Leanò è un fiume in piena. È difficile fermare il flusso dei suoi pensieri e cercare di dargli una direzione. Lo si evince da quest’intervista che ci ha concesso in esclusiva per il lancio del suo ultimo singolo, Reale, un inno alla semplicità delle cose. Quello che leggerete è il riassunto lungo più di un’ora in cui spesso intervistatore e intervista si perdevano tra surreali riflessioni sui massimi sistemi ma anche sull’ironia del destino, che arriva sempre beffardo quando meno te lo aspetti.
L’animo di Leanò è continuamente giocoso. Forse perché in lei è molto forte una parte bambina che si è protetta dal crescere e dal farsi travolgere dalla frenesia di una società che ci vuole iper performanti a qualsiasi costo. Un po’ milanese un po’ cilentana, Leanò è alla continua ricerca di sonorità indie-pop e urban, di melodie dall’impronta tradizionale da mixare con suoni sperimentali, di dimensioni oniriche che restituiscano il suo mondo interiore.
Ma non lo fa con la presunzione di chi ha scoperto l’acqua calda. Lo fa semmai con un linguaggio semplice, allegro e spesso trasognante. Perché Leanò è così sin da quando aveva dieci anni, da quando un po’ per gioco e un po’ per invidia nei confronti della sorella ha preso la chitarra in mano e ha scritto la sua prima canzone su un’anguria. Del resto, per lei la musica è da sempre un modo per sentirsi viva, incontrare l’altro e godersi tutte le sfaccettature della vita. E non importa se poi cade dalle scale per postare una storia su Instagram: Leanò è così, stupendamente reale.
Intervista esclusiva a Leanò
È appena uscito Reale, il tuo terzo singolo dopo Tremo e Cicale. La canzone è un inno alla semplicità delle piccole cose.
Posso già annunciarvi che ne uscirà anche un quarto, che chiuderà un po’ il cerchio dei singoli finora rilasciati. Trattano tutti più o meno della stessa tematica: l’autodeterminazione e il riconnettersi con delle parti di noi stessi che magari non conosciamo ma che ci rendono quello che siamo, ci definiscono.
Quindi, hai già un percorso chiaro in mente. Mi ricorda un po’ quando per fare un album si aveva un concept in mente. E non come tanti artisti di oggi che cambiano atmosfere, temi e pelle a ogni canzone, finendo spesso anche con il contraddire se stessi.
Io ho un po’ di invidia nel loro confronti. Io vivo periodi, interi capitoli della mia vita, in cui mi fisso con gli argomenti. Per farti un esempio stupido: aprile e maggio sono i mesi del Toro, io potrei fissarmi sul fare una canzone a riguardo. Un po’ come ho fatto con il concetto di autodeterminazione. Quindi, mi ritrovo in certi periodi a scrivere canzoni che hanno una sola tematica ma senza farlo consapevolmente. Volente o nolente, quella tematica si insinua nei brani anche se parlano poi di tutt’altro.
Da dove nasce la tua voglia nel concentrarsi nella semplicità delle cose in una società che in questo momento guarda all’opulenza e tende a restituire una realtà sempre più ingrandita o filtrata?
Non mi trovo molto bene in questa società così caotica e iper-connessa. E nella seconda strofa di Reale ho cercato di dirlo anche in maniera esplicita. Per me, la vera connessione è quella verso le piccole cose, quelle che ci permettono di abbandonarci al vissuto, di entrare nel flow e di riconnetterci con noi stessi, tornando un po’ bambini. Come, appunto, quando da piccoli ci si prendeva una granita alla fragola e si era felici.
Ricordo che quand’ero piccola e tornavo in estate ad Ascea, nel Cilento, ero solita prendere una granita alla fragola e berla tutto d’un fiato. Provavo quello che viene definito brain freeze e mi prendeva il panico: cosa sta succedendo al mio corpo?, mi chiedevo. Non capivo quello che accadeva però avevo la consapevolezza che prima o poi sarebbe passato. Ecco, vorrei che tutti ritornassimo a bere quella granita con spensieratezza, sapendo che tutto scorre, tutto passa e tutto alla fine si evolve.
Il richiamo alla tua parte bambina è molto forte nel brano. Com’è fatta questa parte bambina?
La mia parte bambina è molto, molto più avventurosa della me adulta. La me adulta si deve ricordare spesso di come era la me bambina e spesso mi chiedo cosa farei in questo momento se non avessi tutti quei costrutti culturali e tutto quel vissuto che ho accumulato negli anni. È come se tornassi a indagare il nocciolo della mia identità, un nocciolo sicuramente avventuroso, determinato e semplice. La semplicità di cui parlo non è ingenuità, è semmai una semplicità nell’accezione più zen del suo significato.
In questa semplicità è contemplata la necessità di fidarsi anche di se stessi. C’è un verso in Reale che dice “fammi fidare della mia pelle che sfiora uno scoglio di un fondale che non conosco”. Quanto è importante per te fare affidamento su quelle che sono le tue certezze?
