È ora di andare (Solid Records/Believe) è l’album d’esordio di Lazzaro. Cantante, pianista, autore, ingegnere e insegnante, Lazzaro ci regala nove tracce in cui, in maniera matura e consapevole, si insinua nel solco di grandi cantautori come Lucio Dalla, Joe Cocker o Elton John, per regalarci un viaggio intimo nell’animo umano, il suo ma anche quello di molti di noi.
Molte delle esperienze cantate da Lazzaro sono universali. L’amore, prima di tutto, in ogni sua sfumatura, dall’instabilità delle relazioni alla fine, dall’abbandono al ricordo. Ma anche la famiglia e gli affetti più cari, dalla forza del padre nell’uscir fuori dalla dipendenza dell’alcol alla sorella con cui è cresciuto, dagli amici di sempre al sapore di casa. E se stesso, con un flusso di coscienza che aiuta sia Lazzaro ma anche noi a capire quali sono i propri limiti, testandoli e mettendoli alla prova se serve.
Prodotto dal mitico Taketo Gohara, È ora di andare è un album che potremmo definire fisico. E non solo perché Lazzaro, al secolo Leonardo Angelicchio, insegna Matematica e Fisica in un istituto superiore. Le nove tracce sembrano infatti caratterizzate da una doppia forza, una centripeta e una centrifuga, che hanno la loro intersezione in Maledetto me, la traccia in cui Lazzaro rivolge la sua attenzione su se stesso, punto di arrivo e al contempo di partenza.
Ma lasciamo che a raccontarci tutto ciò sia Lazzaro in persona, in un’intervista a tutto tondo in cui esplora la sua musica ma anche il suo essere un millennial con la paura di smettere di sognare.
Intervista esclusiva a Lazzaro
“Sono un po’ dottor Jeckyll e Mister Hyde: al mattino insegno matematica e fisica in un istituto superiore. Sono laureato in ingegneria meccanica, anche se avrei voluto frequentare ingegneria e design del suono per collegare la mia passione al mio lavoro”, è una delle prime cose che mi racconta di sé Leonardo Angelicchio, cantautore di origine pugliese meglio noto come Lazzaro.
Perché hai scelto proprio Lazzaro come nome d’arte?
Lazzaro è più che altro l’evoluzione sintattica di quello che era il mio primo nome d’arte, Leo Lazz, che arrivava dal soprannome di famiglia. Andando via dalla Puglia e trasferendomi a Milano, volevo mantenere un po’ le mie radici nel nome che ho scelto per il mio nuovo percorso, un nome che fosse immediato e riconoscibile, se vogliamo, anche all’estero. Avrei potuto optare soltanto per il mio vero nome, Leonardo, ma mi sembrava pretenzioso dal momento che è associabile a uno dei più grandi geni della nostra storia. Studiando un po’ di soluzioni, è venuto fuori Lazzaro. E a quanto pare sta funzionando dal momento che i primi riscontri sono stati buoni.
Il tuo album si intitola È ora di andare: indica l’inizio di qualcosa di nuovo o il saluto a qualcosa che c’è stato?
Entrambe le cose. Da un lato, è un saluto al passato mentre, dall’altro lato, è uno sprono a darsi una mossa. Il messaggio che voglio lasciare in tutte le nove tracce, anche in quelle un po’ più malinconiche, è caratterizzato sempre da un margine di speranza, lo stesso che ti invita a ricominciare e a riprendere in mano determinate cose. Non vorrei esagerare dicendo che il mio è un concept album ma c’è questo mantra di fondo.
A chi o cosa rivolgi il tuo saluto?
Sicuramente al me innocente: è un saluto alla mia innocenza. Il che non è necessariamente una cosa brutta: salutare l’innocenza implica una presa di consapevolezza di alcuni aspetti della propria maturità. Sono ormai un quarantenne e lascio andare il mio io ragazzino e tutto ciò che si porta dietro l’innocenza. La vita adulta comporta determinate responsabilità e altri tipi di fatica con cui fare i conti. E, quindi, il mio è un saluto a quello che è stato il periodo più semplice che ho vissuto.
Nel tuo lavoro, profondamente biografico, salta subito all’occhio il desiderio di guardarsi dentro e sondare meglio il proprio animo. Per raggiungere il tuo scopo, guardi all’amore in varie sfaccettature ma scruti anche dentro te stesso per capire chi sei. Sei riuscito ad autodefinirti?
In qualche modo, sì. Anche se il processo di autodefinizione è sempre in costante movimento. Sono sicuramente una persona diversa da quella che ha cominciato a lavorare all’album, la cui realizzazione è stata particolarmente lunga. Come dicevo all’inizio, vivo una sorta di bipolarità tra il mio lato pratico (l’essere un ingegnere) e quello artistico (meno razionale e dettato più dalle emozioni) e cerco costantemente di convivere con entrambi, senza metterli in contrasto. Nell’autodefinirmi, non ho potuto fare a meno di prendere coscienza che esistono entrambi sin da quando, ragazzino, ero portato per le materie scientifiche ma mi svegliavo a casa con in testa una canzone che avevo sentito alla radio.
