Life is (not) a Game, il film di Antonio Valerio Spera, non è un documentario sulla street artist Laika ma è qualcosa di più: è il racconto degli ultimi due anni di storia, non solo italiana, vista attraverso gli occhi di Laika. Prodotto da Morel Film e Salon Indien Films, è presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione FreeStyle e promette di far rumore non solo a livello nazionale.
La figura di Laika, “attacchina” (come lei stessa si definisce) in maschera, ha fatto il giro del mondo grazie ai suoi poster, murales e installazioni, sempre attente a tematiche sociali, civili e politiche. Il suo sguardo, sebbene anonimo e ribelle, è dotato di un’ironia e di una presa di coscienza fuori dal comune. In piena epoca CoVid, mentre il mondo era chiuso, l’arte di Laika è esplosa. Dalla sua Roma, è finita sulle prime pagine del Wasghington Post ma anche tra i servizi della BBC, senza dimenticare lo spazio che anche i nostri tg, a cominciare dal TG1, le hanno dedicato.
Fugace, furtiva e inscrutabile, nelle sue opere, ben piazzate con blitz notturni da occhi di gatto, Laika ha trasferito il suo senso dell’ironia e tutta la sua umanità, rivelando come dietro al personaggio si nasconda un’umanità che dovrebbe essere universale e non particolare. E Life is (not) a Game ha un momento particolarmente delicato in cui Laika smette di essere una street artist e diventa una donna fortemente impegnata e fragilmente umana: accade in Bosnia, dove si reca per incontrare da vicino i migranti che, percorrendo la rotta balcanica, sperano in un approdo nella civile Europa occidentale. Un approdo che invece si rivela doloroso, disumano e fuori da ogni logica inclusiva.
Di Life is (not) a Game abbiamo voluto parlare con il regista Antonio Valerio Spera, per conoscerne difficoltà realizzative e scelte di racconto. Ma non ci siamo limitati a quello: abbiamo anche voluto “incontrare” Laika per una pagina di approfondimento più unica che rara in cui la street artist ci racconta il suo punto di vista, ci spiega le motivazioni che la spingono ad agire e ci rivela molto di sé, pur sempre dietro la sua voce modificata, la sua maschera bianca, la sua parrucca rossa e la sua tuta da lavoro. E ancora una volta ci appare come quella vendicatrice mascherata di diritti civili, sociali e politici, di cui si vorrebbe avere meno bisogno ma di cui, purtroppo, si necessita oggi più che mai.
Per ragioni di leggibilità, le due interviste sono state separate. Ma sono entrambe indispensabili per capire sia Laika sia Life is (not) a Game.
Intervista esclusiva al regista ANTONIO VALERIO SPERA
Life is (not) a Game non è un documentario biografico su Laika. È semmai il racconto di due anni della vita di Laika, due anni in cui si osserva il mondo attraverso il suo punto di vista. Sono due anni molto particolari, che partono dall’emergenza coronavirus e arrivano fino allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina. Qual era l’esigenza di fondo nel realizzare un film di questo tipo?
Tutto parte dal personaggio di Laika. All’inizio doveva essere un documentario classico, biografico su di lei. Ma poi la storia ha preso il sopravvento e ci ha travolto tutti. Nonostante i due anni di difficoltà, Laika, questa artista particolarissima, anonima e mascherata, ha continuato a raccontare la Storia mentre si faceva. Ciò mi ha spinto a voler cambiare prospettiva sul film e a dedicarmi agli eventi in corso visti attraverso i suoi occhi: le sue opere erano un racconto in diretta di quanto stava accadendo.
È cambiato inevitabilmente il progetto che avevo in mente. Avevo girato ore e ore di intervista in cui Laika si raccontava ma c’era qualcosa che non mi convinceva. L’intervista dà sempre l’idea che l’intervistato sia in qualche modo “impostato” e, se a ciò aggiungiamo le difficoltà legate alla maschera, il risultato era quasi asettico, senza un minimo di emozione. Non era quello che volevo.
Vedere il mondo attraverso gli occhi di Laika per lo spettatore è quasi un paradosso dal momento che gli occhi sono uno dei dettagli fisici dell’artista che non vediamo mai, sempre celati dalla maschera.
