È uscito Amundsen (Neverminding Mina / Ada Music Italia), il nono album del cantautore, autore, musicista e produttore discografico Leo Pari. Nome tra i più apprezzati e quotati del panorama musicale italiano degli ultimi anni, Leo Pari va con Amundsen ad aprire un nuovo percorso, fatto di dieci tappe, in cui racconta la ricerca e la scoperta di se stesso traendo ispirazione dall’epopea del grande esploratore norvegese Roald Amundsen. Così come Amundsen ha sfidato ostacoli e incertezze per scoprire nuovi mondi, anche Leo Pari affronta il pericolo del proprio io e denuda la sua anima in dieci canzoni che molto raccontano dell’uomo che è diventato.
In Amundsen, Leo Pari parla di se stesso, dei suoi mostri interiori, di amore e di dolore. In un’epoca segnata dall’arte del performare, Leo Pari pone l’accento sulla vulnerabilità e sulla fragilità di un uomo che per crescere ha bisogno di avventurarsi dentro la sua testa e la sua spiritualità. Un viaggio più difficile e doloroso che ognuno di noi può intraprendere, come ci conferma in quest'intervista in esclusiva.
Intervista esclusiva a Leo Pari
Amundsen è il disco composto da dieci tracce con cui si ripresenti sul mercato musicale. Ascoltandolo, emerge un lavoro abbastanza maturo di introspezione che sembra essere figlio della cosiddetta crisi dei quarant’anni.
Amundsen è il frutto di un momento di riflessione su me stesso, in primis, ma anche su ciò che mi circonda. Ho cercato di restituire un’istantanea, un dagherrotipo di quel momento della mia vita e di farlo rispettando i canoni della fotografia, ossia essendo assolutamente verista e sincero. Questa è la ragione per cui ho utilizzato anche un linguaggio piuttosto diretto e semplice nei testi in modo che fossero di comprensibile lettura.
Come Amundsen, parti all’esplorazione di un mondo complesso e sconosciuto: quanto coraggio ci vuole per esplorare se stessi?
La stessa dose che ha avuto un esploratore come Amundsen ad avventurarsi al Polo Sud. Non sempre gli è andata bene ma fa parte del rischio. Dal momento in cui sono entrato in contatto con la sua biografia, mi ha sempre affascinato la figura di Amundsen con le sue imprese e le sue gesta. Ha dedicato tutta la sua vita, le sue ricchezze e le sue risorse alla scoperta di territori ostili e inesplorati fino a morirne, a scomparire misteriosamente tra i ghiacci durante la famosa missione di recupero del dirigibile di Umberto Nobile: da quel momento, di lui non si è saputo più nulla e non si è mai ritrovato il corpo.
Nell’esplorare te stesso qual è l’aspetto che si è rivelato più ostico?
Tutti: paradossalmente il nemico più grande di ognuno di noi è proprio se stesso. Quando si tenta di scavare dentro la propria personalità, capita a un certo punto di incontrare dei blocchi, delle montagne, dei passi da dover superare. E ancora una volta la metafora del gelo, del ghiaccio e della sensazione di freddo, che ritorna un po’ in tutto l’album, mi è tornata utile per descrivere quella sorta di isolamento che ognuno di noi vive per tanti motivi: isolamento emotivo, isolamento dovuto a dei trascorsi che si fa fatica a raccontare e ad affrontare.
Quanto è importante mostrare le proprie vulnerabilità in un momento storico come quello che viviamo che impone a tutti quanti di performare e apparire super vincenti?
È importantissimo. Anche perché in qualche modo io ho sempre sentito la necessità di affrancarmi da quello che canta il coro. La musica di oggi mi dà l’impressione di essere molto omologata, molto simile a qualcosa che già esiste. Ogni settimana ascolto proposte musicali che ricordano già qualcos’altro o che comunque trattano tematiche che sono più o meno le stesse. Quindi, avevo bisogno di fare qualcosa di mio, di unico, che trascendesse da tutte le dinamiche della commercialità, dello streaming o del “pezzo radiofonico” o “tiktokabile”. È giusto che ci sia anche quel tipo di mercato ma, giunto alla mia età e a un certo mio percorso artistico (dopo tante prove, album, musica e canzoni), ho pensato che fosse il caso di provare a far qualcosa che esulasse da determinate logiche.
In Amundsen, la title track, canti “Mi spaventa più il giorno della notte”, un concetto che ritorna più di una volta nel tuo lavoro.