Quanti anni avevi quando hai cominciato a svegliarti con una canzone in testa?
Già a 14 anni ho fatto parte della mia prima band ma è stato intorno ai 17 o 18 anni che ho scritto la mia prima canzone. O, meglio, ho scritto la musica e la melodia di un testo di un mio amico: ne ho un ricordo molto nitido.
Perché definisci lunga la realizzazione dell’album?
Perché è stato complicato ritrovarsi in piena pandemia proprio nel momento in cui lo stavamo chiudendo. Avevamo cominciato a registrare a metà del 2019 e all’inizio del 2021 l’album era quasi pronto. La pandemia ha cambiato i miei piani: non volevo gettare all’aria un lavoro così intenso e la fatica di chi con me ci aveva creduto, i miei amici Antonio e Fabrizio. Ma i tempi di produzione sono stati lunghi perché abbiamo anche scelto di scrivere e suonare per davvero ogni singola nota, non prevedendo – ovviamente - come poi il corso degli eventi avrebbe finito con il modificare la nostra pianificazione.
Il risultato di questa lunga lavorazione sono nove tracce. Il singolo scelto per il lancio è la canzone che apre l’intero disco: Ancora un po’ di te. “Scrivo canzoni per nostalgia e pentimento”…
La persona a cui si fa riferimento era a me molto cara. Con i ragazzi ci stavamo facendo assorbire in quel periodo dalle produzioni musicali di fine anni Settanta e proprio quel verso è una chiara citazione di Lucio Dalla. Riflette tra l’altro anche un po’ di verità: come disse qualcun altro, “scrivo canzoni quando sono triste perché quando sono felice vado al mare”. La nostalgia fa riferimento a quella storia ormai andata e il pentimento all’aver lasciato andare via quell’amore, del cui valore come spesso capita mi sono accorto solo quando lo stavo perdendo.
Nello stesso brano, asserisci di conoscere le tue paure e i rimpianti. Quali sono?
La mia paura più grande è quella di perdere gli affetti, dai familiari agli amici. È una paura che conosco bene per aver perso un carissimo amico qualche anno fa. Ma ho anche paura di non riuscire a tenere il passo con il tempo e che questo finisca con lo schiacciarmi. Rimpianti, invece, pochi: forse quello di non aver fatto venir fuori prima le mie sensazioni ed emozioni: se non l’ho fatto, è stato solo per paura di non essere all’altezza. È un mio limite da sempre quello di temere il confronto con qualcosa di più grande.
Hai paura di perdere gli affetti, eppure sei andato via di casa abbastanza presto. A diciannove anni hai lasciato il Gargano per trasferirti a Milano.
L’impatto con Milano è stato devastante. Ero un ragazzino che lasciava un paese da 7/8 mila abitanti nella provincia garganica che si è ritrovato in una città che, seppur splendida, fagocita tutto e tutti. Paragono Milano a una donna bellissima che vuole tutti ma che non prende nessuno, è zucchero e catrame allo stesso tempo. Non è stato facile salutare familiari, amici e affetti, ma averlo fatto mi ha portato a crescere e a diventare grande. Oggi, ringrazio di essere andato via così presto, smentendo quel luogo comune che vuole la mia generazione come quella dei bamboccioni che non lasciano mai casa e hanno sempre mamma alle spalle. Imparare a cavarmela da solo, anche nelle attività più pratiche come il cucinare, mi ha dato uno slancio enorme per diventare adulto.
Come l’hanno invece presa i tuoi?
Mi hanno sempre lasciato libero di fare ciò che volevo.
Anche di muoverti da uomo vissuto, come sostieni in Senza sapore?
Più che altro sono state le donne ad aver qualche problema con il mio fare da uomo vissuto, qualcuna non l’ha sopportato.
Quella canzone parla di un amore instabile ma c’è un verso criptico, “Mi dici ‘non bevo più’”. Era il bere che ha impedito alla relazione di andare avanti?
No, non era quello il problema. Quel verso fa riferimento a quando, nel distaccarsi, una delle due persone coinvolte nella relazione si lascia andare un po’ di più ai bagordi. Il testo nasce da una conversazione fatta una mattina con una mia amica e dal riconoscere nelle sue parole alcune cose che mi passavano per la testa. Tuttavia, c’è un’altra canzone del disco che parla di dipendenza: Avvicinarsi alla fine.
