Lepre ha pubblicato il suo primo album da solista, Malato (tichetta-gelato label/Trovarobato – distribuzione The Orchard), contenente dieci tracce che non possono essere etichettate in un unico genere. Si parla d’amore, di dolore e sofferenza, in un mix di melodia che si sposa consapevolmente con la voglia di sperimentare e una scrittura fuori da ogni regola.
Perché Lepre abbia chiamato il suo disco Malato è presto spiegato dallo stesso: “L’idea del malato mi affascina molto. Innanzitutto, ha a che fare con il dolore e io credo che il dolore vada affrontato, esplorato, sdoganato, trattato come un aspetto fondamentale del percorso di ogni individuo. Ci riguarda tutti, non si scappa. La malattia spesso crea una condizione che può comportare isolamento e solitudine, due presupposti della creazione artistica. Che si tratti di una fase passeggera o di una irreversibile, in ogni caso ci si pone di fronte ad una verità che bisogna accettare se ci riesce. Utilizzare l'espressione malato fa anche paura...Può essere pericoloso, può offendere, può ferire, può discriminare, può isolare... È una parola che ha tanti significati e interpretazioni”.
Il percorso delle canzoni che Lepre propone è abbastanza personale, autobiografico. Lo si evince da ogni parola cantata e dalle risposte che Lepre ci ha dato nel corso di quest’intervista, da cui esce un uomo che, superata la fatidica soglia dei quaranta, ha fatto pace con se stesso, con la propria timidezza, i propri errori e forse anche i propri amori. Suonare e cantare è da sempre la sua risposta a una certa sofferenza che ha provato soprattutto durante l’adolescenza, negli anni trascorsi nel vuoto della periferia romana.
Quello che colpisce di Lepre e che non traspare dalle foto che lo ritraggono è un’umiltà fuori dal comune. È come se giocasse sempre in difesa e non in attacco. E il linguaggio calcistico non è una metafora a effetto: Lepre ha anche giocato a calcio in passato. Non ci si stupisca nemmeno della sua preparazione fuori dal comune e non solo musicale: laureato in Lettere e Filosofia, ha persino conseguito un master in Storia ed Economia del Novecento. Il perché ce lo spiegherà lui stesso.
Per chi non lo conosce, Lepre risponde al nome di Lorenzo Lemme, cantante, batterista, percussionista e rumorista che ha studiato musica sin da quando era bambino. E che ha già inciso una ventina di dischi con i gruppi di cui ha fatto parte, dai Box84 a LeSigarette.
Entrate con TheWom.it nel mondo di Lepre.
Intervista esclusiva a Lepre
Come mai hai scelto come nome d’arte Lepre?
Le risposte sono varie. Prima di tutto, non mi andava di usare il mio nome perché non mi piace, non l’ho scelto io. E poi mi andava di usare un nome d’arte per quella che è la mia parte cantautoriale: per me è molto importante, molto mia. Mi piaceva il suono di Lepre: era uno pseudonimo che usavo in adolescenza, nei primi momenti in cui in maniera un po’ scoordinata uscivo dalla mia timidezza, riuscendo a scherzare e a divertirmi.
Pensavo che non usassi il tuo vero nome per non ricordare un certo personaggio venuto fuori qualche anno fa, un farmacista che si chiamava Lemme.
Alberico Lemme, certo. Ancora oggi, per scherzare, quando sono in tour, durante le prove capita che mettano su la canzone che incise per dare uno stop. No, comunque non c’entra nulla.
Lui è un farmacista. Tu sei malato. Perché hai scelto di chiamare Malato il tuo album, come una delle canzoni in esso contenute?
Intanto, perché quel brano era il meno personale dell’intero disco. È venuto fuori in maniera diversa dagli altri: non l’ho scritto io da solo ma con la collaborazione del chitarrista Daniele Borsato. Credo che la diversità con cui è nato si senta anche nel testo: lo avvertivo un po’ più esterno a me. E, forse, proprio per tale ragione Malato è oggi a canzone che in realtà mi parla più adesso. È incredibile come qualcosa che non avverti come tua sia quella che, con la sua distanza, in realtà si avvicini più a te. Parla del cambiamento che può arrivare in qualsiasi momento e in effetti un cambiamento in me ha provocato.
