Laura Luchetti è la regista del film La bella estate, in uscita al cinema il 24 agosto per Lucky Red dopo essere stato proiettato con successo al Festival di Locarno nella sezione Piazza Grande. Prodotto da Kino Produzioni, 9,99 Films e Rai Cinema, La bella estate è liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Cesare Pavese, scritto nel 1940 e pubblicato per la prima volta nel 1949, un anno prima del suicidio dell’autore, in un volume che conteneva altri due romanzi brevi: Il diavolo sulle colline (diventato un film per la tv nel 1985) e Tra donne sole (usato da Michelangelo Antonioni per il film Le amiche).
Dei tre romanzi brevi, La bella estate era dunque finora l’unico che nessuno aveva osato trasporre in film. E il motivo è anche abbastanza semplice: non ha una struttura o una trama vera e propria. Sfida che la regista e sceneggiatrice Laura Luchetti non ha avuto paura di affrontare. Del resto, le parole di Pavese anche a distanza di più di ottant’anni hanno mantenuta intatta la loro modernità, tanto che la storia sembra parlare ai ragazzi e alle ragazze di oggi, chiamati a confrontarsi con quel turbinio che porta con sé l’adolescenza per capire chi si è e cosa si vuole.
Coming of age femminile, La bella estate ci porta nella Torino del 1938, dove la sedicenne Ginia (Yile Yara Vianello) vive insieme al fratello Severino (Nicolas Maupas). Con i genitori rimasti in campagna, i due ragazzi si mantengono in città con piccoli lavoretti: Ginia lavora in un atelier, dove ha la possibilità di mostrare a chi lo gestisce (Anna Bellato) le sue capacità, mentre Severino, messi da parte temporaneamente gli studi, si arrangia come può.
La loro esistenza scorre tranquilla. Nonostante incombano le minacce della Seconda guerra mondiale, frequentano gli amici e con loro conoscono il divertimento semplice che può arrivare da un picnic sul lago. Ma Ginia sta crescendo e con lei anche il suo corpo: come tutte le ragazze della sua età, desidera innamorarsi ma soprattutto capire chi è realmente. Trova anche un uomo, come le regole sociali del periodo prevedono, il pittore Guido (Alessandro Piavani), a cui in un impeto dettato dalla voglia di scoperta di sé si concede.
A portarla nell’ambiente bohémien in cui si muove Guido ma anche Rodrigues (Adrien DeWitte) è Amelia (Deva Cassel), splendida e imperscrutabile modella arrivata dal nulla come una Venere in barca. Sensuale, provocante e misteriosa, Amelia è poco più grande di Ginia ma è diversa da tutte le persone che la sedicenne ha conosciuto prima. E diversi sono anche i sentimenti che maturano in lei scuotendone ogni certezza.
Combattuta tra il senso del dovere e la scoperta di un desiderio che la confonde, Ginia è travolta nel corso della sua bella estate da emozioni a cui ha paura persino di dare un nome. Ma dovrà trovare il coraggio di essere se stessa e prendere consapevolezza di chi è e cosa vuole realmente.
Del film La bella estate ma anche delle differenze con il romanzo di Pavese abbiamo discusso con la regista Laura Luchetti, che dell’adolescenza è da sempre cantrice. Ha alle spalle la regia di film come Fiore gemello e Febbre da fieno ma anche la serie tv Nudes, di cui sta preparando la seconda stagione. Ma è anche una dei tre registi della serie tv che Netflix ha tratto da Il gattopardo, il capolavoro di Tomasi di Lampedusa.
Intervista esclusiva a Laura Luchetti
La bella estate adatta il romanzo breve di Cesare Pavese ma si permette di introdurre anche dei nuovi personaggi, come ad esempio il dottor Andrea, interpretato da Andrea Bosca, e Gemma, la direttrice della sartoria in cui lavora Ginia, portata in scena da Anna Bellato. Entrambi sono protagonisti di piccoli ma fondamentali atti di gentilezza.