Il testo è una sorta di dialogo immaginato tra me e mio padre, uscito egregiamente da una dipendenza dall'alcol che rischiava di annientarlo. È stato fortissimo e bravissimo nel volercela fare proprio per paura di perdere noi figli, me e mia sorella, che all’epoca eravamo bambini: ha recuperato la sua forma fisica, ha ripreso in mano la sua attività lavorativa (è un ingegnere edile), è totalmente sobrio dal 1987 e si è impegnato ad aiutare tantissime altre persone che avevano bisogno di sostegno per liberarsi dalla dipendenza.
Pierrot e un pagliaccio parla di qualcuno con cui sei cresciuto sin da bambino…
Parla di mia sorella. Quel testo nasce da una foto di noi da bambini e rispecchia quello che è poi successo nelle nostre vite: abbiamo preso strade molto simili. Io ho studiato Ingegneria e lei Chimica, però io adesso sono anche un cantante e musicista e lei attrice e aiuto-regia teatrale. Siamo sempre stati molto legati, sostenendoci a vicenda: è nata un anno dopo di me, ragione per cui non mi sono mai sentito solo.
Quasi come a voler restringere il cerchio, in Maledetto me vieni fuori tu, Leonardo. Ma è il Leonardo di ieri o quello di oggi?
Ci sono entrambi. C’è il Leonardo del passato ma anche quello del presente, quello che è incosciente e che parla troppo. È una canzone che ho scritto la sera prima di un mio compleanno, quasi a voler fare un resoconto del momento che stavo vivendo. Quando la presento, dico sempre che è un inno d’amore alla vita perché non c’è altra persona a cui mi riferisco se non a me stesso e alla vita. La lavorazione del disco è stata una sorta di seduta psicoterapeutica molto lunga e in quel momento mi stavo guardando dentro. L’unica a potermi cambiare era la vita, ricordata poi attraverso la figura eterea che sta anche nella copertina dell’album.
Se la figura “femminile” di Maledetto me è molto spirituale, abbastanza fisica è quella di Resta qua.
È una canzone che nasce dal pensare a due amanti che scappano durante un incendio e che si ritrovano per strada mentre il disastro prende forma. Il loro è un amore molto viscerale sullo sfondo di uno scenario quasi apocalittico.
Di amore, si parla in quasi tutto il disco senza citare mai esplicitamente la parola “amore”. Cos’è per te l’amore?
È tutto. È amore per me, per la mia famiglia, per il mio lavoro, per l’amore stesso e per le donne che hanno segnato in maniera profonda la mia vita. Ma è anche amore per la fatica che comporta tutto ciò che faccio. La fatica, dal mio punto di vista, è qualcosa che ha un’accezione positiva. Ed è amore per Milano ma anche per la mia terra d’origine, a cui è dedicata l’ultima traccia, Quando ritorno a casa, o per i miei amici, di cui si parla in E non rispondermi così, dedicata a Fabrizio e Antonio, a quell’amicizia che sopravvive anche quando affronta momenti difficili e fatiche gigantesche.
In Noi canti di “mattinate di rimorsi e nottate di rimpianti”.
Non parlo esattamente di me ma di chi non è riuscito a conquistare determinate cose. Vengo dal rock’n’roll (parlo di genere e non di stile), dalla gavetta, e sono convinto che certi risultati si raggiungano per merito. Ho cercato di immaginarmi chi invece non ce la fa a concretizzare i propri sogni. Quelli della mia generazione, purtroppo, non sognano più e non ne capisco il perché: diventare adulti non significa che non si debba più sognare.
Nell’ultima traccia dell’album, come hai già accennato, si torna a raccontare della tua terra. Cos’è rimasto in te di quel diciannovenne che impaurito lasciava casa?
La curiosità e il senso di meraviglia. Sono contento di meravigliarmi ancora quando scopro qualcosa di nuovo, da un libro a un film. Ultimamente, mi ha meravigliato Napoli, una città che ogni volta mi lascia a bocca aperta, ma anche Lisbona: sono stato nel quartiere antico di Alfama durante la festa di Sant’Antonio e mi ha ricordato tantissimo uno dei nostri paesi del sud tanto da sentirmi come a casa. E il senso di meraviglia è qualcosa che cerco di preservare.
Da insegnante, ti ritrovi tutti i giorni ad avere a che fare con il mondo degli adolescenti. Che cambiamenti noti in loro rispetto a quando tu eri adolescente? Cosa ti fa paura o preoccupa?
Sono tante le cose che mi preoccupano. Ma più di tutto mi preoccupano i genitori, che sembrano molto più persi dei loro figli, e la mancanza di curiosità dei ragazzi verso il mondo, che guardano solo attraverso il filtro di uno smartphone… sembrano interessati più a un like che a quello che accade accanto a loro, cercando il consenso virtuale anziché quello concreto. Basta vederli in ricreazione: anziché socializzare con le centinaia di persone che li circondano, stanno con la testa rivolta al loro smartphone.