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Lidia Vitale: “La compassione per liberarsi dal patriarcato” – Intervista esclusiva

Lidia Vitale
Lidia Vitale ci offre una visione profonda e appassionata del suo ruolo come Anna nel film Il Vangelo secondo Maria e delle tematiche femministe che attraversano la sua carriera e la sua vita personale.
Nell'articolo:

Interpretare Anna, la madre di Maria, in Il Vangelo secondo Maria, il film Sky Original diretto da Paolo Zucca nei cinema con Vision Distribution dal 23 maggio, ha permesso a Lidia Vitale di esplorare e rappresentare in scena le dinamiche del patriarcato. Anna, nel relazionarsi con la figlia Maria, impersonata da Benedetta Porcaroli, incarna tutte quelle donne che hanno interiorizzato e perpetuato i modelli di controllo maschile. Una conseguenza di anni di patriarcato che Lidia Vitale ha sperimentato sulla sua pelle e che oggi la porta a esporsi in prima linea, senza temere etichette come quelle che la vogliono “matta” per non stare in silenzio.

Il libero arbitrio e l'autodeterminazione femminile sono temi centrali sia nel film (tratto dall’omonimo romanzo di Barbara Alberti) che nella vita di Lidia Vitale. Parlando di questi argomenti, Lidia Vitale ci tiene sin da subito a sottolineare l'importanza della compassione per entrambe le parti, uomini e donne, poiché sono entrambe a essere vittime di modelli patriarcali secolari.

Nel corso della nostra conversazione, sempre sincera e mai banale, Lidia Vitale riflette su come il suo percorso di autodeterminazione sia stato lungo e doloroso. Ha impiegato ad esempio vent'anni per liberarsi dai "sorrisi di consenso", una forma di sottomissione al patriarcato che aveva interiorizzato. Questo percorso, tuttora in evoluzione, l'ha portata a lavorare costantemente su se stessa per liberarsi dai propri limiti e pregiudizi, giovandone anche da un punto di vista professionale.

Perché Lidia Vitale crede fermamente nell'empowerment femminile e nel potere dell'arte di sensibilizzare e ispirare cambiamenti sociali.

Lidia Vitale (Foto: Azzurra Primavera; Press: Storyfinders).
Lidia Vitale (Foto: Azzurra Primavera; Press: Storyfinders).

Intervista esclusiva a Lidia Vitale

In Il Vangelo secondo Maria, interpreti Anna, la madre di Maria. Chi è dal tuo punto di vista?

È l’incarnazione del patriarcato. Come al solito, a me che mi batto costantemente su questo tema capita di interpretare in scena tutte quelle donne che l’hanno proiettato per via del controllo esercitato dall’uomo. E, secondo me, c’è anche una spiegazione logica per cui vengo scelta: solo chi l’ha esplorato a fondo ha poi la capacità di mettere in scena in maniera integra e senza pregiudizio una donna che ha assorbito tutto ciò che il patriarcato ha imposto esercitandolo su altre donne.

È un argomento abbastanza complesso che tutti quanti dovremmo affrontare partendo dalla stessa base comune per capirci: ci vuole un sacco di compassione sia per noi donne sia per gli uomini perché siamo tutti vittime di modelli che vengono dai secoli dei secoli. E compassione vuol dire “imparare a sentire con” e non contro: non è una guerra per cui ci sarà un vincitore. Dobbiamo, quindi, tutti quanti a tirare fuori la voce in maniera organica e a ragionare anche su quei piccoli comportamenti che mettiamo in atto anche senza accorgercene, anche con il solo linguaggio: anche quello dovrebbe essere condiviso senza giustificarsi con la libertà di pensiero. Ricordiamoci sempre che la libertà è tale fino a quando non mina quella dell’altro e ha a che fare con la scelta individuale.

Dobbiamo capire che è una questione di empatia e di crescita comune. Non è una guerra tra sessi, ma un cammino verso una maggiore comprensione e rispetto reciproco. Ogni volta che affronto questi temi, sia nella vita che nel lavoro, cerco di farlo con la massima sincerità e integrità.

