Lokita è uno dei nomi più interessanti del rap game italiano emerso negli ultimi mesi. Rapper e cantante milanese, Lokita ha recentemente rilasciato il singolo Farhrenheit (Epic Records/Sony Music Italy) con la produzione di Drillionaire, producer che non ha bisogno di alcuna presentazione. La canzone, con le sue atmosfere arabeggianti e sinuose, racconta l’amore passionale e i giochi di seduzione tra due persone che non riescono a stare lontani. Non a caso, Lokita canta come l’amore ci renda liberi e legati al tempo stesso, un concetto che ci argomenterà meglio nel corso di quest’intervista esclusiva.
L'estro di Lokita è, comunque, incasellabile. Da venerdì 7 ottobre sarà disponibile in digitale, su Spotify e YouTube, “ROUND #1” (Epic Records/Sony Music Italy), il nuovo format da lei ideato da Lokita. Il progetto unisce il suo talento musicale alla passione per l’MMA, disciplina sportiva che pratica da molti anni e che ha significativamente inciso sulla sua esperienza artistica e personale.
Il format è un vero e proprio esercizio di stile, una finestra sul percorso che l’ha spinta oltre le sue ferite e un posto in prima fila dalla prospettiva di una delle sue passioni: “ROUND #1” è il primo freestyle sul ring in cui Lokita svela di volta in volta la sua storia e si racconta in maniera intima e senza filtri. Con sonorità dirette e aggressive, nel primo episodio Lokita racconta della sua infanzia e di come ha superato i suoi demoni anche grazie alla scoperta dell’MMA, diventato sin da subito una passione così forte da segnare il suo percorso come donna e come rapper.
Ma, per entrare nel mondo di Lokita, classe 1995, occorre prima di tutto bussare alle porte di Fulvia Bruzzese. Originaria dell’hinterland milanese, Fulvia ha scelto lo pseudonimo di Lokita in omaggio a Loki, divinità norrena di cui la Disney ha anche stravolto i connotati e la psicologia. Ed è nel nome d’arte di Lokita che si nasconde una millennial la cui vita è inevitabilmente segnata dal doppio. Sin dalle sue caratteristiche genetiche: i genitori erano originari di due terre divise solo da un lembo di terra, Sicilia e Calabria. E Scilla e Cariddi sembrano convivere dentro Lokita, sempre in bilico tra la rapper che è e la Fulvia che è cresciuta con il ricordo di un’infanzia non facile.
Lokita ha raccontato finora poco di sé. Fragile e determinata, forte ma vulnerabile, allegra ma malinconica, adulta ma bambina, Lokita per TheWom.it, però, ha fatto un incredibile passo avanti.
È vero che ci ha parlato della sua musica, della sua idea di solidarietà musicale e della sua collaborazione con Drillionaire. Ma è anche vero che si è aperta così tanto da ricordare come da bambina si sia sentita sempre fuori posto. Non perché lo fosse realmente ma solo perché gli altri, escludendola, la portavano in quella direzione. Tutte le volte in cui i serpenti hanno provato a morderla, Fulvia ha a suo modo reagito. Forse da questo nasce oggi anche la sua naturale attrazione verso i serpenti, come dimostra il boa che campeggia nella cover di Farhenheit.
Intervista esclusiva a Lokita
Vivi a Milano. Ma hai profonde radici ancorate al sud.
Sono per metà siciliana e metà calabrese.
Tra Scilla e Cariddi, quindi. Questo spiega molto della tua personalità.
Mi sono resa conto negli ultimi tempi quanto questi due estremi coesistano oggi nel mio involucro.
Involucro che stai pian piano facendo conoscere grazie alla tua musica. Fahrenheit, il tuo ultimo singolo, ma anche Fiamme, il precedente, avevano qualcosa in comune: il fuoco.
È un elemento nei confronti del quale non nutro grande timore. Mi sento a mio agio con il fuoco: quando tutti sul set di Fiamme erano preoccupatissimi, io mi sentivo molto tranquilla. È un po’ legato alle mie origini meridionali, al dogma secondo cui gli italiani in generale ma ancor più le persone del Sud siano molto passionali.