Il giorno è come se fosse la metafora della vita sociale, quella che è sotto gli occhi di tutti, mentre la notte è invece una realtà sociale e culturale alternativa. Mi spaventa più il giorno che la notte perché mi fa meno paura avventurarmi in percorsi e territori sconosciuti, notturni, underground o come vogliamo chiamarli, piuttosto che adeguarmi a quella che è la realtà alla luce del sole, quella che tutti conosciamo.
Una realtà che in Dormi è caratterizzata dai tanti mali del mondo, da quelli più personali a quelli più globali, come ad esempio la guerra, la situazione dei migranti, la politica e via dicendo.
Sono tutte realtà conseguenti a un primo grande male “padre”: la superficialità, l’indifferenza, la poca attenzione e la mancanza di empatia nei confronti di ciò che ci circonda. Si è soliti fare canzoni che parlano sempre delle stesse cose, del rapportino che si incrina o delle solite problematiche. Io ho cercato invece di allargare un pochino il punto di vista: come se fossimo dei piccoli Google Maps, ci allontaniamo dal punto segnato per provare a vedere il tutto nella maniera più globale, nella sua totalità.
Hai appena utilizzato il termine “padre”. Nei testi di Amundsen ci sono dei chiari riferimenti ai tuoi genitori In Roma Est, ad esempio, scrivi “Continuo a crescere con mia madre che non mi riconosce” mentre in Un anno freddo racconti il dolore legato alla perdita di tuo padre. Quanto è difficile mettere nero su bianco determinate situazioni?
Per affrontarle ho dovuto farmi coraggio. Il “mia madre che non mi riconosce” è un palese riferimento alla malattia, grave, che mia madre sta affrontando e che coinvolge un po’ tutta la nostra famiglia: quella piaga dell’Alzheimer. Affligge sempre più persone e famiglie ed è un male che si limita alla persone che ne è affetta ma coinvolge tutti gli affetti che la circondano. Si tratta un vero e proprio dramma familiare che mi sembrava giusto in qualche modo raccontare, indipendentemente della mia esperienza personale.
Un anno freddo, invece, è un brano che ho impiegato anni a realizzare: mio padre è scomparso il 4 aprile di 14 anni fa e ho avuto bisogno dei miei tempi per interiorizzare quello che è accaduto e per cercare le parole giuste, diverse ma semplici, per parlarne. Anche in questo caso, ho raccontato ciò che sentivo togliendo qualsiasi tipo di freno ed essendo sincero.
Scriverne ti ha aiutato a esorcizzare il dolore?
Assolutamente sì. Ma lo è stato anche scrivere tutto il disco, nato fondamentalmente come forma di autoterapia e con l’intenzione di comunicare che a me queste dieci canzoni hanno fatto bene. Vederle messe nero su bianco in qualche modo ha liberato spazio dentro me e liberare spazio vuol dire avere la possibilità di fare ordine. Le canzoni con me hanno funzionato in maniera molto positiva, la mia speranza è che sia d’aiuto anche agli altri e che funzionino allo stesso modo.
Roma, la tua città, torna fuori sia in Roma Est sia in Il suono della città.
Diciamo pure che spesso Roma fa da scenografia alle mie canzoni. Come chiunque vi abiti, ho un legame con la città molto profondo: si è consolidato nel tempo ed è normale che spesso venga fuori, anche se con accezioni diverse. In Roma Est, ad esempio, non parlo di una zona della città ma del grande centro commerciale che vi si trova: le luci di Roma Est sono una metafora dell’inganno delle speranze che vengono puntualmente disattese. Quelle che vediamo in lontananza sembrano astronavi aliene arrivate a salvarci ma si rivelano solo essere le luci di un centro commerciale, la cosa più becera e consumista che possa esistere.
L’amore è il tema invece di tre differenti canzoni. Cos’è per te l’amore?
È sempre qualcosa di sorprendente, sia in positivo che in negativo. È positivo perché non ci si aspetta che possa fare così bene. Ed è negativo perché, nonostante gli anni che passano e le prove affrontate, ancora ci si ritrova a non avere delle regole. “Non ho mai capito niente dell’amore e della gente”, canto in Poi sei arrivata tu… ma forse qualcosa ho in realtà capito: non ho certezze e per questo continuo a scriverne.
