Leyla Martinucci, soprano pugliese trapiantato a Roma, l’11 dicembre porta in scena a Busto Arsizio Il Trovatore di Giuseppe Verdi nei panni di Leonora. Ma non è l’unico impegno che l’attende: il 13 gennaio sarà a Catania al Teatro Bellini nel Requiem, sempre di Verdi. Due impegni non da poco anche per chi come Leyla Martinucci ha esordito su un palcoscenico a dieci anni come Pastorello nella Tosca.
Figlia del tenore Nicola, Leyla Martinucci è cresciuta nel mondo dell’arte. Quando le sue coetanee non sapevano ancora cosa avrebbero fatto da grande, lei non aveva dubbi: nessun piano B all’orizzonte se non quello di dedicarsi al teatro, dal canto alla recitazione. Ma quella non è stata l’unica certezza di Leyla Martinucci: ce ne sono altre che ancora oggi porta avanti. Come, ad esempio, la lotta al sessismo e al patriarcato: l’eliminazione delle differenze di genere è qualcosa che si auspica come tutti noi, consapevole di quanto il patriarcato rappresenti un problema anche per la comunità LGBTQIA+.
Raggiungiamo Leyla Martinucci al telefono per un’intervista che inizia nel segno del suo sorriso. Per pregiudizio, siamo portati a credere che un soprano sia una persona seria, seriosa e, diciamocelo, anche sulle sue. Leyla Martinucci stravolge in un secondo il luogo comune tanto che la nostra conversazione è segnata da risate (tante), ironia e autoironia.
E solo una persona risolta con se stessa può rispondere alla prima delle domande a cui l’ho sottoposta. Chi deve fare un’intervista, per prima cosa si documenta e Google con Leyla Martinucci si mostra più impietoso del solito. I primi risultati di ricerca la danno come “figlia di” o “ex di”, dal momento che in passato ha avuto una relazione con un noto cantante. Ma abbiamo davvero bisogno di definire una donna a partire dal ruolo che occupa al fianco di un uomo? Ovviamente no. Ed è da qui che parte il nostro confronto con Leyla Martinucci.
Intervista esclusiva a Leyla Martinucci
Viviamo in un mondo così patriarcale e sessista che per definire Leyla Martinucci Google restituisce subito dei risultati come “figlia di” o “ex di”. Non ti dà fastidio?
Che io sia figlia di è una realtà incontrovertibile: la definizione non mi urta. Nel caso dell’ex di, invece, un po’ di fastidio lo dà. Non sono ovviamente famosa quanto il mio ex ma solitamente non avviene il contrario: un uomo non viene mai definito in base alle donne con cui è stato. Faccio un lavoro per cui non mi è mai importato stare al centro del gossip: stiamo parlando di una storia che non è finita l’altro ieri ma secoli fa.
Con il tempo, sarebbe dovuta scemare l’attenzione su quell’aspetto privato ma a quanto vedo si continua ancora a insistere sulla relazione, sintomo di come una donna non venga mai valuta per quello che è realmente. Siamo sempre definite in base ai nostri ruoli patriarcali: basta vedere cosa è accaduto a Samantha Cristoforetti. Mentre è in giro per le galassie a fare un mestiere meraviglio per cui pagheremmo tutti, le si chiede a chi ha lasciato i figli. Rispetto a lei, chi sono io per non subire questo trattamento sessista?
Essere figlia di, invece, è un dato di fatto per me, per fortuna o purtroppo. Sono molto orgogliosa della famiglia a cui appartengo e dalla quale provengo perché mi ha formato sia come artista sia come essere umano. Inevitabilmente, me la porto dietro: sarà il mio psicoterapeuta a sciogliere i nodi laddove ce ne siano. Gli ex, invece, una se li è scelti ma poi li ha lasciati.
Ma chi definisce una donna in base a un ex non si preoccupa nemmeno di chiedersi se tutto sia stato pacifico. Non è il tuo caso ma possono esserci delle situazioni per cui una persona vorrebbe dimenticarsi del tutto dell’altro perché sta ancora male nel ricordare il vissuto.
Nei dieci anni che sono intercorsi dalla fine della relazione, non ho mai cavalcato il gossip anche quando avrei potuto farlo. Non mi è mai interessato, non mi interessava all’epoca e non mi interessa ora. Tuttavia, nessuno si è mai chiesto come stessi io, cos’era successo o se volessi parlarne. Non era previsto: bastava solo la sua versione e la sua visione delle cose.
Ed ecco perché oggi vogliamo conoscere Leyla Martinucci, alla vigilia di due importanti appuntamenti che la vedono in scena per quello che è: una soprano che canta in pubblico sin da quando era bambina. Cos’è avvenuto nella tua infanzia che ti ha portato a dieci anni a esordire su un palco?