Sono due personaggi inventati da me. O, meglio, la figura del dottore esiste già nel libro di Pavese ma è un uomo orrendo, mentre poi si parla dell’atelier ma non compare mai chi lo gestisce.
Quanta fatica serve nell’adattare un romanzo breve a cui nessuno, a quasi ottant’anni dalla sua pubblicazione aveva messo mano? Cosa ti ha spinta a farlo?
Io sono una grande amante di Pavese. Incredibilmente, avevo letto il romanzo già un anno prima che me lo offrissero i produttori: avevo in cantiere un altro film ma mi ero innamorata tantissimo di questa storia. Quella di La bella estate è la storia, molto semplice e universale, del coming of age anche sessuale della giovane Ginia, che tanto somiglia alle ragazze di oggi della sua stessa età. Ho una figlia di 18 anni e so come quell’età rappresenta quel momento della vita in cui tutto è possibile ed è anche molto pauroso, quel momento in cui si sceglie chi amare, come amare e chi essere anche sessualmente.
E quel signore e grande scrittore che è Pavese scriveva più di 85 anni fa una storia che, seppur ambientata sul finire degli anni Trenta, con la sua grande fisicità e il suo grande tormento si applica a ogni ragazza di adesso. La bella estate è un film molto femminile nello sguardo ma quello sguardo era già quello pavesiano: mi ha colpita quanto Pavese fosse molto dolce ma anche molto severo nei confronti dei suoi simili. Gli uomini sono descritti dallo scrittore con l’accetta mentre quelli portati in scena da me sono sempre nell’ombra e sono stati anche un po’ ammorbiditi.
Ho voluto tenere il punto di vista pavesiano perché, quando una ragazza è nello stesso momento della crescita della protagonista Ginia con i ragazzi che attraversano la stessa fase, c’è un sentirsi a volte molto preda.
C’è però qualche differenza in Ginia rispetto al romanzo.
Nel film, Ginia è molto più indipendente e forte. Lavora, esce di casa, non dà conto e ragione al fratello, a dispetto del romanzo dove è molto più preda tanto che Pavese descrive La bella estate come il racconto di una verginità che si difende: per me, è diventato invece il racconto di una verginità che si trasforma. Ginia è più forte ma il suo dubbio rimane grande: la scelta di come amare, chi amare e che identità sessuale avere è molto complicata. Lo era allora come lo è adesso: Pavese lo racconta con una grazia e una normalità tale che il suo lavoro sembra scritto oggi. Smussando gli angoli dei costumi e delle abitudini della società (tutto era molto più severo), Pavese sembra realmente scrivere ai ragazzi di oggi: tutti i suoi personaggi più belli sono quelli che sono transeunti e che stanno capendo la loro sessualità.
La storia è ambientata nella Torino del 1938, in piena epoca fascista, dove due donne che si amano non avrebbero avuto vita facile…
Il romanzo di Pavese è più la storia tra Guido, il pittore, e Ginia, trattata da lui come una pezza. Tuttavia, ogni volta che arrivavo con la lettura alle pagine che raccontano di Ginia e Amelia, quelle righe vibravano. Ognuno di noi sente gli autori come li vuole sentire ed io trovavo lì una vibrazione fortissima che mi faceva dire che era quella la storia da raccontare, nonostante Pavese la liquidi velocemente. Fa loro dare un bacio ma, nel momento in cui Ginia capisce cosa prova, Amelia si ammala di sifilide (vi potremmo vedere oggi un parallelo con l’Aids) e sparisce per poi tornare nell’ultima pagina e dirle “Vieni con me”. Con Ginia che le risponde: “Ovunque tu vuoi”.
In quelle pagine così veloci e così poche rispetto al resto, io sentivo le parole che si infiammavano e, quindi, ho preso la decisione di concentrarmi sulla loro storia. Mia figlia, mia grande consigliera, ha letto sia il romanzo sia la sceneggiatura ed è venuta da me dicendomi che c’è bisogno di storie di ragazze che si interrogano e capiscono la propria sessualità: di storie di ragazzi ce ne sono tante ma di ragazze meno. Avendo lei la stessa età di Ginia ed essendo stata per me anche fonte di ispirazione (con la sua timidezza, con la paura di essere se stessa e con quella di non essere all’altezza, il suo commento ha avuto per me maggiore valenza di tanti altri.
