“Il siciliano è la mia seconda lingua, tant’è che ho anche interpretato dei personaggi siciliani in passato”, è la prima osservazione che Lorenzo Adorni mi regala quando scherzo sulle sue origini. Nato a Parma, ha nelle vane sangue siciliano, più precisamente di Castelvetrano, lo stesso paese del collega Giancarlo Commare, con cui ha condiviso l’esperienza di Maschile singolare. “Ho ancora tutta la famiglia che vive a Palermo: mio nonno era palermitano”, sorride. “Tra l’altro è un aspetto molto interessante: la conoscenza del dialetto permette di rispondere a quell’esigenza per cui i racconti di oggi adottano accenti che non siano i classici per avvicinarsi maggiormente al pubblico, per permettergli di sentirsi rappresentato anche a livello di provenienza”.
Ci sentiamo con Lorenzo Adorni in occasione dell’uscita di Adagio, il nuovo film di Stefano Sollima in sala grazie a Vision Distribution dal 14 dicembre dopo il passaggio in concorso al Festival di Venezia. Tuttavia, prima di entrare nel pieno della nostra conversazione, che pian piano assumerà toni sempre più intimi e personali, voglio complimentarmi con Lorenzo Adorni per la serie tv (branded content) Yolo, di cui è coprotagonista insieme a Ludovica Martino.
“Nessuno di noi sul set ha mai pensato alla serie tv come a una pubblicità: per noi non era un contenuto brandizzato ma intrattenimento, commedia. La commedia non è mai una passeggiata: la adoro ma è difficilissimo far ridere le persone. È molto più facile far toccare loro corde drammatiche: la tristezza è un sentimento che assume forme sempre molto simili per tutti ma non la commedia, ridiamo tutti per motivi differenti. Non è detto che ciò che fa ridere me faccia ridere anche un altro”.
Intervista esclusiva a Lorenzo Adorni
Ma non ti avrà nemmeno fatto passeggiare sul set Stefano Sollima…
Non mi ha mai fatto passeggiare nessuno, per continuare a usare la metafora, ma Stefano Sollima è un autore con una cifra assolutamente riconoscibile, un regista molto presente sul set, umile e molto sensibile a tutte le dinamiche che ruotano su un set. Per un attore, avere un regista che sa come dirigerti e che direzione darti allevia l’intensità di qualsiasi lavoro: risulta anche più facile mettersi in gioco, mettersi in discussione e cercare di mettere in atto delle cose che sono anche azioni politiche. Certi registi aiutano a crescere e, quindi, che ben vengano gli incontri con loro.
È stato un set che per qualsiasi attore è un sogno: ritrovarsi in un unico film con Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Adriano Giannini e Valerio Mastandrea non capita tutti i giorni. Cosa ha significato per te confrontarti con stili di recitazione maschili così differenti?
Era tanta l’emozione di far parte di cast con un gruppo di professionisti di così alto livello che non potevo non stare in ascolto. Più che pensare a come dire una battuta, stavo molto in ascolto dell’altro, di chi era in scena. L’ascolto si rivela sempre molto divertente: per forza di cose, non si è concentrati su se stessi ma su quello che fa o dice l’altro. Il confronto è stato sicuramente d’alto livello: quando ti rapporti a professionisti di quel tipo, automaticamente ti rendi conto che stai andando verso direzioni nuove. Il nuovo sul set di Adagio per me è stato accentuato anche da altri fattori: per la prima volta interpretavo un personaggio romano e per la prima volta mi cimentavo con un action, che richiede registri recitativi molto specifici.
Per fare un confronto, visto che l’abbiamo citata, in Yolo c’è un registro recitativo più realistico che sfiora nel grottesco: ci si permette libertà e licenze poetiche solo perché non ci sono gli stilemi del cinema di genere di mezzo. In un film di genere, invece, la caratterizzazione passa per altro: da come resti in silenzio, da come ti muovi, da come guardi… puoi stare ferma e zitto e dire molto.
Massimo, il mio personaggio in Adagio, è molto ambiguo, non è molto trasparente e non ha una psicologia facilmente categorizzabile: è molto fermo nei suoi obiettivi ma anche nella sua espressione. Ed è stato interessante per me soffermarmi su ciò e sul trovare, comunque, divertimento nella semplicità e nella chiarezza di un gesto. Nello specifico, ho dovuto rapportarmi con i personaggi interpretati da Adriano Giannini e Francesco Di Leva, due attori molto differenti ma con cui è stato facile, per la loro disponibilità e bravura, entrare in relazione.
Ma quello di Adagio è stato anche un set molto motivante. Stefano Sollima non perde mai un centimetro di concentrazione sul set: può anche girare per 16 ore consecutivamente senza mai mollare la presa. In poche parole, non si va a casa fino a quando, da regista, non ha ottenuto ciò che vuole. E questo, dal mio punto di vista, è incredibile. Ha saputo prendere l’arte del padre e farla propria, trovando un mondo e una poetica sempre molto chiari: già dalle prime immagini, puoi dire se è un film di Stefano Sollima o meno, ragione per cui gli sono grato infinitamente per aver potuto far parte del progetto.