Sin da piccola, sebbene non ne capissi il significato, mi affascinava l’idea di essere nata sotto un segno astrologico di fuoco. Mio padre mi racconta spesso di un aneddoto legato alla mia infanzia: più mi dicevano di non toccare il fuoco o la pentola calda, più andavo sulla fiamma. È qualcosa di inconscio. Mi attrae l’idea che il fuoco sia vita e morte al tempo stesso, due estremi che si incontrano e si respingono nello stesso momento.
E gli estremi si incontrano anche nella tua musica. La tua è l’immagine di ragazza molto pulito mentre le tue canzoni restituiscono una bella botta a chi le ascolta. E, in più, sei anche una delle poche artiste femminili che fa rap a un certo livello in Italia. Canti anche di temi, se vogliamo, sentimentali ma con un linguaggio e una scrittura inediti, priva ad esempio di volgarità o luoghi comuni.
Il coesistere di varie sfumature, talvolta anche non molto coerenti tra loro, non porta a risultati stridenti. Questo lo devo, in primis, alla musica che ho ascoltato crescendo: l’hip hop americano. Quel genere, soprattutto tra gli anni Novanta e Duemila, quando sono cresciuta io, usava sonorità molto aggressive ma non per autocelebrarsi: lo scopo era sempre la denuncia sociale, un aspetto che oggi si è purtroppo perso. Come tante altre cose. Mi fa sorridere, ad esempio, come molti miei coetanei credano che il simbolo dei rappers siano le Nike. Non sanno nemmeno che l’uso delle sneaker da parte degli artisti hip hop nasce con le Adidas. Le Nike arrivarono solo in un secondo momento perché legate alla sponsorizzazione di un tour.
Io cerco di ricollegarmi a quella attitude che aveva l’hip hop che ascoltavo. Gli artisti che incarnano maggiormente la mia idea sono Missy per il suo approccio al rap, e Lauren Hyll per il suo stare a metà tra il rap e il cantato più melodico.
Il rap, per come lo vedo via, significa aggregazione sociale. Nel mio percorso, ho cercato sempre di circondarmi di amici che ne condividessero gli ideali. Uscivo e frequentavo, almeno fino agli anni dell’università, persone che come me fossero estimatrici del genere e ne amassero la cultura basata sull’aggregazione e sulla condivisione. Ero in una crew di ragazzi molto variopinta, andavamo alle serate, parlavamo di musica, tenevamo concerti. E tutto era molto vero, sincero e autentico. Ripenso a quegli anni con molto affetto e nostalgia, quasi.
Come sono stati gli anni dell’adolescenza? Non ti ha fatto la passione per l’hip hop sentire diversa rispetto alle coetanee?
Da un lato sicuramente sì. Anche banalmente nel solo abbigliamento. Frequentavo un liceo scientifico a indirizzo linguistico ed ero in una classe di sole donne. Mi si notava subito: mentre le mie compagne erano più interessate alla moda di quel periodo, a me non interessava nulla. Non soffrivo però la diversità, non la avvertivo come tale: quella era la mia normalità. Riscontrare la mia stessa normalità in altri mi ha permesso di vivere esperienze uniche che solo quella diversità poteva darmi.
Ma essere donna e fare hip hop in Italia non è però una cosa semplice. L’ambiente è tipicamente maschile e non sono tante le artiste che hanno raggiunto risultati notevoli. A cosa pensi che sia dovuta la mancanza di affermazione? È un problema di stereotipi, di imposizioni del mercato o di che altra natura?
Non credo ci sia ostracismo nei confronti delle donne che fanno rap. Non è questo il fulcro della questione. Nel momento in cui sei un artista emergente un grosso boost può arrivarti da chi è molto più conosciuto di te. Nel 2022 a decretare il successo di un brano non è solo la qualità dello stesso. Concorrono altri fattori e il sostegno, la collaborazione e il networking, da parte di chi ce l’ha fatta darebbero una spinta decisiva.
Senza voler sminuire la bravura di nessuno, mentre gli uomini sono più “solidali” tra loro e i giovani miei colleghi ricevono spinte decisive, noi donne facciamo più fatica. Siamo costrette a prendere strade più lunghe, tortuose e impegnative per farcela, proprio perché manca l’assist. Mi chiedo allora: perché viene naturale a un artista uomo sostenere un emergente sempre uomo? Perdura ancora lo stereotipo secondo cui gli argomenti del rap siano più a misura d’uomo che di donna? Non mi piace strumentalizzare l’argomento ma ci sarebbe da aprire una parentesi al riguardo: non dico che gli uomini sono stronzi ma potrebbero fare di più anche per le giovani rapper donne.