Certezze ma anche non certezze. Quel verso si rifà proprio alla mia paura di scalare gli scogli e di abbandonarsi. Ci sono sicuramente delle linee guida che determinano la personalità di ognuno di noi e che ci rendono chi siamo, con le nostre convinzioni e le nostre certezze. Sono quei punti fermi della nostra identità su cui dobbiamo basare le nostre scelte.
È importante fare affidamento sul nostro sistema di valori per non uscire da ciò che siamo e non fare cose che non faremmo, facendoci prendere poi dall’ansia. Spesso disattendiamo le nostre convinzioni o le nostre regole perché non ci sentiamo abbastanza conformi a come ci vuole la società circostante. Dobbiamo invece attenerci ai punti saldi della nostra identità, sono quelli che ci permettono di rimanere in sintonia con noi stessi e con chi siamo.
Ma quindi hai veramente paura di scalare gli scogli o era solo metaforico?
Era reale. Soffro di vertigini.
Hai dunque paura delle altezze. Però fare musica potrebbe portarti in alto. Come riusciresti a conciliare la vetta con le vertigini?
Forse fidandomi della mia pelle, come canto nella canzone. Quando sono di fronte a qualcosa che mi mette paura, tendo sempre a concentrarmi sul respiro e sulla consapevolezza che tutto passerà. Lo so che è più facile a dirsi che a farsi. Ma dobbiamo convincerci che sia così. Sicuramente c’è tutto un percorso personale da fare ragionando su se stessi per arrivare a quelle che io definisco “rivelazioni”.
Citando sempre la tua Reale, quand’è l’ultima volta che ti sei sentita viva?
Quando mi sono rotta un legamento cadendo dalle scale. Banalmente, è stato un modo per ricordarmi che alla fine siamo tutti umani. Tra l’altro, come sono caduta fa riflettere molto sulla società in cui viviamo: stavo pubblicando una storia su Instagram… se non fossi stata presa dalla fretta di pubblicare, probabilmente non sarei caduta. La società ultra performativa e ultra caotica in cui siamo immersi ci impone l’urgenza di fare tutto e subito quando in realtà dovremmo prendere tutto con più calma. Tra l’altro è accaduto proprio due giorni prima che uscisse il singolo…
Reale parla di autodeterminazione. Quanta determinazione c’è invece nel seguire il tuo percorso musicale? Sei donna e, in quanto tale, per un certo pregiudizio di fondo dell’industria musicale (e non solo) parti svantaggiata rispetto a un uomo.
La disparità legata al genere è un problema che riguarda tutti i lavori non solo in Italia ma in tutta la cultura occidentale: ci sono certi bias cognitivi che sono duri da sradicare. Per noi donne, la determinazione deve essere maggiore per raggiungere non tanto risultati esterni - quello di cantante è pur sempre un mestiere difficile a prescindere dal genere – ma quanto per quelli interni. Io combatto i bias radicati anche in me stessa facendo prima di tutto attivismo: creare e fare arte è di per se un atto politico. Racchiude in sé non soltanto il modo di vedere il mondo ma anche come reagiamo. La mia autodeterminazione consiste nell’essere determinata a combattere gli stereotipi partendo prima da noi stessi. È un processo a volte frustrante però molto importante e formativo.
A proposito di formazione, qual è stata la tua?
Ho conseguito una laurea triennale in Comunicazione Interculturale e sto studiando per la magistrale in antropologia, concentrandomi sulla composizione di musica per immagini. In pratica, colonne sonore.
Quand’è che hai cominciato a fare musica?
Ho cominciato a studiare musica seriamente più o meno verso i 14 anni. Anche se a nove anni ho cominciato a scrivere le mie prime canzoni “sceme”. In famiglia c’è sempre stata un’attenzione particolare alla musica: mio padre canta. Ma io mi sono avvicinata alla musica quasi per gioco: mia sorella aveva iniziato a studiare chitarra ed io molto banalmente volevo copiarla!
E di cosa parlavano le canzoni “sceme”?
Di cose che oggi mi fanno ridere. Una parlava di un’anguria. Studiavo chitarra e, poiché mi annoio abbastanza a fare le cose in modo tecnico e ripetitivo, cercavo di rendere i brani da studiare un po’ più “interessanti”. Ricordo che per farmi piacere un brano ci scrissi sopra questo testo molto nostalgico sull’estate che era finita, di come ero felice quando mangiavo l’anguria… in pratica, una cover a tutti gli effetti!
E la rivalità con tua sorella è poi finita?
Si, lei ha poi continuato a studiare pianoforte e oggi pratica musicoterapia.
Chi ha studiato invece la copertina del tuo singolo, Reale?
