema nostra e che non siano vicino a noi. Da questo punto di vista, mi interessava abbattere gli stereotipi: non è detto che il ragazzo nero o quello dell’est non sia sbagliato, che non sia di destra o che non sia razzista. Il razzismo, quindi, diventa anche la capacità di non ascoltare e comporta la presunzione di sapere già com’è l’altro senza nemmeno farlo parlare. Se solo facessimo parlare l’altro, potrebbe anche cambiare il giudizio che ne abbiamo.

La prima regola è diviso in sei capitoli che sono la coniugazione del presente indicativo del verbo essere.

Non è per un discorso ontologico: mi interessava non tanto l’ontologia sull’essere in quanto tale ma sapere quando l’essere diventa un fatto. Noi, a livello fattuale, dove siamo all’interno di quella coniugazione? Noi dove siamo all’interno della storia? Tu, letterario, dove sei lì dentro? Sei sicuro di esserci o sei sul divano a giudicare davanti al tuo computer? È tutto un punto di domanda: non voglio trovare soluzioni, non ce le ho.

Ma mi interessava sollevare dubbi. Anche il finale è costruito in quest’ottica. Senza svelare troppo, non è detto che Nicolas accetti tutta quell’armonia. Siete sicuri che io sia dove siete voi? Tutti quanti abbiamo dei pregiudizi, dei fascismi interiori che non sono inerenti all’ideologia. Viviamo in un paese capitalista in cui il marchio identifica chi sei e dove il corpo ha assunto un valore assoluto: dobbiamo forse fare un twist e capire che manca qualcosa.

La prima regola è un film che nasce anche dall’esigenza di parlare ai giovani, che inevitabilmente hanno ognuno una propria visione del vissuto.

Pensare alle cose negative del proprio passato porta a uno scontro con il presente. Il problema non è ricordare gli sbagli ma emanciparsi da essi. Ci sono cose che fatte in determinati contesti storici hanno un senso che in altri svanisce: la società cambia in continuazione, è in evoluzione. Siamo entrati nella cosiddetta era digitale e ciò comporta dei cambiamenti anche a livello di contenuti per il cinema. Guardare al passato per vedere il presente o il futuro è un errore. Bisogna solo guardare al presente senza domandarsi cosa abbiamo fatto nel passato: anche perché, il passato ci sembrerà sempre migliore.

A proposito di presente e passato, a livello storico, perché oggi si fa fatica, come mostrato anche da La prima regola, a ricordarsi che le derive soprattutto ideologiche non portano a niente di buono? Nicolas fa parte di una frangia estremista. Nel suo caso, è di destra ma potrebbe benissimo anche essere di sinistra.

Perché riempiono dei vuoti. La periferia che il film esplora prima di essere una periferia fisica è una periferia mentale in cui persiste un vuoto che nessuno ha riempito o riempie. Ecco perché sottolineo che per prima deve essere la scuola il compito di non far riempire quel vuoto da altri agenti. Il primo annaffiamento culturale deve arrivare dalla scuola, che ha il compito di far comprendere cosa è giusto e cosa è sbagliato.

A proposito dell’estremismo, abbiamo lavorato sull’estrusione. Ovvero, abbiamo estratto con forza dalle pareti qualcosa. È come se ci fossero dei bozzoli che continuano la colorimetria delle pareti: hanno tutti la stessa forma però escono fuori come dei quadrati, dei cubi… come se fossero dei tumori, come se le ferite non fossero state cauterizzate bene nel passato e ogni tanto si svegliano. Per me è questa la metafora dell’estremismo di destra o di sinistra.

Abbiamo tentato di farlo anche nell’architettura nel nostro piccolo, perché comunque il nostro film è una sorta di kammerspiel scolastico, non è il classico film indipendente arthouse. Se proprio devo dargli una definizione, è pophouse: cerca di essere anche popolare. Non è il film d’autore indipendente. Anche se poi possiamo aprire un’ulteriore parentesi sulla parola autore: siamo tutti autori. Non è che ci fa la commedia non lo sia: pure questa è una forma di razzismo. Non è autore solo chi tocca tematiche che rispecchiano certi topoi letterari, narrativi o di genere. Siamo tutti autori.

La prima regola è il tuo primo film in solitaria. Come mai è arrivato solo ora, a distanza di anni da Polvere, che avevi codiretto con Danilo Proietti?