Adagio: Le foto del film
1 / 58Un film d’azione porta un attore a recitare mettendo in gioco il suo intero corpo. Che rapporto ha Lorenzo Adorni con il proprio corpo?
Per me, è semplicemente un mezzo in più di lavoro. Il corpo è un mezzo espressivo: come camminiamo, restiamo fermi, guardiamo e copriamo lo spazio (ricordiamoci che sostanzialmente siamo dei volumi) diventa fondamentale nella costruzione di un personaggio. Da un punto di vista estetico, mi mette molto più a mio agio pensare al mio corpo come a una fotografia del mio momento presente.
Quand’ero adolescente, avevo ad esempio altre energie e altre voglie e mi allenavo in un certo modo e con una certa costanza, favorito anche dal praticare degli sport a livello agonistico: mi si richiedeva di essere molto attento al mio corpo. Oggi, invece, penso al corpo come mezzo da mettere al servizio di altro. Anche se spesso non si deve, sono molto tatuato. Ho sempre amato i tatuaggi e, dunque, il corpo per me diventa doppiamente forma di espressione: ho dei segni sulla mia pelle che mi ricordano determinati momenti, periodi o situazioni.
Cerco di fare in modo che lo stress dell’estetica, che sembra dettare legge, abbia poca influenza su di me: preferisco pensare all’idea che il mio corpo sia semplicemente un mezzo pronto a calarsi nel corpo di un personaggio che ha delle sue necessità. Sto attraversando una fase della mia vita in cui sto provando togliere più “rumore” possibile intorno a me e di non lasciarmi travolgere dalla nevrosi di quell’estetica “perfetta” che spesso a noi attori per mestiere viene richiesta. Bisognerebbe tutti lasciare l’immagine libera. Ci sono molti movimenti, soprattutto femministi, che lottano affinché ci si riesca ma è una battaglia che vorrei fosse sposata da entrambi i sessi, e non solo nel senso binario del termine.
Lasciateci essere anche imperfetti: noi attori non siamo macchine ma persone. A volte si sottovaluta lo stress che comporta per noi raggiungere quella perfezione fisica che ci viene richiesta: è uno stereotipo che andrebbe superato e abbandonato.
Da cosa nasce la passione per il tatuaggio?
Sin da piccolo, mi ha sempre affascinato la cultura del tatuaggio, subentrata in Europa abbastanza tardi quando già per altri popoli, penso al neozelandese o al giapponese, era invece qualcosa di tribale, primordiale o ancestrale. Un tatuaggio è sempre stato per me un’estensione della propria personalità: quando ho avuto la possibilità di lasciare il mio corpo libero di esprimersi attraverso essi, ho permesso che accadesse. In maniera intelligente, pensando anche alla professione che svolgo (è pur vero che oggi i tatoo si ricoprono in breve tempo col trucco ma fino a una decina di anni fa non era così semplice farlo). Sono tutti figurativi, in bianco e nero, e hanno dietro motivazioni personali.
Parlare di tatuaggi, mi dà modo di riallacciarmi al discorso sulla possibilità di lasciare ognuno libero di esprimere la propria individualità senza aggrapparsi a canoni prestabiliti. Come maschio, sento la necessità di parlare agli altri per invitarli a rendersi conto che ci sono stereotipi ormai obsoleti che vanno superati proprio perché non ci permettono di essere ciò che siamo, comprese le nostre imperfezioni: non dobbiamo dimostrare niente a nessuno.
Purtroppo, credo che molti problemi che riguardano oggi il genere maschile dipendano anche dal voler rispondere a un’immagine di noi che, a un certo punto, diventa sempre più stretta, che ci stritola e che diventa una gabbia claustrofobica per la nostra psiche. Chi ha un vasto pubblico a cui rivolgersi, cantante, attore o scrittore che sia, è ora che cominci a far passare l’idea che un corpo non definisce niente sull’individualità di un uomo. Con tutti coloro con cui ho avuto modo di parlarne, condivido l’idea che sia il perfezionismo che ci porta ad avere turbamenti enormi.
È solo lo sdoganamento che porta al cambiamento. Per fare un esempio stupido: fino a quarant’anni fa, soprattutto in certe zone d’Italia, nessuno si sognava di fare un tatuaggio perché, per stereotipo, era segno di criminalità. Eppure, è cambiata la nostra concezione. Chiaramente, so quanto complicato sia abbattere uno stereotipo: si sedimenta con estrema facilità e rapidamente nell’essere umano, senza che questi se ne renda nemmeno conto. Ma cominciare a parlarne, anche da prospettive diverse o più semplicistiche, e adoperarsi per l’abbattimento, lavorando anche sulla consapevolezza. I miei genitori vedevano il tatuaggio come qualcosa di assolutamente proibito ma, dopo che io ho fatto il primo, in casa mia oggi tre persone su quattro ne hanno almeno uno, compresa mia madre che si è fatta il primo a sessant’anni.