Tutti noi attraversiamo quel momento della vita in cui come Ginia dobbiamo prendere consapevolezza della nostra identità e del nostro corpo.
Per me, La bella estate è il film di un corpo. C’è il corpo di Ginia che esplode e che spinge, una sensazione che ho voluto restituire riprendendola mentre si specchia in uno specchio molto più piccolo di lei o fa un bagno in una vasca che quasi non la contiene. Il corpo spinge perché deve andare da qualche parte e deve capire com’è fare l’amore con un uomo, per la società è quello il suo oggetto sessuale, sensuale e sentimentale. La volontà di Ginia di essere ritratta e vista non è forse uguale a quella di tutti noi che pubblichiamo su Instagram i nostri selfie per essere likati o commentati per esistere?
Amando il mondo dell’adolescenza, quel precipizio su cui si cammina per cercare di diventare adulti, per me La bella estate è stato come entrare in un negozio di caramelle nonostante la sua pericolosità: il mio è un film che non ha una trama in senso stretto, è un film di sospensioni. Il libro stesso non ha né trama né struttura: ho cercato di rispettarlo ma allo stesso tempo ho provato a dargli una struttura. L’atelier è la struttura: rappresenta l’ascesa e la caduta di Ginia e mi aiuta a mantenere sospesi gli altri componenti.
È bello che mi bruci le domande ancor prima che io te le faccia…
Allora vuol dire che siamo sulla stessa lunghezza d’onda, io non sono mai molto propensa alle spiegazioni. La bella estate è la storia di un innamoramento: ho un grande pudore per i miei personaggi, li seguo ma poi li lascio al loro futuro. Se ti prevengo le domande, non posso che essere felice. Posso farti io una domanda? Chi ti è piaciuto più degli attori a parte i protagonisti?
Non sono propenso all’inversione dei ruoli ma ti rispondo. Mi ha colpito in particolar modo Cosima Centurioni, che interpreta il personaggio di Rosa, una delle amiche di Ginia prima del ciclone Amelia.
Mentre girava La bella estate, Cosima ha vinto il provino per un ruolo nella serie tv M. – Il figlio di Mussolini, diretta da Joe Wright, una bellissima parte. Era appena uscita dall’Accademia quando l’ho scelta. E Nicolas Maupas?
Sarà un problema mio ma lo trovo sempre uguale in ogni personaggio che interpreta.
Maupas in effetti divide: o lo si ama o lo si odio. Io trovo che abbia, prendetemi con le pinze, quella qualità mastroiannesca di essere sempre se stesso ma con sfumature di recitazione molto piccole. Quando Mastroianni cominciava il suo percorso di attore, si dicevano di lui le stesse cose che si dicono di Nicolas: che facesse sempre la stessa cosa… Eppure, quella che era una critica negativa è diventata a un certo punto il suo marchio di fabbrica. Quell’essere così ombroso, pieno di cuore però trattenuto, è una qualità che spacca. E lo fa veramente: nessuno di Maupas mi dice che è “carino”. La risposta o è “no” o è “sì”, senza vie di mezzo.
Tra le due protagoniste, più che di Deva Cassel, mi sono innamorato di Yile Yara Vianello e della sua Ginia.
Eh, beh… è lei la protagonista, ricordiamocelo: gli altri vengono tutti dopo. La fama di Deva Cassel la offusca ma la protagonista di La bella estate è Yile Yara Vianello.
Com’è arrivata da te?
Abbiamo fatto tantissimi provini, avremo visto ottocento persone. Conoscevo Yile perché l’avevo già provinata per la serie tv RaiPlay Nudes, dove ha fatto un piccolissimo cammeo iconico per via della sua faccia da cinema, del suo viso d’epoca. Ma come tutti gli altri ha sostenuto mille provini e mille callback, anche perché ogni volta che individuavo una probabile Amelia volevo vedere come fosse al fianco di Ginia: le due attrici non dovevano solo essere brave da sole ma dovevano esserlo insieme.