Ma anche le artiste donne già affermate. A me viene in mente solo un caso di collaborazione proficua: quella tra Myss Keta e BoyRebecca.
BoyRebecca è un’artista molto valida. Ha però ricevuto un sostegno valido che l’ha fatta conoscere a una fetta di pubblico maggiore di quella che da sola avrebbe potuto permettersi. Chiaramente, ora sta a lei far pian piano i suoi passi in avanti e ampliare la sua platea.
Ma c’è anche un’altra anomalia legata al mercato discografico italiano: esistono pochi artisti intermedi. Esistono gli artisti affermati e quelli emergenti: non c’è una via di mezzo, colui che non è ai vertici delle classifiche e non è un debuttante.
Da questo punto di vista, quanto conta avere al proprio fianco un produttore come Drillionaire?
Diego rientra in quella categoria di persone che mi hanno permesso di non dover interpretare un ruolo ma di rimanere me stessa, portando la mia esperienza di vita e il mio percorso di crescita nella musica. Ci siamo conosciuti qualche anno fa tramite uno dei miei amici. Ero all’università e, nonostante il sogno di fare musica, ero insicura.
O, meglio, non avevo neanche l’intenzione di agire concretamente per far musica. Una serie di vicissitudini personali, di esperienze e di situazioni che mi sono capitate, mi hanno invece suggerito che avrei anche potuto tentarci. E da quel momento in poi, da brava calabrese con la testa più dura del marmo, ho cominciato a impegnarmi per riuscirci. Ero però determinata a volerlo far da sola o, comunque, con qualche altro “scappato di casa” come me con cui partire senza nemmeno sapere dove arrivare.
Grazie al mio amico ho conosciuto Diego (il vero nome di Drillionaire, ndr). Sono andata nel suo studio e da quel giorno non abbiamo più smesso di lavorare insieme. Per me, Diego è in primis un fratello e occupa un ruolo molto importante a livello personale. A livello creativo, non ha mai dubitato di me e mi ha spinto a non farlo, anche quando mi rimettevo in discussione.
Sono testarda ma sono anche molto analitica e realista. Posso pensare di avere tutti i talenti del mondo ma la musica è una delle poche cose al mondo a essere molto poco oggettiva. Per quanto essere stonati o intonati possa essere un dato di fatto, il gusto per la musica è soggettivo. Ma c’è voluto tempo per arrivare a tale conclusione: negli anni passati, sono diversi i dubbi e le domande che mi sono posta. Stavo facendo la cosa giusta? Dopotutto, finita l’università, avevo anche lavorato in un ufficio e potevo contare su una certa stabilità. Più le domande diventavano insistenti, più Diego mi è stato accanto: sempre pronto ad accogliermi serenamente o con l’approccio da generale, quando la situazione lo richiedeva.
Da un punto di vista lavorativo, la nostra creazione è sinergica. Siamo due scemi che fondamentalmente si divertono.
In Labirinto, canti “brillo ma sono fragile”. È una descrizione che della donna che sei?
Ci sono dei momenti e delle situazioni in cui mi viene più facile reagire e altri in cui, invece, faccio un po’ più fatica. Sono una persona molto emotiva e, quando entra in gioco l’emotività, ho bisogno di qualche attimo in più per recuperare la lucidità. Nello scrivere quella canzone ho ripensato in generale al mio vissuto. Ci sono state situazioni che mentre le vivevo non capivo perché attirassero determinate antipatie o determinati commenti spiacevoli. Solo col tempo ho capito che erano dovuti alla consapevolezza di chi mi guardava di peculiarità mie di cui non ero però consapevole.
È difficile da spiegare. C’erano situazioni in cui venivo bersagliata. Non ho avuto un’infanzia simpaticissima o piena di amici. Avevo tanto di quel tempo libero da poter coltivare interessi su interessi. Cercavo qualcosa semplicemente da fare, che mi aiutasse a capire perché subivo quegli atteggiamenti.
