Per Liliana Bottone, giovane attrice napoletana, questo è un momento particolarmente fortunato. L’abbiamo appena vista nella serie tv I bastardi di Pizzofalcone e nel film Nata per te. La vedremo prossimamente anche in Inganno, la serie tv che Pappi Corsicato ha girato per Netflix con Monica Guerritore e Giacomo Giannotti. E da giovedì 22 novembre Liliana Bottone sarà al cinema al fianco di Antonio Albanese nel bel film Cento domeniche, prodotto da Palomar e Leo, in collaborazione con Vision Distribution, Prime Video e Sky.
In Cento domeniche, Liliana Bottone interpreta il personaggio di Emilia, la figlia del protagonista Antonio Riva, impersonato dallo stesso Albanese, che del film è anche regista e sceneggiatore (insieme a Piero Guerrera). Ex operaio di un cantiere nautico, Antonio conduce un’esistenza mite e tranquilla, fatta di amici con cui giocare a bocce, una madre anziana di cui prendersi cura, un’ex moglie con cui ha ottimi rapporti e una figlia, Emilia, che gli annuncia il suo proposito di sposarsi con il fidanzato.
Antonio non potrebbe essere più contento. Ma il condizionale è d’obbligo: per regalare alla figlia quel ricevimento che ha sempre sognato, vorrebbe accedere ai suoi risparmi in banca. Un’azione semplice che diventa kafkiana nel momento in cui tutti i dipendenti e lo stesso direttore della sua agenzia cominciano a paventargli mille ostacoli davanti. “Immaginate da un giorno all’altro che tutto quello che avete costruito con sacrificio nell’arco della vostra vita vi venga portato via”, ha spiegato Albanese. “E che assieme ai vostri beni spariscano anche la vostra serenità e la capacità di guardare al futuro con fiducia. Immaginate che a quel punto l’affetto e il conforto di chi vi vuole bene non sia più sufficiente a reggere l’onda d’urto della vergogna. Perché di quel mostruoso raggiro, ingiustamente, vi sentite anche responsabili. Questo è quello che capita ad Antonio Riva”.
Di Cento domeniche, del personaggio di Emilia ma anche di sogni, fiducia e tradimento, abbiamo parlato nella nostra intervista con Liliana Bottone. Ne è venuta fuori una conversazione inattesa sul suo essere una giovane donna, chiamata a superare le proprie insicurezze per trovare il suo posto nel mondo. Una conversazione di cui la parola chiave è sincerità, a tratti anche disarmante. Sincero è ad esempio il suo racconto di un’adolescenza vissuta dedicandosi solo alla studio e perdendosi la vita o le relazioni che nel frattempo le passavano accanto. Ma anche quello in cui ripercorre com’è cambiato il suo rapporto con i genitori.
Intervista esclusiva a Liliana Bottone
Quando sento Liliana Bottone sta per andare in onda la puntata della serie tv I Bastardi di Pizzofalcone 4, la cui ha preso parte. “È strano perché passa sempre molto tempo da quando finisci di girare qualcosa: l’attesa è alle stelle ma, pian piano, cerchi di calmarti e tranquillizzarti. Quando, poi, arriva il momento di vederla in tv o al cinema, devi cercare di ricollegarti a quanto hai provato sul set: è come se vivessi in una dimensione spazio-temporale incerta. Da parte mia, il timore è di ritrovarmi a guardare qualcosa di cui non mi sento soddisfatta o di notare qualcosa di sbagliato che mi porta a dire che devo fare di meglio. In più, ricerco anche il feedback di persone che conosco, dagli amici ai familiari, per sapere loro cosa ne pensano”.
Sei ipercritica nei tuoi confronti?
Sì, ma in maniera pensante: lo sono anche a livello privato e non solo professionale.
Ti sei già rivista in Cento domeniche, il film di Antonio Albanese in arrivo nelle sale giovedì 22?