Sono nata in una famiglia in cui ogni mio compleanno veniva festeggiato in maniera particolare. Compio gli anni a luglio, in un periodo in cui mio padre era quasi sempre impegnato con il lavoro nei teatri all’aperto. Lo accompagnavamo tutti quanti e di conseguenza, da quando ne ho memoria, festeggiavo i compleanni nel backstage delle arene e dei palcoscenici. Ho fotografie che mi ritraggono mentre spengo le candeline con gente ancora in abiti di scena o con sfondi esotici.
Mentre altri vedendo le immagini avrebbero potuto chiedersi dove mi avessero portato o in che famiglia vivessi, io non mi sono mai posta domande: per me era la normalità, ero abituata a spostarmi da un capo all’altro dell’Italia per seguire i miei. Stare in un camerino o nel backstage era normale routine, così come portare l’acqua, l’asciugamano, i fazzolettini, le caramelle o il cucchiaino di miele a mio padre: ero una dei soccorritori ambulanti dietro le quinte!
Cantare, dunque, per me non era strano. Come strano non è stato farlo sul palco: lo facevo a casa, perché non in pubblico? Non ho mai avvertito alcun tipo di disagio. Ero anche abituata a relazionarmi con gli adulti, sono sempre stata in mezzo a loro: non ho frequentato né l’asilo nido né la scuola materna, per me era normale non stare con i miei coetanei. Ero anche figlia unica!
Normale, termine che sto ripetendo all’infinito, è stato anche continuare dopo a far scuola di recitazione, di canto e di danza: ho sempre palesato la mia passione per questo mondo tanto che in famiglia non si sono mai chiesti cosa avessi voluto fare da grande: non ho mai nutrito dubbi.
Non ti sei mai immaginata una vita parallela in cui facevi altro?
In realtà, no. Quando da ragazzina sentivo i miei coetanei chiedersi cosa avrebbero fatto, per me era quasi strano. Gli altri mi guardavano come se fossi un’aliena ma la passione per il teatro a 360° è stata sempre talmente forte da non domandarmi nemmeno se esistesse un’alternativa. Invecchiando, che bel concetto la vecchiaia!, ho cominciato a pensare a un piano: se fossi impossibilitata a fare quello che amo fare, rimarrei comunque nell’ambiente, magari con un progetto dietro le quinte. Bisogna sempre pensare a un piano B: è importante non farsi prendere alla sprovvista.
Forse è questo il motivo per cui ti sei avvicinata anche alla scrittura e alla regia di due opere come Non è un paese per Veggy e Non è la Callas, che liriche in senso stretto non sono per nulla.
Sono spettacoli musicali in cui si unisce prosa, canto lirico e tematiche forti a cui oggi teniamo tanto: l’ambiente e i diritti della comunità LGBTQIA+. Ho scoperto che amo la regia e la prosa qualche anno fa e determinati temi mi stanno veramente a cuore.
Se il primo già nel titolo manifesta le sue intenzioni, per scoprire di cosa parla Non è la Callas bisogna andare oltre.
È una storia molto tenera e delicata. Racconta la vicenda di un tenore che avrebbe voluto nascere soprano perché da sempre sente che la sua vocalità e il suo cuore sono più vicino a quelli femminili. Ha anche il rammarico e il disagio di non essere mai riuscito a fare un vero coming out con i genitori e di aver dovuto fingersi in un’altra maniera anche nella vita quotidiana. Durante lo spettacolo, riesce a svelare tutta la sua gioia e il suo essere cantando arie da soprano: è un po’ particolare sentire Casta Diva cantata da un tenore, no?
Penso che parlare di tematiche queer sia lo stesso che parlare di femminismo e, soprattutto, patriarcato: i problemi, le battaglie e le lotte, sono le stesse. Il patriarcato ha un po’ fregato tutti, c’è chi se n’è accorto e chi no: siamo tutti legati a una serie di preconcetti e di strutture mentali che non ci appartengono ma che abbiamo interiorizzato fino al midollo. Hanno inficiato ogni cosa, dalla più piccola alla più grande, da una passeggiata per strada ai commenti sul web. Basta vedere come le reazioni sessiste e la violenza di genere abbiano avuto un’escalation di rabbia correlata che fa paura.
