Laura Formenti, nota stand-up comedian, attrice e autrice italiana, è nella sua casa a Milano quando ci risponde al telefono, in attesa di riprendere il suo tour in giro per l’Italia e non solo dal 25 giugno. Nata a San Martino Siccomario, vicino Pavia, Laura si è trasferita a Milano sette anni fa e considera la città come la sua casa. Descrive Milano come una città accogliente ma esigente, piena di opportunità ma anche di pressioni costanti.
Durante l'intervista, Laura Formenti ha condiviso molti dettagli personali e professionali, mostrando come la sua esperienza di vita e le sue osservazioni quotidiane influenzino profondamente il suo lavoro comico. Ha parlato della sua transizione dalla psicologia alla comicità, delle sfide affrontate come donna in un mondo prevalentemente maschile, e della sua filosofia sull'importanza dell'umorismo come strumento di inclusione e riflessione sociale.
Parlando di inclusività, Laura Formenti sottolinea l'importanza di poter ridere di tutto. Per lei, l'inclusione nella società è legata alla possibilità di scherzare su ogni argomento, anche i più tabù. Questo concetto è alla base del suo podcast Humor Nero, dove affronta temi delicati con ironia, sfidando le barriere morali e offrendo un nuovo punto di vista su argomenti difficili.
Laura Formenti ritiene, infatti, che l’umorismo debba essere libero e responsabile, senza paura di urtare la sensibilità altrui, purché vi sia una riflessione alla base delle battute. Le sue performance nascono spesso dall'osservazione del mondo circostante e dalle cose che la fanno arrabbiare, trasformando le riflessioni in pezzi comici completi.
Il percorso di Laura Formenti nella comicità è iniziato quasi per caso, dopo aver lasciato gli studi di psicologia per dedicarsi alla recitazione e al teatro di strada. La sua esperienza come trampoliera e clown l'ha portata nel mondo della stand-up comedy, dove ha trovato la sua vera vocazione. Anche se inizialmente i suoi genitori non credevano nelle sue aspirazioni artistiche, Laura Formenti ha dimostrato il suo talento e ha costruito una carriera di successo, esibendosi in programmi televisivi e tournée teatrali.
Nonostante le difficoltà e le critiche che non mancano mai, Laura Formenti continua a portare avanti il suo stile di comicità dissacrante e provocatorio. Recentemente, ha partecipato alla campagna The Impossible Pill di Medici del Mondo, affrontando il tema dell’aborto farmacologico con il suo caratteristico taglio ironico. Inoltre, è tra i candidati all’IlPod - Italian Podcast Awards, per il suo lavoro come creatrice di contenuti e podcaster.
Intervista esclusiva a Laura Formenti
“Bene, bene dai”, mi risponde Laura Formenti quando le chiedo come sta. “Sono a casa, oggi è una giornata tranquilla che è già tanta roba”, aggiunge.
Cosa intendi per una giornata tranquilla?
Una giornata in cui posso stare a casa, senza essere in giro per tornei o spettacoli. Dopo un periodo intenso in cui sono stata spesso fuori casa, ora con l'estate riesco a godermi un po' di tranquillità nella grigia Milano.
Originaria di Pavia, Milano è oggi casa per te?
Sì, vivo a Milano ormai da sette anni. Sono nata a San Martino Siccomario, un comune vicino a Pavia, ma ormai Milano è casa mia, almeno fino a quando non deciderò di cambiare.
Come descriveresti Milano?
Milano è una città che accoglie tutti ma anche un po’ stronza: ti chiede sempre che lavoro fai, cosa stai facendo, se stai lavorando abbastanza. Però, alla fine, c'è una grande apertura verso tutti e tante opportunità. Siamo tutti un po’ stranieri ma c’è sempre una grande apertura verso qualsiasi attività o proposta di creatività, una sensazione che fa sentire ben accetti.
Sentirsi ben accetti equivale a essere inclusi. Cos’è l’inclusività per un comico?
Credo che a questa domanda, ognuno di noi abbia una risposta diversa: la mia è ridere di tutto, seguendo quel concetto per cui già il nominare le cose le fa esistere. Qualsiasi cosa è tanto più inclusa nella società quanto più ci si può ridere sopra. Ho ad esempio sempre amato parlare dei tabù, tant’è che ci ho fatto anche un podcast su ciò di cui le persone normalmente non vogliono ridere. Il punto di partenza di Humor nero è stato proprio il ridere delle cose che generalmente vengono considerate non risibili, in cui mi metto in ascolto di chi determinate situazioni le vive tutti i giorni e ha imparato a riderci.