La copertina è stata realizzata da Alberto Ricchi, un grafico super bravo. È nata dalla collaborazione con Studio Cemento, sotto la direzione artistica di una ragazza altrettanto brava che si chiama Arianna Puccio. La copertina continua il percorso tracciato già da quelle degli altri singoli: ci sono sempre un elemento naturale e parti del corpo, connessi ovviamente ai testi delle canzoni. Nel caso di Reale, c’è una fragola abbracciata da due mani per simboleggiare quel ritorno alla semplicità di cui parlavamo prima.
Te l’avranno chiesto chissà quante volte. Ti chiami Eleonora: perché hai scelto come nome d’arte Leanò? Ti chiamavano così a casa?
Si, è un mix tra come mi chiamano i miei amici di Milano e i miei nonni campani.
Traslando, potremmo dire che il tuo nome è un mix di innovazione e tradizione, lo stesso che si ritrova nella tua musica. Da cosa nasce la tua passione per due mondi musicali apparentemente lontani tra loro, come la musica popolare e la sperimentale?
Sicuramente dal bisogno di ricerca geografica ma anche sonora. Dietro la mia musica c’è una ricerca che non è soltanto geografica ma è anche biografica, culturale, storica e, appunto, musicale. Prendo molto spunto dai canti della tradizione: sono il mio retaggio, è un po’ come se si fossero scritti dentro me.
E dove aspetti che ti porti questa tua ricerca?
A trovare semplicemente la mia voce, una voce unica che si differenzi dall’altre ma che allo stesso tempo abbia punti in comune con quello che viviamo in questa società dell’apparenza.
È facile farlo nella scena musicale milanese?
È un po’ complesso. Sicuramente è più facile farlo se si trova una nicchia ideale. La scena milanese è molto ampia: trovi il ragazzino che fa musica da due mesi così come l’adulto che la fa da anni. È bello quando trovi quella nicchia di persone che, nonostante i modi diversi di fare musica, si combina con la tua idea e sposi i tuoi valori. Possono nascere nuovi stimoli creativi e scambi interessanti.
Di persone con i tuoi stessi obiettivi nel tuo cammino ne hai incontrati tanti. Hai aperto i concerti di Giovanni Truppi, Carmelo Pipitone…
Sono state esperienze meravigliose ma anche molto formative. Mi ricorderò sempre delle aperture dei concerti di Carmelo. Erano le prime che facevo e mi ha colpito il suo modo di approcciarsi ai concerti e alla musica. Prima di ogni tappa, non diceva mai “in bocca al lupo” ma “divertiti”. Ed è in quel “divertiti” che sta tutto il senso di fare musica: prima di tutto devi divertirti tu stesso e avere qualcosa da comunicare.
È una domanda che ultimamente faccio spesso: non hai mai sentito l’esigenza di partecipare a un talent?
Per ora, no. Non escludo in futuro di provarci ma al momento ho scelto di non tentare quella strada. Ho anche avuto proposte in tal senso ma le ho declinate. Certo, il picco di visibilità che ti dà un talent è sicuramente super utile. Però, dopo, devi cercar di mantenere quello che hai raggiunto e se non hai delle basi solide a cui far riferimento è tutto inutile. E anche controproducente.
Cosa ne pensi dell’attuale situazione discografica italiana?
Secondo me in Italia c’è veramente un grosso problema di ageismo in questo momento. L’industria discografica si sta concentrando molto sulla generazione Z, giustamente, ma al contempo si sta dimenticando di tutta una fetta di artisti e persone che hanno altre cose da dire. Penso ad esempio all’ultimo disco di Giovanni Truppi, visto che l’abbiamo citato prima: racconta con modi di comunicare che picchiano argomenti molto sentiti che appartengono a una persona matura, che ha vissuto più esperienze.
C’è invece la tendenza ad associare la figura dell’artista a quella dell’eterno giovane, dell’eterno bambino, In questo modo si toglie la possibilità anche agli stessi artisti di crescere e di accollarsi anche la propria maturazione. E in più l’artista viene visto sempre come colui che sta male, che deve avere chissà quali paturnie per scrivere: una visione quasi adolescenziale del nostro lavoro.
A volte si ha la sensazione che tutti ruoti intorno ai social. Tu che rapporto hai con i social?
Mi diverto a usarli, anche se in realtà ci sono dei periodi in cui ho il bisogno di non considerare nemmeno il telefono. Mi sembra ogni tanto di essere al mercato o a una fiera, a osservare chi ti dice “quant’è bella la mia vita” anche quando poi non è così. Usiamo i social per vedere come vivono gli altri, piace anche a me. Ma se voglio sapere come sta un amico gli scrivo o lo chiamo direttamente!
Se dovessi darti una definizione guardandoti allo specchio, che tipo di donna saresti?
Non mi identifico come donna. Quando mi guardo allo specchio, non vedo una donna ma vedo, prima di tutto, Eleonora. Poi, Eleonora è anche una donna.