Ricordi qualche episodio in particolare?
C’erano situazioni all’interno delle quali si innescavano meccanismi tali per cui io non comprendevo cosa avessi fatto per provocarli. Io non capivo ad esempio perché mi prendevano in giro per essere in sovrappeso: non capivo perché i miei chili in più erano un problema e quelli degli altri no. Da meridionale, ero la classica bambina mediterranea, mora e con qualche peletto in più rispetto alle altre, e anche questo era motivo di scherno.
Quando sei piccola e tutti intorno a te hanno qualcosa da ridire sulla tua persona, ti senti disorientato. Soprattutto, quando vivendo in un piccolo paesino disperso tra le campagne, pensi che il mondo finisca lì. E non hai gli strumenti per capire che quello è solo un puntino su una mappa infinita.
Ci sono stati un paio di episodi antipatici, a cui hanno assistito anche i miei familiari. Non è stato il massimo e ho sofferto come una pazza. Fortunatamente, non mi sono chiusa in me stessa e ho trovato, nel mio piccolo, la forza di reagire. “Non mi volete? Io vengo lo stesso, anche solo per farvi un dispetto”.
Forse ti porti da lì il non lasciarti intimorire dal giudizio altrui e la forza di giocare con un boa, come fai nella cover di Fahrenheit?
Posso dire la verità? È stato l’avverarsi di un sogno. Ve lo giuro: ho sempre avuto il desiderio di realizzare una cover con un serpente Quando mi hanno dato in mano il boa, sprizzavo gioia da ogni poro. Io e Agata, si chiamava così il boa, abbiamo riposto la nostra fiducia l’uno nell’altra. Mi trasmetteva tranquillità e io cercavo di trasmetterla a lei. Mi avevano spiegato che, se non sollecitata, non avrebbe mai reagito in maniera istintiva. Come me, trovo che i serpenti sia degli animali profondamente incompresi.
La canzone racconta di rapporti a due, in cui si è liberi e legati al tempo stesso. Qual è la tua concezione dell’amore?
“Liberi e legati” dà la risposta. In amore si è liberi di portare avanti il proprio percorso ma sempre legati volontariamente da un filo che ci tenga uniti all’altra persona. Non credo però che l’amore sia soltanto quello romantico. L’amore porta guai, tantissimi guai: è inevitabile quando tieni così tanto a una persona. Ed è direttamente proporzionale: più ami, più hai l’inclinazione a perdere le staffe. È più facile mantenere la calma quando non ci importa molto di chi abbiamo davanti.
E quali sono le lacrime che non piangi mai?
Sono quelle che avrebbe fatto più male versarle piuttosto che trattenerle. Ci sono situazioni in cui non è meglio piangere davanti a chi ci ha fatto del male o a chi è motivo di altro dolore, dispiacere o preoccupazione.
Ti senti una donna libera?
Parzialmente. Come tutti, benché mi stia sforzando di liberarmi da quei preconcetti con cui di hanno programmato, persiste ancora un processo predefinito che, inconsciamente, ci porta a interpretare la realtà in un certo modo. E non ci rende liberi. Ci sentiamo liberi ma non lo siamo: siamo ancora schiavi della nostra testa.
Da dove nasce Lokita, il tuo nome d’arte?
Trovo molto vera la voce che afferma che esiste una versione diversa di noi nella mente di ciascun nostro conoscente. Non tutti siamo bravi a esprimere ciò che siamo ma gli altri si creano una loro idea della nostra identità. Da appassionata di mitologia, non solo greca, ho fatto riferimento a Loki, una divinità norrena. Loki è il dio del caos, ovvero di tutta quell’energia che, smuovendo cose, porta alla creazione di qualcosa di nuovo, pulito, positivo. Ecco perché ci sono rimasta malissimo quando nell’universo Marvel hanno reso Loki il fratello disgraziato di Thor, dandogli un ruolo secondario!
È facile far convivere Fulvia con Lokita?
Hanno molto in comune. Ci sono però situazioni in cui la loro divergenza torna utile. A volte serve tirare fuori Lokita, come sui set dei videoclip. Altre volte, invece, prevale Fulvia. Ma i valori restano sempre gli stessi.