Qualcuno si è mai incazzato per le tue battute ritenendole non inclusive?
Tantissime volte. Quando mi pongono la fatidica domanda “Ma è vero che non si può dire più niente?”, rispondo sempre che invece si può farlo purché ci si prenda la responsabilità di quello che si dice perché è facile incappare in qualcosa che crea scontento. Ragione per cui faccio sempre tutte le mie valutazioni sulla comicità di una battuta per capire se travalica un limite che la gente s’è posta. Una volta stabilito che quella battuta non è offensiva, è raro che qualcuno mi faccia cambiare idea.
La sensibilità delle persone è, comunque, relativa: ciò che offende una non offende un’altra. Ad esempio, posso dire "sono andata a fare due passi" e qualcuno potrebbe offendersi pensando che offenda chi non ha i piedi. Non funziona così, almeno secondo me.
Fai le tue valutazioni a priori ma come nascono le tue battute?
Nascono quasi sempre dall'osservazione del mondo che mi circonda e soprattutto dalle cose che mi fanno arrabbiare, come dei piccolini sassolini dalle scarpe da togliersi. A volte è il pezzo comico che nasce dalla mia riflessione sulla società e sulle sue assurdità. Altre volte, mi viene in mente una battuta e da lì sviluppo altre battute sullo stesso argomento, creando un pezzo comico completo.
Il tuo percorso personale è abbastanza strano: studi psicologia ma non discuti la tesi per dedicarti alla recitazione prima e alla stand up comedy dopo. Da cosa è dipeso la scelta di non discutere la tesi?
La realtà è sempre molto più articolata di quello che sembra. Avevo espresso ancor prima dell’università il desiderio di fare l’attrice. Non ero stata però selezionata da nessuna accademia e, di fronte a quella che per loro era una mancanza di talento, i miei genitori mi hanno invitata a lasciar perdere e a studiare, qualcosa per cui invece ero molto portata.
Da professore universitario, mio padre mi ripeteva che avrei dovuto finire gli studi prima di poter fare ciò che volevo: per me, era un po’ come una trappola e il mio non discutere la tesi, nonostante tutti gli esami sostenuti con una media anche molto alta, è stato quasi un gesto di ribellione. Ero innamorata della recitazione, la psicologia non mi interessava e di certo non avrei mai voluto fare la psicologa per tutta la vita.
Il non laurearmi è dipeso, dunque, inconsciamente dai miei genitori.
Non credevano nelle tue potenzialità?
Più che altro erano spaventati. La mia non è mai stata una famiglia di artisti ma di scienziati: entrambi i miei genitori sono laureati in materie scientifiche e dal loro punto di vista l’arte non era un lavoro. E quindi puntavano all’università: ero davvero molto brava, mi avevano già proposto mentre studiavo di fare ricerca in ambito accademico ma, se avessi accettato, avrei rischiato di trovarmi in un gorgo da cui era poi difficile uscire.
Un atto di self-empowerment, come si direbbe oggi.
Si, adesso lo chiamerebbero così ma all’epoca era definito solo follia, pazzia totale. Ma non mi sono mai mentita della mia scelta. Quando mi chiedono perché ho studiato per poi non laurearmi, spesso rispondo che è stato per sapere delle cose. Anche perché prima si studiava per imparare e non come oggi che lo si fa solo per avere un pezzo di carta da esibire. Per me, studiare è stato fondamentale perché mi sarebbe tornato utile nella vita di tutti i giorni, dalla comprensione delle piccole questioni alle discussioni con persone di un certo livello fino alla comprensione della natura umana. Mi ha sempre affascinato l’interazione, qualcosa che sotto altre forme ho continuato a coltivare.
Come sei passata poi dalla recitazione alla stand-up comedy?
È stato un caso. Dal momento che i miei genitori non hanno creduto inizialmente nelle mie aspirazioni, a me servivano soldi per mantenermi. Ho cominciato dunque a fare attività che pagavano un po’ più della recitazione, come il teatro di strada: andavo (e vado ancora) sui trampoli. È così che ho cominciato a lavorare in coppia con un’altra ragazza, Fiona Dovo, facendo clownerie per strada. La sua passione per la comicità ci ha introdotto all’ambiente di Colorado, dove proponevamo sketch visivi in cui io nemmeno parlavo.
Come spesso succede, la coppia è poi scoppiata. Ed è stato in quel momento che ho conosciuto un autore comico che, vista quella che secondo lui era una mia particolare bravura, mi ha suggerito l’idea di proporre dei monologhi. Li ho scritti e un altro incontro fortuito, di fronte al mio cinismo, mi ha messo in testa l’idea della stand up comedy. Non sapevo nemmeno cosa fosse: è solo studiando che ho scoperto che mi avrebbe permesso di parlare di argomenti seri con una buona dose di provocazione e divertimento. E questo aspetto mi ha fregato (ride, ndr).