Una sola volta, durante la Festa del Cinema di Roma: Antonio Albanese non ha voluto fare anteprime riservate per gli attori. L’abbiamo dunque tutti visto in sala con lui ed è stato molto emozionante: c’era anche il pubblico con noi. Anche in questo caso, l’attesa è stata lunghissima, oltre un anno e mezzo. Quando sono partiti i titoli di testa, mi sono chiesta se stesse succedendo davvero. E, ancora una volta, la mia preoccupazione era alle stesse: di tutta quella giornata assurda vissuta al Festival, vedermi sullo schermo era la sola cosa che mi preoccupava.
Beh, è comunque strano. Dovresti oramai avere una certa dimestichezza con il lavoro che fai…
Ma è sempre diverso: cambiano le storie, cambiano i registi e anche tu cambi. Io mi sento costantemente in formazione dal punto di vista professionale: sono cambiata e sto cambiando tanto perché continuo ancora a studiare. Di conseguenza, io stessa mi percepisco diversa come attrice ed è quello che porta a chiedermi come ho lavorato in precedenza.
Detto tra noi, mi sembra che per Cento domeniche hai fatto un gran bel lavoro. Innanzitutto, perché hai preso parte a una storia che, urgente e necessaria, potremmo vivere tutti noi senza nemmeno percepirne o capirne i segnali.
È l’aspetto più spaventoso del film: racconta di una vicenda che in maniera improvvisa e devastante può colpire tutti coloro che a occhi chiusi si fidano e fanno affidamento su qualcun altro per poi ritrovarsi a essere totalmente presi in giro.
In Cento domeniche, interpreti Emilia, la figlia di Antonio Albanese. Chi è Emilia?
Emilia è una giovane ragazza che lavora in un negozio di abbigliamento nella città di Lecco. È una persona molto semplice e molto legata agli affetti, forse un po’ più al padre che alla madre. I suoi genitori sono separati (o divorziati, non viene mai specificato) e lei manifesta il desiderio di sposare il suo ragazzo, mettendo in atto una serie di dinamiche. Quello di Emilia è un personaggio molto lineare, limpido e pulito, che non nasconde particolari drammi interiori, nonostante sia figlia di genitori separati: non è quello il suo dramma, anche perché non tutti i figli di genitori separati vivono dei traumi… possono essere anche sereni se i genitori sono bravi a gestire la fine della loro relazione.
Puoi anche affermarlo con consapevolezza perché, comunque, nonostante tu non sia madre, hai alle spalle una certa esperienza con bambini e ragazzi.
Il biennio 2018-2019 è stato di totale stravolgimento per me perché ho scelto di tornare a Caserta dopo quattro anni e mezzo a Roma. Ho sentito l’esigenza di tornare al teatro dove tra i 14 e i 18 anni mi sono formata e ho cominciato a insegnare ai ragazzi che frequentano le scuole medie. Ci si vedeva un giorno a settimana per un laboratorio di tre ore ma ho dovuto prepararmi a quegli incontri, studiando prima come avrei dovuto approcciarmi ai ragazzi, gestirli o seguirli. Tuttavia, è solo stando a contatto con loro che mi sono resa come tutto avvenisse in maniera più spontanea: recependo i loro input, non avevo bisogno di altro per fare insieme cose bellissime
È stata un’esperienza super divertente ma anche formativa a livello psicologico. Volevo capire se l’insegnamento potesse rappresentare per me una svolta lavorativa. Non avevo ancora le idee chiarissime sulla mia strada ma è stato quel bienni a farmi capire che volessi tornare a recitare.
Per un’attrice in continua formazione, sembra quasi ironico trovarsi nei panni della formatrice: uno sdoppiamento a tutti gli effetti.
Sì, ma è avvenuto tutto in maniera casuale e improvvisa. Ero rientrata a Caserta con l’idea di tornare a lavorare nella mia città, ragione per cui ho ripreso i contatti con il “mio” teatro. Ho ricominciato da uditrice a seguire le lezioni e mi sono ritrovata a ricoprire, quasi senza nemmeno accorgermene, il ruolo di assistente per quello che era il mio insegnante per gli adulti per cose basilari (tecnica, respirazione, dizione), che avevo imparato molto bene negli anni. Quando mi hanno proposto di insegnare ai ragazzi, non è che mi sentissi preparata a farlo: mi sono fidata della fiducia che il teatro riponeva nei miei confronti.