Proprio la scelta è il tema del film Il Vangelo secondo Maria. Sei mai stata libera di scegliere ciò che volevi, sia come donna che come attrice?

Personalmente, me lo sono imposto. Ciò, però, non toglie che abbia dovuto lavorare su me stessa per liberarmi da quei limiti e pregiudizi, anche nei confronti delle altre donne, che avevo introiettato. Ho impiegato vent'anni a rinunciare ai sorrisi di consenso. I miei “signor sì”, il mio acconsentire e il mio abbassare la testa si equivalevano forse a un blowjob concesso come forma di sottomissione al punto da pensare che tra i due sia il secondo a meritare maggior rispetto perché almeno implica uno sforzo.

È stato un processo lungo e doloroso, ma necessario. Mi sono imposta di essere libera nelle mie scelte, sia come donna che come attrice. Questo non significa che non abbia incontrato ostacoli o che non continui a farlo, ma sono sempre più consapevole dei miei diritti e delle mie capacità.

Cosa ti ha spinto a cambiare e a combattere questi limiti?

È stato il lavoro costante su me stessa. Ho l'esigenza di esprimermi liberamente e questo mi ha portato a liberarmi sempre di più come essere umano. Più mi libero, più posso dare verità ai miei personaggi. Credo che l'arte e la recitazione siano strumenti potenti per esplorare e superare i propri limiti: volevo essere libera nelle mie interpretazioni e di essere anche cattiva fino in fondo in scena. E per accedere a quello avrei dovuto essere libera prima di tutto io come essere umano. Lo reputo un percorso di crescita, continua.

Questo processo di crescita viene spesso visto come un gesto di ribellione. Ti sei mai sentita definita dagli altri ribelle per questo?

Ribelle sarebbe un complimento, spesso mi definiscono matta. Ma io correggo sempre, dicendo che sono libera, non matta. Di mezzo, c’è una sostanziale differenza: la matta ha perso il raziocinio, la libera lo ha guadagnato. Se fossi vissuta nel Medioevo, avrebbe finito con il mandarmi al rogo… non è cambiato molto da allora: la società tende sempre a etichettare come ribelle o matta chiunque cerchi di uscire dai confini stabiliti. Ma, per me, essere libera significa essere consapevole e responsabile delle proprie scelte. Ogni volta che qualcuno mi dice "sei matta", io rispondo "no, sono libera". Questo è un piccolo ma importante atto di autodeterminazione.

Sono più uomini o donne a dirtelo?

Sposo in pieno il pensiero di Michela Murgia, che aveva pienamente ragione nel sostenere che anche le donne hanno introiettato il patriarcato, la cosa più difficile da cui ripulirsi.

Hai lavorato sia in Ti mangio il cuore sia in Il Vangelo secondo Maria con giovani donne di nuova generazione come Elodie e Benedetta Porcaroli. Credi che queste abbiano una visione più fluida rispetto a certi temi?

Penso che la loro generazione, la stessa di mia figlia, abbiano ancora molto lavoro da fare, è forse la generazione successiva a essere più fluida su certi temi. Ma, finché la situazione non si risolve alla radice, noi più adulti dobbiamo continuare a lavorare anche su noi stessi per spezzare le catene insieme per far sì che i giovani siano più consapevoli delle dinamiche di genere e sono più propense a sfidare le norme tradizionali. Tuttavia, c'è ancora un lungo cammino da percorrere. E, ripeto, insieme: non è una battaglia delle donne contro gli uomini. Anche perché a me le battaglie non piacciono: preferisco stare distese su un prato verde a godermi il sole.

Le istituzioni sembrano spesso sottovalutare certe questioni. Cosa ne pensi?

Che c’è anche qualcosa di positivo all’orizzonte. Sono stati fatti passi avanti negli anni e non è più una questione di destra o di sinistra: la commissione parlamentare contro la violenza di genere non ha ad esempio colore politico. È un segno positivo, ma c'è ancora tanto lavoro da fare. Le istituzioni devono prendere una posizione più forte e attiva su questi temi. È necessario un cambiamento culturale profondo, che coinvolga tutte le parti della società.