Parlarne è già qualcosa: fortunatamente oggi si fa più che in passato ma non è mai sufficiente. È tutto così radicato dentro noi che anche quando pensiamo di aver fatto un semplice commento, buttato a caso, non ragioniamo mai sulla matrice più grave che sottintende. Gli effetti del patriarcato si vedono anche sulle stesse donne, soprattutto in quelle che in qualche campo si fanno strada. Sposano a pieno i temi e gli atteggiamenti patriarcali tanto che, umiliando e degradando le altre donne, finiscono per stare al gioco dell’uomo sessista. Pensano forse che così facendo non verranno etichettate come le altre. Ci sono, ahimè, pochissime donne di potere che non si sono piegate a questo tipo d logica.
Ti sei mai sentita dire di essere una raccomandata?
Tutti i giorni. Ma la cosa bella è che solitamente non mi viene detto in faccia ma alle spalle. È capitato anche di ascoltare quando veniva detto. Non era previsto che ascoltassi, ovviamente, ma ho affrontato di persona chi aveva pronunciato quelle parole: “Ma è carino sapere che pensi questo di me, dovresti stare più attenta quando parli ed esprimi dei giudizi: la persona interessata potrebbe sentirti!”. E sì, era una donna in quel caso, credeva con il suo commento di spiccare in mezzo a un gruppo di uomini.
Lo stigma della raccomandazione sulle donne mette in luce un altro aspetto: sembra quasi che non ci meritiamo le posizioni che raggiungiamo. Gli uomini occupano un posto per merito e sacrificio, noi no. O siamo raccomandate o scendiamo a compromessi. Reagite sempre, dico alle giovani donne, non abbassate la testa davanti a un’accusa del genere.
Capisco che è difficile denunciare: è difficile farlo sul posto di lavoro figuriamoci farlo nel privato, dove le tutele sono minori. Non fa figo dire sono vittima di una violenza, parte subito la messa all’indice e la sensazione di essere “sfigate” ma non possiamo permettere che si perpetui in eterno un certo comportamento.
La violenza di genere ci pone davanti a un’altra questione: in Italia, ci si concentra più sul dopo ma occorrerebbe lavorare anche sul prima, sulla prevenzione con una giusta educazione sin dalle scuole. Non dobbiamo aspettare che una donna venga ammazzata per preoccuparcene. La cultura del possesso e dello stupro deve essere annientata già dalla tenera età: è l’emblema dell’oggettivazione del corpo della donna. Così come annullate devono essere le differenze, dai colori ai giocattoli destinati ai bambini, e parificato il linguaggio legato alle professioni: perché dico avvocata non va bene? Solo perché non si è usato come termine in passato non vuol dire che un termine sia degno di meno rispetto del suo corrispettivo maschile.
Sei alla vigilia di due importanti eventi: Il Trovatore e il Requiem. Come ci si prepara per due opere così difficili e complicate?
Studiando. Si studia tanto e si dorme poco: la musica continua a scorrerti in testa. Anche quando chiudi gli occhi, continui a vedere il pentagramma. Cerco anche di contornarmi di persone che mi diano serenità: è vero che è un lavoro che amo follemente ma non dimentichiamoci che tra una cosa e l’altra c’è la vita. Di nervosismo, fortunatamente, ce n’è poco: non sono mai stata nervosa prima di un debutto perché comunque mi preparo in maniera maniacale, ascolto altre canti che si sono cimentate con quell’opera e provo ogni passaggio finché non mi viene alla perfezione.
La preparazione è una parte fondamentale ma poi la magia accade in scena: prima di entrare sul palco, chiudi gli occhi, ti fai il segno della croce e vai, pur sapendo che possono essere un milione i fattori in gioco. Magari non hai dormito la notte, hai il ciclo o hai avuto una litigata furiosa con qualcuno! C’è tutto un pacchetto che durante le prove non puoi prevedere.
L’ascoltare altre cantanti non ti fa avere paura del confronto?
No. Mi serve semmai per capire come avessero affrontato determinati passaggi, che respiri facessero o quando prendessero fiato. Ci sono state cantanti che hanno portato in scena sia il Requiem sia Il Trovatore che sono assolutamente degne di essere ascoltate e ricordate. Anche perché spesso e volentieri ci dimentichiamo anche di chi è venuto prima di noi.
A quali sacrifici ti ha costretto il tuo lavoro?
Nessuno. Il mio è un lavoro che amo fare e come tutti i lavori deve essere fatto con passione. Non è un lavoro snaturante o di vera fatica: non salvo il mondo e nemmeno vite.
Come trascorrerai il Natale?
Cade a cavallo delle due opere e non mi posso permettere grandi giri. Programmerò qualcosa da febbraio in poi: mi chiuderò sicuramente in una struttura termale. Voglio morire lì tra una sauna e un bagno turco! Se qualcuno della mia famiglia legge quest’intervista, accolga la mia richiesta: a Natale sapere cosa regalarmi!