Finita quell’esperienza, sei tornata a recitare senza mai fermarti. Quello di Emilia in Cento domeniche è ad esempio un personaggio molto fondamentale per il film: il suo proposito di sposarsi è la molla che porta il padre Antonio a vivere una situazione che definire kafkiana è riduttivo. Cosa hai portato di Liliana in Emilia e cosa Emilia ha poi lasciato in Liliana?
È vero, si porta sempre molto di te persona nel personaggio, almeno questo è il mio modo di lavorare. Parto sempre da me: per me, non esistono i personaggi ma esiste l’immedesimazione… sono sempre io quella che vedete in scena però in tante situazioni differenti e con nomi diversi. Ogni volta, tiro fuori lati miei ed emozioni mie per metterli al servizio di qualcosa di più grande.
Quando con Albanese ci confrontavamo sul mio personaggio, Antonio mi chiedeva di portare in Emilia il rapporto che io ho con mio padre: “Pensa a quando stai con lui”. E nel farlo mi ha colpito tantissimo come, crescendo, le dinamiche tra genitori e figli si invertano: arriva un momento in cui sei tu figlio a prenderti cura dei tuoi genitori. Non puoi solo essere figlio: devi cominciare ad assumerti più responsabilità. Curiosamente, stavo vivendo la stessa situazione da un punto di vista privato, cominciando ad accettare l’idea che anche i nostri genitori sono limitati.
Quando si è piccoli, pensiamo tutti che i nostri genitori siano più bravi di noi in tutto, che siano più in gamba e che siano lì per rassicurarci. Crescendo, invece, scopri che anche loro hanno limiti e paura, che anche loro necessitano di aiuto e che noi siamo lì per sostenerli. Si diventa del tutto adulti quando smetti di pensare ai tuoi genitori in base alla funzione sociale che ricoprono e cominci a vederli come persone, individui, esseri umani. Sembra un passaggio stupidissimo ma è fondamentale, che non sempre tutti riescono a compiere. C’è chi si ostina a non farlo per non distruggere l’idea che negli anni si è fatto dei propri genitori solo perché può anche essere doloroso.
Mi sembra di capire che per te farlo non sia stato fonte di dolore.
No. Già da tempo avevo cominciato a valutare i miei genitori come persone al di là del legame che ci unisce. L’essere andata via di casa ha cominciato a preparare il terreno per il cambio di prospettiva. Ricordo benissimo il momento in cui decisi che per me era arrivata l’ora di cominciare a sostenere provini. Ero molto giovane, avevo 18 anni, mi stavo diplomando e dissi a casa quali erano le mie intenzioni. Non ero ancora ben informata sul modus operandi e, in un primo momento, la reazione di mio padre fu un no categorico.
È stato di fronte alla mia determinazione che ha cambiato idea. Non lo dimenticherò mai: è stato nel vedere cosa fossi disposta a fare che ha capito la mia esigenza. È stato testimone di quali sacrifici ero capace: ho dormito veramente ovunque e ho fatto cose assurde pur di prepararmi a Roma con delle persone che avevo trovato in città. “Cavolo, allora vuoi farlo veramente… non posso più dirti di no: fai come vuoi, va bene così”: in quella frase c’era tutto il cambiamento in essere.
È come se si fosse arreso di fronte alla tua autodeterminazione.
Quel pover’uomo ha dovuto accettare il cammino che mi ero prefissata. Ma anche semplicemente l’idea che, andandomene di casa per vivere lontano da qui, ci saremmo visti pochissimo. Erano tanti i cambiamenti che si stavano verificando in un solo momento.
A proposito di cambiamenti, per Cento domeniche non ne hai vissuti di sconcertanti. Tu e Albanese vi conoscevate da tempo: vi eravate già incontrati sul set di Come un gatto in tangenziale 2 e insieme avevate recitato anche in Grazie ragazzi. È un po’ il tuo padre putativo?