Solo così possiamo sperare di vedere veri progressi, soprattutto quando parliamo della piaga delle violenze domestiche. Non è mai possibile che a perdere la propria libertà sia chi denuncia ottenendo il trasferimento in una casa-famiglia e non chi abusa, così come non è mai possibile che si metta in discussione la verità dei fatti di chi denuncia chiedendo prove o testimoni.

Fatta eccezione per alcuni casi, che motivo ci sarebbe se non fosse vero di sporre denuncia? Chi lo fa è perché quel fatto è realmente accaduto e far sì che si correggano determinati comportamenti. Per sé e per le altre.

Lidia Vitale nel film Il Vangelo secondo Maria.
Lidia Vitale nel film Il Vangelo secondo Maria.

Parlando del tuo lavoro da attrice, nei set cinematografici è stata introdotta la figura del coordinatore dell'intimità per evitare quelle che vengono con un eufemismo chiamate “situazioni sconvenienti”, simili a quelle raccontate a Cannes dal film Maria. Pensi che sia un primo passo utile?

Sì, è utile perché è una terza parte non coinvolta direttamente che può mediare. Per esempio, oggi una situazione come quella di Maria Schneider non succederebbe con un coordinatore dell'intimità: non strizzerebbe di certo l’occhio al regista per prendere il burro. Ricordo perfettamente le dichiarazioni di qualche tempo fa di Bertolucci, “Chiedo scusa ma non ho rimpianti”: un’affermazione fortissima che non teneva conto della sofferenza causata da un suo gesto su una donna che non si è mai ripresa.

Secondo te, è meglio che questa figura sia un uomo o una donna?

Preferirei che ci fossero anche figure maschili, per mostrare che anche dall'altra parte c'è una crescente consapevolezza. Al momento, la maggior parte dei coordinatori dell'intimità sono donne, il che è comprensibile dato il contesto storico. Tuttavia, la presenza di uomini in questo ruolo mostrerebbe un vero progresso nella comprensione e nel rispetto delle dinamiche di genere. Sarebbe un segnale positivo di cambiamento e di inclusività, altrimenti saremmo punto e a capo. E aiuterebbe anche le stesse coordinatrici fossero del tutto libere dai loro blocchi interiori e da quelle vocine che lo ricordano cosa ha introiettato.

Hai tu smesso di sentire quelle vocine?

Le sento tutti i giorni ma ormai mi sono allenata a zittirle. È inutile che dica di non sentirle, sarebbe una bugia e non sarei del tutto onesta. Sono consapevole che esistono ma, quando arrivano, non molta gentilezza rispondo “no, grazie” e scelgo di andare da un’altra parte. È un esercizio tecnico di bioenergetica.

Da quando Lidia Vitale ha imparato a essere autodeterminata?

Da quando ho incontrato il buddismo. È lo strumento che più di qualsiasi altro mi ha educato a essere responsabile della mia vita e dei miei limiti, e anche di come desidero vivere. Il buddismo mi ha dato gli strumenti per lavorare su me stessa in modo continuo e profondo. Mi ha insegnato a essere resiliente per andare nella direzione che desidero e come desidero. Ma, come dicevo prima, anche questo è un processo di continua evoluzione, un percorso di crescita a cui sono andata incontro e che mi ha aiutato a diventare la persona e l'attrice che sono oggi.

Quando hai capito che la versione di te stessa come donna e attrice era quella giusta?

Sto iniziando a capire ora, nei miei 50 anni, che sto andando nella direzione che desidero. Ed è questo che mi ha portata a dire “Manifestiamone i frutti, godiamocene i benefici e assumiamoci la responsabilità di affrontare anche determinati temi esponendoci”. È un processo continuo di evoluzione e responsabilità che mi ha spinta ad aprire ancora di più questo tipo di conversazioni come la nostra nell’ambiente di lavoro e ad avere meno paura nel farlo, anche se il grado di difficoltà si alza sempre di più.