La società non può non porsi domande e agire: l’abbattimento degli stereotipi dà libero accesso alle nostra peculiarità. Da maschio eterosessuale, devo essere libero di poter indossare una gonna se mi piace: non deve esserci nessuno che me lo vieti o che pensi che la gonna sia da donne o che non mi piacciono le donne perché lederebbe la mia libertà, la precluderebbe. È un pensiero che mi accompagna sin da piccolo, quando sentivo dirmi di dover essere un maschietto: non ho mai capito cosa si intendesse… fortunatamente, provengo da una famiglia che non mi ha mai precluso la mia voglia di esplorazione.
L'anima in pace: Le foto del film
1 / 6Da gennaio, ti vedremo al cinema anche in L’anima in pace, il nuovo film di Ciro Formisano in cui interpreti Andrea, un giovane medico che si erige a salvatore della giovanissima Dora, vittima di una situazione di violenza non solo fisica ma anche psicologica.
Andrea proviene da una famiglia alto-borghese ed è molto benestante. È un medico specializzando e ha avuto sicuramente una vita molto più facile di quella di Dora, messa spalle al mura da tutta la violenza fisica e psicologica con cui ha dovuto fare i conti. Ma ha, secondo me, un grosso limite: ci sono molto spesso in ognuno di noi dinamiche così difficile da scardinare che non permettono di farsi salvare perché alla fine dei conti ci si salva da soli. Ad Andrea direi oggi che ha ragione a voler salvare Dora ma per farlo non correre creare ansia in qualcuno che di suo è già bloccato dagli eventi della vita.
Capita che bisogni lasciare agli altri anche la libertà di fallire perché è proprio dal fallimento che può partire il miglioramento. È dal fallimento che spesso si genera tutto quel caos che porta a rimettere insieme i propri pezzi: l’araba fenice per rigenerarsi doveva ridursi in cenere. Quello del mio fallimento negli ultimi mesi è un tema con cui mi sono dovuto interfacciare ma anche come uomo: le notizie di violenza che si sono susseguite mi hanno personalmente buttato a terra… ho dovuto fare i conti con la mia mascolinità e su ciò che vuol dire essere un maschio in termini di sensibilità e interiorità. Si parla tanto oggi di narcisismo: credo sia una condizione di solitudine devastante che nasce dal non accettare il proprio fallimento.
Perché tuo fallimento?
Perché a un certo punto mi sono reso conto che tutto stava diventando sicuramente un po’ freddo, manageriale e anche nocivo per me stesso. E da quel momento la parola “fallimento” è diventata cruciale: vedermi aver toccato il fondo è stato il primo grande passo per me. Non scendo nei dettagli non solo per preservare la mia sfera intima ma perché parto dal presupposto che non si pensi che sia stato qualcosa che è accaduto solo a me in quanto Lorenzo Adorni: vorrei semmai che chi leggesse si riconoscesse nelle mie parole e per certi versi si sentisse al sicuro nel capire che si può fallire, accade a ognuno di noi, e che si deve lavorare per cercare una nuova via per stare bene soprattutto con se stessi.
Quanta autodeterminazione serve per affrontare il fallimento?
Tanta. Ma penso che sia necessaria tanto quanto la sofferenza provata, il senso di colpa, il senso di inadeguatezza e la percezione del dolore, inflitto e subito. Ricordarsi di questa palette di elementi è molto importante e forse per questo mi capita di parlarne spesso. Ci sono sicuramente problemi molto più grandi dei miei che interessano il mondo, non tutti hanno il lusso di poter cambiare il tempo e il luogo in cui sono nati ma anch’io, con tutti i miei lussi e comfort, posso contribuire nel mio piccolo a far sì che si creino un tempo e un luogo nuovi per chi vive qualcosa che ancora non sa come affrontare.
Hai stravolto piano piano ogni mia previsione di intervista, capovolgendo l’idea dell’attore, un essere umano fin troppo spesso definito come egocentrico e autoriferito.
Sono stanco dello stereotipo delle persone che fanno il mio stesso lavoro e del fatto di considerarsi al centro del mondo: quando chiudo gli occhi, quel mondo paventato non esiste. Siamo semmai tutti parte di un grande meccanismo: mi annoia parlare di me se non si parla di me con una chiave di condivisione… lo trovo riduttivo: non giudico chi lo fa ma preferisco per me altro.
Un esempio molto grande di condivisione per me, in questo momento, è Jannik Sinner: ha battuto per tre volte quasi consecutive il primo al mondo, ha vinto una Coppa Davis e sta facendo parlare tanto di sé non parlando quasi mai di se stesso ma della squadra e mostrando sempre rispetto per l’avversario. È un esempio che testimonia come tutti noi siamo al servizio di qualcun altro, nel senso buono del termine. La nostra storia non è mai la storia di un singolo: se mi chiedessero come sono arrivato fino a qui oggi, non ci sarebbe nessuna persona della mia vita che mi sentirei di escludere.
Ti vuoi bene, Lorenzo?
È una domanda difficile. Penso di venire da un periodo di vita in cui non mi sono voluto bene a sufficienza. E, di conseguenza, non penso di aver dato tutto l’amore che potessi dare. Vorrei oggi potermi bene e riversare questo bene anche in chi mi circonda…