Ultima scena è un’istantanea del momento in cui si affronta la separazione da qualcuno. Nasce da un’osservazione che tutti quanti possiamo fare: come possono due persone che prima non si conoscono diventare improvvisamente parte integrante l’una della vita dell’altra e dopo un tot di tempo ritornare nuovamente sconosciute? Se ci pensiamo, è meraviglioso, in tutte le accezioni del termine.
Ultima scena, Freezer e Poi sei arrivata tu sono quasi consequenziali. Freezer è ad esempio la fotografia di quello che accade prima di Ultima scena, racconta il prima dell’abbandono. Ultima scena è l’addio definitivo mentre Poi sei arrivata tu descrive l’arrivo di qualcun altro che dal nulla ti fa cominciare una nuova vita e ti dona nuovo vigore.
E che salva dai giorni no. Giorni no è forse la canzone che l’incipit più doloroso: “Tu che ti vuoi suicidare dal primo piano”…
È la descrizione di tutte quelle persone che non riescono a decidere. Persone che stanno male, come spesso capita a me, ma che non hanno abbastanza coraggio, fortunatamente, di fare un gesto estremo. Era questa la suggestione che volevo restituire.
E tu quando stai male con chi parli?
Con il mio pianoforte. Se lo tieni pulito, con il suo nero riflette anche la tua faccia mentre lo suoni. Non so se riesce a darmi delle risposte ma è il mezzo che mi permette di cercare le trame delle mie storie sia dal punto di vista lessicale che del sound. Le musiche sono altrettanto importanti delle parole per una canzone. Per me, gli elementi che fondano una canzone sono la parola e la melodia: una canzone stupenda con un sound inadeguato perde la sua forza. Il sound è come l’abbigliamento di una persona: così come, quando si va in determinati posti, si deve rispettare un certo dress code, anche una canzone deve avere il suo bell’abito adeguato alle circostanze.
Amundsen si chiude con Fenici. “Vogliamo essere solo fenici per rinascere dai nostri errori”.
Il riferimento è ovviamente all’Araba fenice, l’unico animale che rinasce dalle proprie ceneri, che si è bruciato ma che si rigenera. Così come Amundsen è l’alpha dell’album, Fenici è l’omega, un omega però positivo, di speranza e di rinascita e non di distruzione. Dopo varie tracce che attraversano l’inverno vissuto, in Fenici spuntano i primi germogli della primavera, tanto che è anche il sound è differente dal resto del disco. È come se fosse una letterina dal futuro: siamo disposti a diventare dei numeri o dei semplici algoritmi ma non toglieteci la possibilità di piangere o di ridere, ossia di rimanere esseri umani.
Sei uno dei cantautori, autori e produttori più apprezzati degli ultimi anni. Tuttavia, non ti abbiamo mai visto a Sanremo.
Onestamente, non ci ho mai provato. Non è che non voglia andarci: chissà, magari ci saranno possibilità nei prossimi anni. Mi è capitato già di esserci come autore, chissà che un giorno non vada anche come cantautore.
E come scegli invece i progetti a cui lavorare come produttore? Non immagino certo per il compenso…
Spesso capita che accetta i progetti che mi propongono senza chiedere nulla in cambio. Mi deve convincere l’artista: deve avere qualcosa da dire e quindi mi fa piacere aiutarlo a dirla.
Qual è la sfida più grande che hai affrontato in quel campo?
Ci sono tante sfide. A volte è successo che, per lavori su commissioni, mi è capitato di dover affrontare artisti non preparatissimi. In quel caso, i nodi vengono subito al pettine quando si tratta di farli cantare e registrare.
Che futuro avrà la musica di Amundsen?
Intanto, ci saranno due showcase di presentazione: uno il 1° aprile a Roma, al Monk, e l’altro il 27 aprile a Milano, all’Arci Bellezza. Poi sarò impegnato in tour estivo che mi vedrà girare l’Italia. Le date verranno annunciate presto ma ci sarà possibilità di abbracciare in varie situazioni il pubblico. Non vedo l’ora, dopo la pandemia, di tornare a esibirmi live e di dedicarmi fino in fondo a tutti coloro che mi hanno sostenuto in questo tempo.
Ma la pandemia ha influito sulla lavorazione di Amundsen?
Sì, ma in maniera positiva. Mi ha dato la possibilità di avere molto tempo per realizzare un disco così accurato in cui nulla è lasciato al caso e che in tempi di normale frenesia non avrei potuto fare. La pandemia ci ha fermati tutti quanti e ho potuto affrontare questo viaggione dentro me stesso e dentro la mia musica.