Eri in coppia con un’altra donna. Sono tante le coppie di attrici comiche scoppiate se paragonate a quelle maschili…
Più che altro, la nostra memoria è selettiva e ricordiamo solo ciò che vogliamo: scoppiano anche gli uomini ma loro in numero maggiore rispetto alle donne, per cui per la legge dei numeri è più facile ricordarsi le coppie al femminile. A volte, è difficile mantenere una coppia comica a lungo termine perché le dinamiche personali possono complicare le cose. E dal punto di viste femminile sono diverse quelle che intervengono: ad esempio, le donne sono più coinvolte nella gestione della famiglia, dei figli o di una gravidanza.
Negli ultimi anni, però, abbiamo assistito a un aumento delle comiche. Pensi che la comicità femminile sia stata sdoganata anche grazie ai cambiamenti tecnologici?
Sono tanti i fattori che hanno contribuito, dai cambiamenti nella società all'apertura di nuovi spazi per le donne nella comicità. Ma in primo luogo credo che il merito maggiore vada al cambio culturale ed educativo a cui siamo andati incontro e che ha permesso alle donne di raggiungere maggiore parità. La famosa frase per cui le donne non fanno ridere sta diventando sempre più ridicola, a dimostrazione di come la comicità non ha abbia genere. Mentre prima gli ambienti comici erano molto maschili, oggi va diversamente. Basti vedere anche come Instagram sia pieno di comiche, svelando una verità sotto gli occhi di tutti: la comicità non è né maschile né femminile, non dipende dalla biologia.
“Le donne non fanno ridere” è uno stereotipo abbattuto… e quelli sulle bionde?
Io ci scherzo molto sopra perché mi sento minacciata da questi stereotipi. Spero che succeda quello che è accaduto con altri stereotipi e che diventino presto una barzelletta di cui si possa giocare e ridere con tanti amici.
La stand up comedy non è un po’ come il teatro di strada? In fondo, entrambe le arti richiedono che il performer attira l’attenzione del pubblico.
Appartengono a tradizioni differenti, il teatro di strada è legato alla nostra commedia dell’arte mentre la stand up comedy è tipicamente americana. Però, sì: condividono il fatto di andare in scena senza rete e il brivido di farlo. Nel teatro di strada, arrivi, ti metti in mezzo a una via e pensi di proporre qualcosa che fermi la gente: se accade, bene… altrimenti sono problemi tuoi, il senso di fallimento è sempre dietro l’angolo. Idem per la stand up comedy: la paura che il pubblico non rida è persistente, non è detto che ciò che ha funzionato la sera prima funzioni anche la successiva. Lo spicciolo che ti lasciavano per strada si è trasformato nell’applauso o nella risata.
Come reagisci quando la risata o l’applauso mancano?
Succede molto raramente ma, quando accade, metto in atto due strategie. La prima consiste nel tentare di trovare un aggancio con il pubblico mettendomi in gioco per stabilire un punto d’empatia. La seconda, qualora quel punto non si trovi, è di andare dritto e di portare a termine la serata con quello che hai perché, diciamoci la verità, capita anche che quello che hai di fronte non sia il pubblico giusto per te.
I tuoi monologhi contengono molto di te e delle tue esperienze di vita. Faresti mai come il protagonista di Baby Reindeer?
C’è tantissimo di me, direi quasi tutti. Racconto la mia vita e i miei drammi in modo che possano risuonare anche con il pubblico ma solo dopo averli rielaborati artisticamente. Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che si possa salire su un palco per raccontare i fatti propri senza una rielaborazione, come fa il protagonista della serie: quella non è stand up comedy ma sfogo personale, tanto che quando lo fa nessuno ride…
Un racconto molto interessante su cosa sia la stand up comedy è invece quello proposto da Nanette, in cui Hannah Gadsby abbina battute a rivelazioni personali su genere, sessualità e tumulti dell’infanzia, dimostrando come l'arte deve toccare l'universale attraverso l'individuale, pensiero che condivido. Altrimenti è solo guardarsi l’ombelico e non so quanto possa essere funzionale.
Detto ciò, Baby Reindeer ha proposto una storia che ha colpito tanti di noi: quanti rapporti disfunzionali abbiamo vissuto? Quante volte non ci siamo presi le giuste responsabilità? Ci dispiace ovviamente per la storia del protagonista ma è attraverso esso che abbiamo riletto la nostra: è questo l’aspetto interessante.