La maschera per Laika è un filtro che le permette di celare la donna che si nasconde sotto. Ed è un filtro necessario affinché possa mettere in atto la sua rappresentazione catartica e ironica di denuncia della realtà dei fatti legati all’attualità. Senza quel filtro, non avremmo mai il risultato che ha invece ottenuto.
Ma quanto la maschera ha reso difficile le riprese del film?
Sono state molto difficili non tanto per la maschera in sé quanto per il suo modo di lavorare. Da artista, geniale e simpaticissima, ha un lavoro con dei tempi particolari: a volte, ci avvertiva appena un’ora prima dei suoi blitz notturni. Bisognava sempre essere pronti per le riprese, anche di punto in bianco. Come si può capire, non siamo riusciti a riprendere tutti i blitz perché, banalmente, non c’eravamo, eravamo in viaggio o impegnati in altro.
Il coronavirus non ha poi facilitato le cose.
Non ci si poteva muovere liberamente durante il lockdown o con le restrizioni in vigore. Ma anche le riprese nello studio di Laika non sono state facili da un punto di vista logistico. Laika è abituata a lavorare nel suo studio senza maschera ma ciò ci impediva di riprenderla. L’abbiamo dunque costretta a muoversi con la maschera indosso quando si poteva mentre altre volte ci siamo dovuti adattare noi scegliendo un diverso punto di osservazione.
Tuttavia, la parte più complicata delle riprese è quella relativa alla Bosnia e ai campi migranti.
Lo è stata per tanti motivi. Da un punto di vista tecnico, il bianco della neve era difficile da gestire con le camere. Da un punto di vista emotivo, chiaramente, la difficoltà maggiore era legata alla realtà che avevamo davanti agli occhi. Spesso ci faceva sentire in imbarazzo tirare fuori una telecamera e riprendere quegli attimi di vita così drammatica e tragica.
Immagino che non sia stato facile relazionarsi con tutto quel dolore e toccare con mano le sofferenze vissute dai migranti sulla loro pelle. Così come immagino che non sia stato semplice spostarsi da un punto di vista burocratico con una persona che si muove in maschera.
Come ben si vede in Life is (not) a Game, in Bosnia Laika abbandona la maschera sul sedile. I migranti sono tra i pochi che hanno potuto guardarla in faccia: era sì coperta da qualcosa ma era solo una mascherina FFP2.
Curiosa l’implicazione filosofica del gesto: Laika è diventata visibile agli occhi degli invisibili.
Laika era lì per rendere più visibili quegli invisibili: è interessante la tua annotazione ma dovremmo chiedere a lei il motivo del gesto. Sicuramente presentarsi con una maschera di fronte a delle persone che stanno vivendo una tragedia poteva risultare anche una mancanza di rispetto. In quel momento, avrà preferito mettere da parte la sua anima ludica.
Invisibili è una parola con cui ci relazioniamo sin dai titoli di testa del film, con una citazione da Le città invisibili di Italo Calvino.
È uno dei libri preferiti di Laika. Quella citazione è interessante per il concetto che esprime: osservare le cose da una giusta distanza per poterle comprendere meglio. È quella frase che ispira il mantra di Laika: puntare allo spazio, un po’ come la cagnolina sovietica, da dove si può guardare il mondo dalla giusta distanza. Da questo punto di vista, è interessante come Laika si è comportata in Bosnia: non è rimasta distaccata come accade in Italia ma ha deciso di immergersi in quella realtà. Dopo un’esperienza così forte, per lei come per tutti, ha poi ritrovato il giusto distacco che l’ha portata alla denuncia fatta a Francoforte sul futuro.
Denuncia sul futuro che la vede per la prima volta portarsi la “parete” da casa.
È un’installazione: un ottotipo che Laika ha costruito nel suo studio e ha portato davanti all’Euro Statue. È stato un bel momento ma con lei abbiamo vissuto attimi belli, adrenalinici, emozionanti. Laika mi ha fatto passare due anni e mezzo veramente elettrizzanti.
Life is (not) a Game può essere considerato un film politico: ha una chiara presa di posizione rispetto a determinati temi.
È un film politico. Laika è un’artista politica per cui quando si decide di raccontarne lo sguardo il risultato è inevitabilmente politico. Laika ha un suo punto di vista, giusto per alcuni e sbagliato per altri. Condivisibile o non condivisibile, è il suo punto di vista e io volevo raccontarlo senza censure. Ci sono anche delle opere su cui io e lei la pensiamo in maniera leggermente diversa e su cui abbiamo da amici discusso. Ci siamo confrontati su tante cose ma ho sempre puntato al rispetto del suo punto di vista, della sua ideologia, dei suoi desideri e delle sue idee. Ho voluto rispettarla come persona e come personaggio.