E Deva Cassel?
Avevo pensato a Deva Cassel già tanti anni fa ma era ancora troppo “bimba”. Per Amelia, ero alla ricerca di una bellezza classica à la Ava Gardner. Dato che per fare un film ci vogliono tanti anni, Deva nel frattempo è cresciuta: ho voluto provinarla. Amelia è una modella che sa come nascondere le sue debolezze, mostrando la faccia tosta per celare le fragilità, le paure e la povertà che si porta dentro: chi meglio di una che fa la modella per mestiere per interpretarla?
Quando ho messa Deva al fianco di Yile, si sono trovate subito ed erano anche belle da vedere: si capivano, c’era qualcosa di diverso tra di loro rispetto alle altre che a me piaceva molto.
Corpo, rappresentazione e accettazione dello stesso: ci sono due scene in cui Vianello recita completamente nuda. Quanto è difficile per una regista chiedere a un’attrice di recitare nuda?
Per me non è stato difficile perché il mio sguardo – e i ragazzi lo avvertono – non è voyeuristico. E non lo è stato nemmeno per la scena di sesso tra Ginia e Guido, dura cinque minuti ma non c’è niente di morboso. Quella scena, in particolare, restituisce un punto di vista femminile molto duro, quello di chi mentre fa qualcosa si aliena. Alcune donne che hanno avuto modo di vederla si sono riviste nella situazione perché anche a loro era capitata la stessa sensazione di alienazione.
Mi metto all’altezza dello sguardo dei personaggi, cerco di girare la scena come se fosse un abbraccio e non come stessi voyeuristicamente scrutando il corpo, sia di una donna sia di un uomo, anche perché nella scena di sesso anche Alessandro Piavani è ben esposto. La loro nudità è parte del racconto: non è frivola, diventa semmai organica. Faccio un esempio sciocco: nel romanzo di Pavese, Amelia è sempre nuda ma il suo nudo per me non era organico al racconto, motivo per cui ha finito con l’essere nel mio film quella più vestita di tutti. La sua nudità non sarebbe stata funzionale, non mi avrebbe raccontato di più del personaggio mentre la nudità di Ginia è uno sfregio e, come tale, va raccontata.
È la prima volta che faccio un film così femminile ed è la prima volta che una giornalista straniera mi ha sottolineato durante un’intervista come io abbia fatto un film femminista senza nemmeno essermene resa conto. Ed è da quando me l’ha detto che non faccio altro che pensarci.
Nel mio film non c’è buonismo, c’è amore. Io stessa che l’ho girato ogni volta che vedo quell’atto sessuale sto male, e l’avrò visto finora centinaia di volte: in quella scena, c’è ogni donna che ha dovuto fare qualcosa che non voleva fare… c’è ogni donna che nella purezza del proprio orientamento sessuale tradisce se stessa. Però, la crescita è necessaria, per le donne ma anche per gli uomini: ce ne saranno tanti che prima di capire il proprio orientamento si sono violentati facendo cose che non volevano fare. In quel momento, nell’esperire il proprio corpo, Ginia diventa più grande, non solo sessualmente ma anche psicologicamente.
Quello è anche il punto di svolta che porta Ginia a perdere il lavoro e il contatto con il fratello Severino.
Severino è un fratello molto moderno, a differenza di quanto non lo fosse nel romanzo di Pavese dove rispondeva a canoni più patriarcali. È un fratello che nel silenzio ha già capito tutto quello che accade alla sorella. Quando Ginia sta per uscire, Severino le tocca il fermaglio dicendole che sta bene: è un modo per dirle che sa che è di Amelia e che si è innamorata di lei. È tutto sottinteso e questa è la ragione per cui il ruolo è andato a Maupas: Nicolas restituisce sempre la sensazione di tenere sempre qualcosa taciuto dentro.