Sono contento di aver scelto Malato come titolo anche per una questione semantica. La parola “malato” racchiude in sé tante connotazioni e, come tale, può anche diventare molto pericolosa, da maneggiare con cura. Ha a che fare con tutta una serie di dinamiche, di questioni spesso difficili da esternare come quelle legate al dolore e alla sofferenza. Tutti quanti siamo malati prima o poi.
Per rimanere quasi in tema, tra i singoli che avevano anticipato l’album c’era Ambulanza. Un bravo che colpisce anche per come “canti” il suono di una sirena.
E pensare che ero titubante sulla sirena… oggi sono in tanti a dirmi che quei versi hanno un qualcosa che cattura e non posso che esserne contento.
Guardando la tua biografia, non può saltare all’occhio il fatto che hai già alle spalle numerosi dischi come musicista, percussore e cantante, con i gruppi di cui hai fatto parte. Malato è però il primo da solista. Cosa ti ha portato una volta superati agli “anta” a volerti mettere in proprio? Sei diventato grande?
Sì, sono diventato grande. In effetti, è vero che se ci guardiamo intorno c’è gente che già a vent’anni ha già inciso il suo primo disco da solista e va avanti come un treno. Io sono invece una persona che si lancia in mille cose ma che è contraddistinta da una grande umiltà mista a insicurezza. Quindi, non mi sentivo pronto, anche se comunque nelle band di cui facevo parte scrivevo e cantavo. Esordire da solista significava gestire tutto da solo e assumersi sulle proprie spalle il peso di tutte le responsabilità, non una cosa da niente.
Ho fatto già una ventina di dischi ma ho davvero la sensazione di essere un ragazzo all’esordio. Il primo album è arrivato adesso perché doveva arrivare adesso.
Non sarà che è arrivato adesso perché hai finalmente fatto pace con tuo marito, per citare una tua canzone? Tuo marito, come canti, è l’altra parte di te stesso, l’altra metà del tuo io.
Si, direi proprio di sì. Dovremmo scendere nella mia vita privata per spiegare quello che significa ma ho decisamente fatto pace con mio marito, con l’altra metà di me, con quel “mezzoscemo”. È un po’ come se tutte le mie parti si fossero un po’ più integrate e messe insieme, una sensazione che non avevo mai davvero provato prima. Era un po’ come se lo dovessi proprio fare.
All’interno dell’album sono presenti due tracce strumentali, Non era colpa tua e Dejà vu. È come se dividessero l’album in due parti e tracciassero una prima e una seconda fine.
Sì e nel vinile si noterà ancora di più la suddivisione. È la prima volta che qualcuno lo nota. Non era colpa tua è come se fosse l’intro di Malato mentre Dejà vu è in realtà la cosa del primo brano del disco. Restituisce la dimensione di un cerchio che si chiude ma riporta anche al brano iniziale, che musicalmente e atmosfera è il mio preferito.
L’una e un quarto, giusto?
Sì, una canzone che mi piace moltissimo. I due brani sono stati suonati insieme e poi suddivisi. Mi piace quest’idea, anche perché in L’una e un quarto c’è come un senso di sospensione, parla di quel momento di pace in cui ti ritrovi a ripensare a delle cose e a mettere un po’ di ordine. La parte strumentale che chiude il disco riporta a quella dimensione: dopo tutti gli spaccati che vengono fuori dagli altri brani, arriva il momento di rimettere ordine con un dejà vu.
Non era colpa tua, invece, è qualcosa che ha preparato Daniele, il chitarrista. Non voleva nemmeno inserirla nel disco perché ha dei tempi un po’ dispari, strani. Ed è da quello che è nata Malato, motivo per cui prima dicevo che era diversa dalle altre come canzone. Lui ha dato origine alla musica e io ho messo le parole, costruendo il brano in due, un po’ come accade nelle band.
Non posso non notare che L’una e un quarto è un brano molto fotografico, cinematografico quasi, con atmosfere a là Rohmer o Truffaut. Raccoglie un attimo dietro cui si cela un’eternità, un’esistenza intera, nell’attesa di quello che verrà… la quiete dopo la tempesta, potremmo definirlo.