Nel frattempo, ho lavorato a dei documentari, ho girato video per altre cose, ho scritto un libro: non sentivo la necessità di girare un film. Aspettavo la storia giusta e questa lo era: mi ha permesso di risvegliarmi. Ero andato a letto presto, come direbbe Newton. Ma ora mi sono rimesso in metto: sono stato opzionato per una serie tv, Heysel, e per un altro progetto di cui ancora non parlo per scaramanzia. Sono molto contento perché si stanno dipanando un po’ di cose. Sarà che forse questo è un momento anche di cambiamento anche di registro, di sistema, di matrice: dal caos arriva sempre un momento propizio.

Come hai lavorato con i giovani ragazzi? Rispetto alla rappresentazione teatrale, hai rivoluzionato il cast, conservando solo un attore (Haroun Fall).

I ragazzi hanno vissuto insieme, per cui hanno creato una relazione tra di loro bellissima. Abbiamo anche fatto una serie di prove prima di cominciare a girare: era importante lavorare sui dialoghi e far sì che entrassero nel loro corpo. Quando l’azione fisica era più importante, cambiava necessariamente l’atteggiamento con cui avrebbero dovuto pronunciare la battuta. Tra l’altro, ho cercato di non lavorare con qualcuno che conoscessi da prima. L’ho fatto per avere la libertà emotiva di poter dire a qualcuno che non mi piaceva ciò che stava portando in scena: se ci si conosce, c’è sempre una sorta di imbarazzo nel farlo. Volevo emanciparmi dall’impatto emotivo che si ha quando si gira con qualcuno che conosci bene, come quando realizzo i videoclip con la mia compagna (Violante Placido, ndr): in quei casi, non sempre riesci a dire ciò che vorresti.

Anche perché altrimenti per il ruolo del preside avresti scelto Michele Placido, tuo suocero. Per certi aspetti, legati soprattutto alla fisicità, il bravissimo Fabrizio Ferracane lo ricorda molto. È chiaramente più giovane ma un non so che del Placido di Mery per sempre.

Quando mi dicono che La prima regola richiama L’attimo fuggente, sorrido: c’è solo l’analogia del professore che si relaziona con i ragazzi ma per il resto non ha niente a che fare con quel film. Semmai, La prima regola è Mery per sempre che incontra Suspiria. Nel film di Dario Argento, c’era una ballerina che arrivava a Francoforte in una scuola di danza, nel mio un professore che arriva in una città che non sappiamo quale sia: in entrambi i casi, si ritrovano ad avere a che fare con i dannati. E, poi, come nelle fiabe c’è questa figura del mentore, il preside, che spiega all’eroe come deve affrontare il suo viaggio e non sai, fino alla fine, se è buono o cattivo.

Le musiche del film sono firmate da Boosta dei Subsonica.

Con Boosta ho lavorato benissimo. È stato fatto un meticoloso lavoro: ho dato delle reference del tipo di musica che mi sarebbe piaciuto sentire. Ho curato personalmente il sound design del film e con Boosta c’è stato un continuo dialogo: ha saputo ben ricostruire le atmosfere che cercavo.

Cosa ti aspetti che lasci La prima regola ai ragazzi che andranno a vederlo in sala?

Mi aspetto che si facciano delle domande. Ma soprattutto mi aspetto che se le facciano i genitori. In La prima regola, l’adulto è immaginato o solo evocato ma è il responsabile della formazione dei figli. Tutto quanto si svolge in una scuola e volevo restituire ciò che tutti noi abbiamo vissuto: in una scuola, bene o male, tra ragazzi ci si conosce e ci si incrocia ma non è detto che ci conosca al di là delle pareti dell’istituto o che ci si frequenti fuori. Non si sa quale può essere il background dietro al tipo che ci sembra una leggenda o un mito, non si sa cosa faccia una volta tornato a casa o come viva.

E nel film era questo l’aspetto che mi interessava sottolineare: il presente scolastico e come i ragazzi si muovono, relazionano o comportano in quel contesto. Temi come le molestie, il revenge porn o il razzismo sono presenti nella storia ma spesso fanno più male ai genitori che ai ragazzi stessi, che hanno la grande capacità di cauterizzare le ferite con una velocità mostruosa.

 Che ci si faccia domande e che si impari che la periferia non sempre deve essere vista con un’accezione negativa.

La periferia è la città che sarà. Le città tendono a espandersi e a inglobare le periferie: è come un sasso che, lanciato in uno stagno, fa dei cerchi concentrici che si allargano sempre più. Se nelle periferie ci vive il 70% della popolazione mondiale, qualcosa di positivo ci sarà.

La prima regola: Le foto del film

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