Un po’, sì. È una di quelle figure che ad oggi mi ha insegnato molto a livello cinematografico. Sono grata a lui per essersi affidato a me per Cento domeniche, sebbene non mi conoscesse abbastanza. Ha, comunque, rischiato chiamandomi direttamente senza nemmeno volere che sostenessi il provino per il ruolo di Emilia. D’istinto, ha voluto me: “Se accetti, bene. Altrimenti, ciao”, sono state le sue parole. Il suo è stato un atto di fiducia ineguagliabile: non capita mai nel nostro ambito di dare a occhi chiusi una possibilità così grande a un’attrice principiante, solitamente si va sul sicuro. Credo che a unirci sia stato il teatro e i tanti anni di esperienza che mi portavo dal palco. Nella sua ottica, conoscevo già come funzionava questo mondo: “Se non avessi voluto fare il mestiere di attrice, ti saresti già tirata indietro”.
Antonio sapeva della tua versatilità? Gli hai ad esempio mai raccontato di avere anche composto una colonna sonora per un cortometraggio? Cosa significa per te l’arte, dal momento che non ti fermi alla sola recitazione?
Lo sa (ride, ndr). La prima sensazione che mi ha dato recitare o suonare il pianoforte è quella di poter essere serenamente me stessa: un pensiero che a 13 o 14 anni mi ha sorpreso e mi ha fatto pensare quanto ciò fosse magico. Per me, l’arte è magia, una magia in cui non c’è posto per la finzione. È quel mezzo attraverso cui rivelo me stessa e tiro fuori quello che ho dentro, un modo per dire la mia anche usando parole di altri e per emozionarmi insieme a qualcuno, sia in scena con me sia spettatore.
Ti è mai capitato di ricevere dei feedback da qualcuno che ha notato come ti sia evoluta come attrice?
Mi è capitato. Persone che hanno visto un mio spettacolo a sedici anni, mi hanno rivista recentemente e mi hanno scritto per evidenziarmi quanto fossi cresciuta insieme al lavoro. Ma per me i feedback più importanti rimangono sempre quelli delle persone a cui vuoi bene. Viviamo purtroppo in un’epoca in cui tutti si sentono il dovere di dirti la propria e occorre essere preparati a qualsiasi giudizio. Per certi versi, sono contenta di aver cominciato a lavorare tardi: a ventun anni, un commento negativo mi avrebbe distrutta. Adesso, invece, so difendermi e so discernere il valore di un commento e quale dare peso. Sono cambiata molto non solo come attrice ma anche come persona.
In che senso?
Mi sono trasferita a Roma dopo aver preso il diploma di maturità classica con il massimo dei voti. Ero reduce da cinque anni di studio intenso: tutto ciò che facevo nella vita era studiare, compreso il teatro e la musica. Non avevo grandi amicizie, non uscivo molto e intessevo poche relazioni. All’arrivo a Roma, questa forma di isolamento si è anche intensificata: stavo in Accademia anche dieci ore al giorno, tutti i giorni (a volte, anche i festivi).
Quando ho terminato l’Accademia, ho vissuto un anno di confusione totale, rendendomi conto di dover recuperare ciò che nel tempo avevo perso, dai rapporti sociali alle amicizie. Mi sono rimessa in discussione e non è stato facile prendere la consapevolezza di aver sbagliato qualcosa, così come semplice non è stato recuperare per me rapporti che erano fondamentali. Sono però contenta di avere aperto gli occhi.
Era anche paradossale non vivere rapporti nella vita reale quando poi in scena sei chiamata a crearne di estremi con chi ti sta accanto. Se ci pensiamo, soprattutto in teatro, si condivide tutto con gli altri: dal camerino alla stanza in cui si dorme. Nel mio caso, dovevo trovare una via di mezzo tra i due estremi.
Sei riuscita a trovare l’equilibrio?