Nel film, il gruppo dei pari diventa fondamentale per l’evoluzione psicologica di Ginia. All’inizio, la vediamo serena con gli amici al lago, perfettamente integrata. Man mano che si avvicina ad Amelia, invece, Ginia allontana tutti quanti per poi ritrovarlo sul finale.
Eh, certo: Amelia è come Lucignolo che porta Pinocchio da Mangiafuoco ma è più solo ancora di Pinocchio.
Ma è anche sinonimo di qualcosa di molto più complesso: Ginia necessita di identificarsi e di specchiarsi in qualcun altro e questo qualcun altro non sono più coloro di cui si circondava prima.
Vuole di più.
È qualcosa che accade anche oggi: quando si cerca altro da sé in cui rispecchiarsi si cambia comitiva…
Vero. Delle volte mi fate più intelligente di quello che sono perché è un parallelismo a cui non avevo pensato (ride, ndr). Quando ci interroghiamo su chi siamo, vogliamo prima la tribù ma dopo ci rendiamo conto che ci sta stretta. Ti allontani perché avverti che non sei come loro… ma poi dove torni? Alla tribù che è stata.
Scegli di concludere il film La bella estate con un finale quasi onirico: ciò che accade potrebbe anche essere un sogno.
Eh, sì ma è un sogno molto ottimista. Perché credo nel rapporto tra le due protagoniste.
Ti sei immaginata cosa potrebbe esserci dopo l’ultima scena?
Sempre (ride, ndr). Ma da regista mi piace lasciare delle domande e non dare delle risposte. Mi piace che ogni spettatore possa nutrire in sé la speranza e il sogno di come possa andare a finire tra Ginia e Amelia: io le immagino in un posto meraviglioso dove possono stare insieme.
La bella estate: Le foto del film
1 / 10Nel tuo percorso, ancora una volta torni a occuparti di adolescenza. È solo perché hai una figlia adolescente o c’è qualcosa di irrisolto nella tua di adolescenza?
Torno all’adolescenza perché è l’età più bella, è l’età dove tutto è possibile ma mette paura ed è l’età in cui hai dalla tua la cosa più importante, il pudore. Ma può darsi anche che io sia un’adolescente negata. Parafrasando Pavese, la giovinezza è l’età che più conosco perché è quella che più a lungo ha vissuto con me: in tal senso, mi sento sempre un’eterna ragazza.
Com’è stata la tua di adolescenza?
Molto interessante, piena di viaggi ma anche di solitudine. Seguivo i miei genitori che erano grandi due cantanti d’opera: io e mio fratello avevamo la fortuna di andare con loro e mia madre ci faceva anche homeschooling, come si dice adesso. Ma, come dicevo, sono stati anni anche di grande solitudine, di grandi letture, di tanta natura e di tanti animali (vivevamo in campagna). È stato un periodo molto intenso ma anche di grandi malinconie, come deve essere l’adolescenza: un’adolescenza troppo felice è pericolosa. Se non si è infelici in adolescenza, quando lo si è?
Qual era la tua più grande malinconia?
L’ingiustizia. È rimasta ma da giovane era qualcosa con cui non riuscivo a convivere. Vivevo in campagna vicino a dei centri molto carini e semplici in cui c’erano spesso dei livelli di ingiustizia sociale che non capivo e mi dava tanto tremore malinconico.
Reputi che sia oggi un’ingiustizia non amare chi si vuole perché uno Stato te lo impedisce?
È una delle ingiustizie che mi mette malinconia.
Come avrebbero potuto reagire Ginia e Amelia oggi di fronte alla possibilità di non poter ricorrere alla procreazione assistita per avere una famiglia tutta loro?
Ginia e Amelia, non lo so. Posso, però, dirti come reagisco io: credo che non ci sia Stato che possa regolare il privato. È già tanto difficile far funzionare il pubblico, meglio preoccuparsi di quello e lasciare il privato all’individuo. Per privato, intendo ovviamente la sfera emotiva, sentimentale e familiare delle persone. E non parlo dell’Italia in particolare ma per tutti gli Stati in generale.