Mi ritrovo molto in questa definizione. Tra le tante canzoni, è l’unica che parla di un solo momento. Nelle altre, ci sono un po’ più di salti temporali mentre L’una e un quarto canta di un accadimento unico, di quello che potrebbe essere un quarto d’ora di vita vera, di quei minuti in cui magari una persona si alza dal letto, beve un bicchiere d’acqua, si affaccia alla finestra, fuma una sigaretta e lascia che quel momento di vuoto si riempia di tante altre cose. E, in questo caso, le altre cose di cui si riempie sono le canzoni che verranno dopo.
Nel testo di Mezzoscemo si parla a un certo punto di “eva”, scritto in minuscolo. Potrebbe essere una donna che entra nella tua vita o tante altre cose. Ma perché scritto in minuscolo?
Si parla di una donna ma il nome è scritto di proposito in minuscolo, anche se è quello reale. Non mi piaceva l’idea che si potesse pensare a qualcosa di simbolico (sai, Adamo ed Eva…) ma volevo che il nome fosse comunque presente nel disco, era necessario: tra l’altro, è l’unico nome che c’è. Ma mi serviva per chiudere un cerchio. E poi sono uno disordinato… non bado a certe formalità anche grammaticali.
Qual è il tuo metodo di lavoro, di scrittura?
A me serve molto tempo e ho bisogno di stare in pausa, isolato e un po’ in solitudine per scrivere. Ovviamente, non devo essere in ansia per qualcosa o avere problemi da affrontare. Devo stare da qualche parte in cui mi sento al sicuro: solo così posso mettere mano alle mie idee. Mi definisco un accumulatore di idee: scrivo continuamente, anche male, ovunque, appuntando spunti. Poi arriva il momento in cui bisogna rimetterci mano e sviluppare il tutto con calma. Di considerare se c’è del buon materiale su cui lavorare e a cui dare una forma che mi interessa. Malato è un disco che ho scritto a casa nel momento in cui non avevo molto da lavorare e potevo permettermi di stare tranquillo e calmo.
Ti sei avvicinato alla musica da piccolissimo.
Ero molto piccolo ma è stato un po’ per caso. Ero un bambino forse iperattivo, bello scalmanato… vivevamo davanti a un pratone nella periferia romana ed ero sempre fuori a far mille cose. Un ambiente facile rispetto a chi era un po’ più in difficoltà. Quando andavo a trovar mia cugina, invece, mi ritrovavo a giocare sul cemento: non ne ero capace e, una volta, cadendo mi sono rotto una clavicola.
Ma fu soltanto uno dei tanti incidenti e delle tante rotture fino a quando i miei genitori mi hanno chiesto se avessi voglia di far qualcosa, qualche attività che mi aiutasse nella coordinazione. Non so perché ma scelsi la batteria. Andai in una scuola popolare vicino casa con un insegnante molto bravo. A undici anni sapevo già suonar bene e da lì a poco ho iniziato a far parte di band con i miei coetanei. La mia fortuna, ripensandoci oggi, è stata quella di cadere e rompermi!
In che quartiere di Roma sei cresciuto?
In un piccolo quartiere che si chiama Colle del Sole, che sta in un triangolo un po’ più noto. Una zona niente male a due fermate d’autobus da quella periferia degli anni Ottanta bella tosta. La mia era una periferia poco raccontata, un po’ vuota. C’era tanto spazio ma poi non c’era nulla. Di questo ho cominciato a soffrirne quando ero adolescente, ero lontano da tutto. Sembrava di stare in un mondo molto desolante da un certo punto di vista.
E qual era la tua soluzione, la tua via di fuga?
È stato un periodo un po’ incasinato, come immagino l’adolescenza sia per tutti. Quando ho preso la patente, la mia soluzione era prendere la macchina dei miei e addentrarmi nella città, là dove c’erano tutti i coetanei un po’ più fortunati di me. frequentavo lì il liceo scientifico e tutti i miei amici vivevano da quelle parti, a 20 minuti di macchina, dove c’erano più possibilità. Dovevo in qualche modo compensare il dislivello ma l’ho pagata cara: un paio di volte mi sono addormentato in macchina.
E, poi, ovviamente suonavo. Sembra banale dirlo ma la cosa più potente per me era suonare. E 18 anni forse già cantavo in una band pezzi scritti da me. Cantavo è un parolone… non so come cantavo all’epoca, urlavo.