Mi sento sicuramente in una posizione diversa. Finalmente, come ho detto quando ho festeggiato di recente il mio compleanno, sono felice di stare in un bel gruppo di amici e di essere circondata dalle persone a cui voglio bene. Mi sento più serena e sembra che tutto abbia anche un valore maggiore. La mia vita da adolescente era fatta di scuola, di pigiama party a base di filosofia e biologia con una mia amica, di lezione di pianoforte una volta a settimana e di lezione di teatro. Tra il pianoforte e il teatro, il secondo ha poi preso il sopravvento durante l’ultimo anno di liceo facendo sì che mi concentrassi di più sulla recitazione.
È accaduto qualcosa in particolare che ti ha portata a tale scelta?
Sì, a scuola abbiamo fatto un corso di teatro greco. E, quindi, studiavo teatro a scuola e teatro per conto mio. E mi piaceva, era forse quello che dovevo fare e che ero predisposta a fare. Come vedi, ero quello che oggi si direbbe una “brava ragazza”… anche se in realtà tale etichetta non mi appartiene, mi definirei semmai una brava ragazza con tanti scheletri, anche abbastanza comuni, nell’armadio.
Uno dei temi affrontati di petto da Cento domeniche è quello del tradimento, non in senso affettivo. Cos’è per te il tradimento?
Mancanza di comprensione e isolamento. Un tradimento di quel tipo nasce dalla mancanza di empatia e di comprensione dell’altro: non ci si mette nei suoi panni e si guarda il mondo da una sola prospettiva. È un atto totalmente egoistico che porta anche all’isolamento dell’altro: quando una persona non si sente capita, smette anche di parlarti o di relazionarsi con te. Un tradimento è doppiamente crudele per via dell’egoismo e dell’allontanamento che comporta.
Ti sei mai sentita tradita in tal senso?
Sì. Ma penso di aver tradito anch’io.
Chi custodisce i tesori non sempre custodisce i sogni: è la grande lezione che impariamo da Cento domeniche. Quali sono i sogni di Liliana?
In questo momento, sono legati alla carriera e alla possibilità di andare avanti. Cerco di farlo ogni giorno piano piano, senza ansia e senza fretta. Voglio proseguire questo percorso e continuare a migliorarmi come persona. Il mio più grande obiettivo di vita è diventare la versione migliore di ciò che posso essere umanamente. Voglio rafforzare sempre di più gli affetti e vorrei fare qualcosa per i miei genitori quando, se succederà, guadagnerò dei soldi: mi piacerebbe aiutarli a realizzare anche i loro sogni.
E, poi, mi piacerebbe lavorare all’estero. Nell’ultimo anno, ho iniziato a seguire delle lezioni che tiene a Roma un insegnante di New York. Porta avanti il metodo Meisner, che ha un approccio molto diverso da quello che viene insegnato in Italia. Non è una valutazione di giudizio, sia chiaro, ma mi piacerebbe un giorno lavorare in un set in cui tutti, dal regista agli attori, applicano lo stesso metodo e non come accade in Italia, dove tutti quanti facciamo riferimento a metodi e insegnamenti differenti e, talvolta, ci dimentichiamo di ascoltare l’altro quando siamo in scena.
Nell’ascoltarti, cosa ti diresti da sola in maniera forte?
“Abbi più coraggio, fidati di più di te stessa”.
Ti vedremo presto nella serie tv Inganno che, diretta da Pappi Corsicato, ti ha riportato a contatto con la tua napoletanità.
È stata un’esperienza molto divertente. Ero l’unica napoletana sul set e condividevo con Pappi un certo modo di comunicare grazie a un linguaggio che altri, per ovvie ragioni, non conoscevano. È stata un’esperienza diversa da tutte le altre: Corsicato è un artista a tutto tondo che ha molto senso dell’estetica e che pone molta attenzione alla parte visiva della costruzione della scena. Abbiamo girato in posti incredibile che, pur essendo originaria della zona, non avevo mai visto… Rispetto al cinema, mi piace la possibilità che dà la serialità di approfondire maggiormente i personaggi grazie al tanto tempo a disposizione.