Quindi, il film è politico nell’accezione più nobile del termine: politico vuol dire sociale e civile, umano. Laika è un personaggio ricco di umanità. Si può non condividere il punto di vista delle sue opere ma non si può non ammettere che siano opere piene di umanità.
Hai incontrato delle difficoltà a livello produttivo?
Quando in Italia ho proposto il documentario su Laika, l’unica persona che mi ha risposto in maniera convinta è stato Alessandro Greco, produttore figlio del grande regista Emidio. Con la sua Morel Film qualche anno fa aveva realizzato il bellissimo Punta sacra di Francesca Mazzoleni, candidato anche al David di Donatello. Aveva visto solo delle immagini che avevo cominciato a girare in maniera autonoma e non ha mai avuto dubbi. Puntando poi sulla forza internazionale di Laika, ho poi preso contatti con una società spagnola, Salon Indien Films, il cui produttore Pablo de la Chica ha aderito senza tentennamenti al progetto.
Il film comincia e finisce al confine tra la Polonia e l’Ucraina. Quanto è stato importante parlare della guerra russo-ucraina?
Era inevitabile che si parlasse anche della guerra, è un tema d’attualità come tutti quelli di cui si occupa Laika. Si tratta di una situazione delicata, è il nostro presente. Non abbiamo però potuto fare delle riprese del conflitto: non siamo potuti entrare in Ucraina e, di conseguenza, non abbiamo voluto inserire qualcosa che non avevamo. Siamo rimasti in Polonia, dove Laika ha realizzato un’opera che non è proprio sulla guerra ma sul come l’Europa tratta la questione dei rifugiati. La perfetta macchina organizzativa dell’accoglienza dei profughi ucraini, sacrosanta, non rispecchia quelle che sono le politiche europee adottate finora sui migranti, quasi sempre respingenti. L’obiettivo dell’opera era la denuncia della disparità di trattamento. Basti pensare che anche in Polonia tutti coloro che arrivavano al confine come rifugiati e non erano ucraini non venivano fatti entrare.
Sono queste le questioni di cui si dovrebbe parlare sulle prime pagine dei giornali. Bisognava fare qualcosa affinché ci arrivassero, un po’ come fatto con il caso di Patrick Zaki. Prima dell’opera di Laika, il caso Zaki era solo una vicenda riportata nei trafiletti della cronaca bolognese.
Un aspetto interessante di Life is (not) a Game è dato dall’uso della musica originale e non. Spesso nei documentari la musica strumentale risulta pomposa ma non è questo il caso. In più, sono presenti tre canzoni che restituiscono una dimensione speciale al racconto: Easy Lady di Ivana Spagna, Il mondo di Jimmy Fontana e l’inedito Less Yellow (Migrant Song) dei The Haunting Dogs.
Era a musica che volevo e che fortunatamente il produttore è riuscito ad avere. Easy Lady rispecchia l’anima giocosa di Laika, presente nel primo tempo.
Il mondo, invece, è una delle canzoni più incise al mondo: ho optato per la versione originale di Jimmy Fontana perché la reputo senza tempo. È nella sequenza in cui Laika si reca a Francoforte per un’installazione davanti all’Euro Statue: la scena è stata girata pensando al modo di dimenticare il tempo di Laika. Casualmente, la canzone era passata in radio qualche minuto dopo che Laika ci aveva informati dell’operazione.
I The Haunting Dogs hanno poi composto un pezzo originale: forse è la prima volta che una canzone viene composta appositamente per un documentario.
Life is (not) a Game è il tuo primo film.
Sono sincero: pensavo di cominciare con un progetto che sulla carta era facile. Ma poi è diventato pian piano sempre più difficile. Ma se il film è venuto bene il merito è anche del direttore della fotografia Vincenzo Farenza, della sceneggiatrice Daniela Ceselli che ha messo ordine in quel marasma di tematiche avevamo a disposizione, del montatore Matteo Serman che ha fatto un lavoro clamoroso su 70 ore di girato e del compositore Lorenzo Tomio.