Lo scorso anno sei stata il volto della prima campagna italiana di Medici del Mondo, The Impossibile Pill, con al centro la pillola abortiva RU486. Cosa ti ha spinto ad accettare?
È una causa che abbraccio da sempre e ho trovato, inoltre, molto coraggioso da parte di Medici del Mondo presentarsi con un tema così attuale. Avevo già scritto un pezzo sull’interruzione di gravidanza cinque anni prima per sovvertire il racconto che spesso se ne fa in termini di tragedia e di dramma.
Ma non sempre una donna soffre: ho come la sensazione che la sofferenza fosse indotta dagli altri. Tant’è che ne ho anche parlato nella prima puntata del podcast Humor nero con Federica di Martino, meglio nota su Instagram come IVGstobenissimo, con lo stesso taglio ironico scelto per la campagna.
Tra l’altro, anche se non posso dire altro, ci saranno altri progetti con Medici del Mondo, con cui si è creata una bella alchimia.
Un tema, comunque, quello dell’interruzione volontaria della gravidanza di cui si parla sempre troppo poco e spesso in maniera sbagliata.
Verissimo, anche se negli ultimi tempi per via dei medici obiettori la questione è ritornata attuale e se ne sta discutendo molto. Sento però ripetere spesso la stessa frase, soprattutto dagli uomini: “occorre lasciare libere le donne perché soffrono”. Capisco che si senta l’esigenza di esprimere il proprio accordo o meno ma non quella di generalizzare con un altro stereotipo.
Gli uomini che si esprimono sull’aborto mi fanno pensare alla vituperata puntata di Porta a porta…
Però, è un bene che ci sia stata perché ha mostrato quanta ipocrisia e quanta follia ci sia sulla questione. E non è una questione politica che riguarda una parte o l’altra: anche quando al potere c’era la sinistra, non è che si sia risolto molto.
A proposito dell’essere donna, esiste ancora oggi la difficoltà di coniugare sfera professionale a sfera privata. È qualcosa che riguarda anche te?
Non ho figli e non ho una famiglia mia. Questo è indice di quanto la reale parità tra i sessi arriverà, come sostengono gli ultimi report, solo tra 130 anni. Non va di certo bene… Come ci dicevamo prima, la società sta aprendo sempre più spazi per le donne ma a quanto pare ha bisogno di tempo.
Per te, comunque, quello appena trascorso è stato un anno ricco di riconoscimenti pubblici per via delle candidature a vari premi. Fanno piacere?
Sì, perché comunque si tratta di riconoscimenti che arrivano dall’esterno. E per una persona estremamente insicura come me vogliono dire che tutto ciò che faccio ha un senso che risuona in qualcun altro. Non sono io che mi guardo ma è l’altro a farlo, vedendo un’utilità e trovando interessante il mio lavoro. Vuol dire tanto, soprattutto perché arrivato in un momento in cui non mi sono più preoccupata di fare contenti gli altri.
Non inseguendo i trend, aggiungo. Cosa ti darebbe fastidio che scrivessero di te?
Credo che l’artista che insegue i trend sia meno interessante di uno che va libero. Per cui, è quello che vorrei che non si scrivesse di me, così come che sono interessata alla fama o che rincorro la visibilità senza fornire nulla di originale. Non mi piacerebbe essere definita come “un’incoerente” o come “un’approfittatrice che va dove tira il vento”.
Sono i numeri, penso a quello dei followers, un’arma a doppio taglio?
Lo sono se attribuisci loro troppo peso, se pensi a come non deludere i follower o se ti muovi in base a ciò che pensi piaccia loro. Esisto lo stesso anche senza quel numero o senza confondere la mia identità reale con quella virtuale. Quando ho partecipato a Italia’s Got Talent e sono diventata un fenomeno virale, un amico mi ha chiesto come ci si sente a essere famosi: “Sono famosa solo nel telefono. Se lo spengo, tutto è come prima”, è stata la mia risposta.
Uscirà prossimamente la seconda stagione di Humor nero. E la domanda è d’obbligo: cos’è per te l’umorismo?
Spesso è una caratteristica che si ha o non si ha. E, invece, dovrebbe essere una skill da insegnare ai bambini perché diventa come una forma di filosofia che ti aiuta a distaccarti dalle cose e a non prenderti troppo sul serio. L’umorismo salva tantissimo proprio perché ci porta a quel distacco tipico delle filosofie orientali. E non vuole non essere seri: in Italia, confondiamo spesso serietà con seriosità quando invece l’umorismo potrebbe essere un ottimo meccanismo di difesa contro le brutture dell’esistenza.