E a che livello sei arrivata?

Ne ho ancora molti da superare. Sarà anche per questo che gioco a Candy Crush: stacco la testa ma allo stesso tempo mi ricordo che, superato un livello, ce n’è un altro da affrontare per andare avanti. Più vado avanti con la carriera, più aumenta in me il desiderio di impegno civile per rendere consapevoli anche gli altri attraverso l’opera filmica: per me l’arte ha sempre questo potere. Basta vedere cosa hanno fatto quest’anno film come Barbie di Greta Gerwig o C’è ancora domani di Paola Cortellesi: hanno creato discussione e ridato centralità alla questione. E, nel caso del film di Cortellesi, perché dietro c’erano cuore e onestà: ha preso il tema come missione senza strumentalizzarlo e non poteva, anche attraverso la semplicità (non servono i pipponi), non ottenere quel riscontro per quanto era sentito ed esplorato.

Tanto impegno ed esposizione non ha ripercussioni sul tuo lavoro?

Ma ‘sti cavoli!. Ho 50 anni: se non vivo veramente la mia vita come voglio adesso quando dovrei farlo? Quando avviene, cambio interlocutore: ci sarà qualcuno che comprende e condivide il mio pensiero. Dico sempre che non mi chiamo ‘pizza’: non posso piacere a tutti. Di certo, è faticoso e a volte capisco anche chi preferisce il silenzio perché ci vuole coraggio a parlare. Sento anch’io la paura tutte le volte che ne parlo ma se vogliamo portiamo un cambiamento qualcuno deve pur sempre iniziare.

Vangelo secondo Maria: Le foto del film

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È stato facile calarti nei panni di Anna?

È sempre doloroso calarsi in certi panni perché significa andare a ricercare in te determinate ferite: per replicarle, devi averle sentite ed è da quelle che devi partire.

Non si rischia così che rimangano sempre aperte?

Ma è il mio lavoro. Mi pagano per renderle sempre sanguinanti. Un operaio prende i soldi che prendo io? Ovviamente no, quindi qualcosa in gioco dovrò pur metterla per onorare il mio lavoro: ho quantomeno il dovere di soffrire delle piaghe dell’umanità e portarle in scena. Se con quelle riesco a toccare anche una sola persona e aprile gli occhi, avrò già vinto. E, quindi, mi pagano per tenere aperta la ferita e giocarci.

E quella ferita continua poi a tormentarti quando torni a casa?

No, non mi tormenta più perché l’ho passata al personaggio. E questo è un altro grande privilegio del mio lavoro.

Quali altri progetti ti attendono?

Sto lavorando alla serie tv Mrs Playmen, una storia di empowerment femminile con Carolina Crescentini nei panni di Adelina Tattilo (la tenace e coraggiosa donna a capo di Playmen, la risposta tutta italiana a Playboy negli anni Sessanta e Settanta, ndr) e a un film americano Death Do Us Part, ambientato nel Medioevo. Entrambi i progetti riflettono temi di autodeterminazione e liberazione. Il primo progetto è una storia molto intensa e coinvolgente, che esplora le sfide e le vittorie delle donne nella società contemporanea. Il secondo progetto è una black comedy ambientata nel 1200, che racconta la storia di una giovane donna che vuole diventare medico in un'epoca in cui le donne erano costrette a sposarsi o a farsi suore.

Sono entrambi progetti che mi appassionano molto e che spero possano contribuire a portare avanti il discorso sull'empowerment femminile… ripensando a quanto detto prima, sicuramente nel Medioevo sarei finita al rogo come strega o, non accettando un matrimonio combinato, a gestire un bordello: godereccia quale sono, non avrei mai potuto farmi suora!

Lidia Vitale (Foto: Azzurra Primavera; Press: Storyfinders).
Lidia Vitale (Foto: Azzurra Primavera; Press: Storyfinders).
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