Da bambino iperattivo e adolescente che soffriva la timidezza, come canti in Mezzoscemo, e la solitudine, come arrivi a prendere una laurea magistrale in Lettere e Filosofia e una specialistica in Storia Contemporanea con un master in Storia ed Economia del Novecento?
Quando ho finito il liceo scientifico, una scuola non collegata direttamente alle materie classiche, sono andato a Bologna per frequentare il Dams e poter studiare discipline musicali. Mi sono però reso subito conto che la vita da fuorisede non faceva per me. Non volevo essere mantenuto dai miei genitori, mi metteva in difficoltà.
Rientravo a Roma dal venerdì alla domenica ma avevo una scusa per farlo. Per spiegarne il motivo devo fare un passo indietro. Nell’adolescenza, è venuto fuori che ero molto bravo a giocare a calcio. A 18 anni, quindi, facevo già il calciatore per lavoro: in pratica, mi pagavano per giocare a calcio. Prima di trasferirmi a Bologna, per avere quei soldi che mi permettevano di non gravare troppo sulla famiglia, mi ero accordato con una squadra di calcio di Roma. Ecco perché tornavo il venerdì per gli allenamenti e andavo via la domenica dopo la partita.
Facendo la spola, però, non riuscivo a trovarmi bene a Bologna. Nel frattempo, ho conosciuto una ragazza che mi ha “deviato” completamente. Mi ha cambiato tantissimo e tra le mille cose che sono successe mi ha permesso di conoscere una storia che la riguardava e che era collegata alla questione dei desaparecidos in Argentina. A 19 anni non sapevo niente di quello che era accaduto.
Mi ha talmente colpito che, una volta deciso di tornare a Roma, mi sono iscritto alla Sapienza, a Lettere e Filosofia. Come primo esame sostenuto, anziché Storia della Musica, ho preferito Storia Contemporanea perché mi interessava capire come si arrivava a certe ingiustizie, ero rimasto legato a quell’ignoranza che volevo assolutamente colmare.
Da allora, ho sostenuto tanti esami di storia. Dopo qualche anno, mi sono ritrovato anche molto impegnato politicamente e sono andato avanti con gli studi sul Novecento. Tutto ciò che ho approfondito è legato agli ultimi 150 anni di storia, compreso il master. Sebbene oggi faccia altro, sono molto felice di aver studiato così tanto: lo considero un regalo che mi sono fatto. Forse anche per questo sono arrivato tardi a questo mio primo disco da solista.
Cosa ti aspetti ora da questo disco?
Sono curioso: voglio vedere che succede. Mi piacerebbe però suonare tanto dal vivo. Capisco che ci vuole tempo ma mi piacerebbe che con calma si spargesse la voce che è un buon disco.
E cosa pretendi invece da te stesso?
Forse un po’ troppo. Ma, oggettivamente, quando si pretende troppo si tiene in conto anche il crollo. Io non ho paura dei crolli. Anzi, a volte è come se andasse a cercare i “fallimenti”, anche se non mi piace la parola. Dagli sbagli, si impara. Quindi, servono a qualcosa, a conoscere i propri limiti. Mi è capitato di recente quello che considero un fallimento. Sono arrivato al MiAmi, una kermesse importante, completamente senza voce per una laringite acuta dovuta a una questione batterica, forse frutto dello stress dei giorni precedenti. Ho tenuto un concerto completamente svociato… ho capito lì che avrei dovuto darmi una calmata, stare tranquillo e prendermi cura di me.
Che relazione hai oggi con l’amore?
Totale, immersiva. Con il tempo, mi sono totalmente arreso all’amore. Mai avrei pensato di poter scrivere “amore” nel testo di una canzone, per me era impossibile. Pensavo: “Che palle! Ma come si fa a parlare di amore in una canzone?”. Malato, invece, è un disco pieno di tutte cose in relazione al dolore e all’amore. Sono io a cuore aperto: sono decisamente un amante.
Sei innamorato in questo momento?
Io sono sempre innamorato. Ci sono dei momenti in cui sono un po’ più calmo e altri in cui mi muovono delle forze che non governo. Però, sono sempre innamorato.