Quando Lorenzo Balducci è apparso come attore sul grande schermo non aveva nemmeno vent’anni. Lo aveva scelto Pupi Avati per il suo I cavalieri che fecero l’impresa, non un regista qualsiasi. E in poco tempo ha collezionato ruoli di peso in film altrettanto importanti. Lo stesso Pupi Avati lo aveva rivoluto in Il cuore altrove, Carlo Verdone lo aveva chiamato in Ma che colpa abbiamo noi e Luca Lucini in Tre metri sopra il cielo.
Lorenzo Balducci aveva trovato aperte anche le vie della televisione e i titoli delle serie tv si susseguivano senza soluzione di continuità: Incantesimo, Il papa buono, Carabinieri, Il maresciallo Rocca, Le cose che restano, per citarne qualcuno premiato non solo dall’Auditel.
Ma anche il cinema internazionale si era accorto di lui: nel suo curriculum vantava e vanta opere di Guillaume Nicloux, André Techiné, Krzysztof Zanussi e Carlos Saura. Eppure, poi, qualcosa si è interrotto.
Il 2012 è stato un po’ un anno spartiacque per Lorenzo Balducci. Il suo nome, per traversie non legate alla sua volontà o al suo indiscutibile talento, era sulla bocca di tutti e, nel piano della tempesta, ha deciso di fare coming out, raccontando la sua omosessualità in una delicata intervista a Venerdì, il settimanale del quotidiano la Repubblica. Mentre promuoveva la commedia Good As You, aveva deciso di liberarsi pubblicamente di un peso.
È stato in quel periodo che la mia strada ha incrociato per la prima volta quella di Lorenzo Balducci. Si trovava a Palermo per promuovere per film in seno alle iniziative del Sicilia Queer Film Festival. Lo incontrai per un’intervista e mi trovai davanti a una persona fragile, emotivamente fragile. Con coraggio, rispose anche a domande non semplici ma la sensazione è che avesse veramente paura in quel momento, timore che qualcuno potesse ferirlo entrando nella sua sfera intima.
Da allora sono trascorsi dieci anni e io e Lorenzo Balducci ci ritroviamo per caso oggi. Si sta dando il via in queste ore all’inizio del Pride Month e si trova a Milano per portare in scena il 2 giugno al Teatro Menotti lo spettacolo Allegro, non troppo, con la regia di Mariano Lamberti. Cosa sia lo spettacolo, sarà Lorenzo Balducci stesso a raccontarcelo nel corso di quest’intervista.
Il Lorenzo Balducci che mi ritrovo davanti, come avrete modo di scoprire, è una persona che ha fatto i conti in questi anni con la sua vita e il suo percorso. È consapevole di aver commesso degli sbagli e dei passi falsi ma anche di aver dovuto ricominciare da zero lavorativamente. Non è stato facile, diciamolo subito. Se il coming out abbia influito sulla sua carriera sarà lui stesso a dircelo. Tuttavia, quello che è certo è che ha trovato un’altra dimensione, anche interiore, una leggerezza che lo porta a ricercare quegli anni felici che ha vissuto da bambino. Come? Rivelando il suo lato comico, come dimostrano ad esempio i suoi video su Instagram.
Ma quello che più mi fa star bene è vedere come Lorenzo Balducci stia vivendo un momento più sereno di quello che viveva dieci anni fa. Perché Lorenzo Balducci si merita più di una seconda possibilità. Gliela devono tutti coloro che hanno adito a pregiudizi infondati o sono saliti sul carro del vincitore puntando il dito senza pensare alle conseguenze delle loro azioni o delle loro parole.
Intervista esclusiva a Lorenzo Balducci
Porti a teatro lo spettacolo Allegro, non troppo. Già dal titolo, un bell’ossimoro, si mette in evidenza quella è la traduzione del termine gay in italiano, “allegro”. I gay dovrebbero quindi essere tutti allegri e felici, chissà perché per quale motivo. Vuoi raccontarci tu di che si tratta?
Nello spettacolo si punta subito il dito sul contrasto che c'è tra il fatto di definirci allegri e l’avere sulle spalle una storia che di allegro non ha nulla. È una stand up comedy: sto solo sul palco e parlo della mia esperienza di vita, legata quindi anche al mio coming out e al mio percorso personale, che è simile a quello di tanti altri ragazzi. Ha dei momenti che non hanno sicuramente nulla di allegro proprio perché parla di tutto quello che abbiamo vissuto e che continuiamo a vivere.
Dal mio punto di vista, parlo da privilegiato rispetto a chi ha sofferto realmente, non ho vissuto sulla mia pelle quello che tante altre persone hanno dovuto subire per far sì che io possa godere di quei diritti di cui oggi dispongo. Diritti che sono sempre una piccola fetta di quelli che dovrebbero essere concessi: essendo italiano, vivo in un Paese che nella realtà dei fatti non tutela la comunità lgbtqia+.
In Allegro, non troppo c’è un continuo giocare, con ironia, tra il dover essere allegri e il duro vissuto alle spalle. Abbiamo noi gay un bagaglio culturale storico molto pesante e ci possiamo permettere di essere estremamente dissacranti, anche spudorati, su ciò che succede intorno a noi, sulle etichette, sulle convenzioni, sul rispetto e sul modo di porci all’interno della società. Proprio perché ghettizzati, sminuiti, picchiati, uccisi… per tutta una serie di cose che oggi ci hanno reso più forti.
In Allegro, non troppo ritrovi dietro le quinte Mariano Lamberti, che ti aveva diretto nella commedia Good As You, un ritratto a tratti dissacrante nei confronti della comunità lgbtqia+ ma abbastanza veritiero: fotografava la realtà senza girarci troppo intorno o edulcorarla.
Good As You è stato un film molto criticato anche e soprattutto da una parte della comunità lgbtqia+, che diceva di non riconoscersi in quelle “macchiette”. Per i detrattori, la realtà non sarebbe quella raccontata. È vero: la realtà è anche oltre! Ho amici e conosco persone che vivono situazioni, a volte anche io stesso, che mi fanno spesso pensare “ma questa è la scena di un film!” … altro che pantomima come pensa un certo tipo di pubblico quando si trova di fronte a un determinato tipo di scene.
Good As You era una commedia, prima di tutto, volutamente sopra le righe e come tale aveva nel suo dna una percentuale alta di cultura pop. È chiaro che nella vita di tutti i giorni, quando usciamo di casa, non possono accadere tanti eventi così estremi come quelli che si vivono in un film ma ricordiamo che un film dura un’ora e mezza e ha bisogno di un certo tipo di narrativa, di caratteri forti e di condensazione del tempo.
Good As You aveva un’esplosione di colori, di intenzioni e di situazioni, che da amante della cultura pop e del grottesco non potevo che apprezzare. Ma aveva anche qualcosa da raccontare. C’era sostanza e non aria fritta come spesso accade in molte delle cose che guardiamo su Netflix: ci sono delle porcate assurde che partono da bellissime intenzioni ma che alla fine non raccontano nulla. Sono solo piene di effetti speciali e di espedienti ma senza storia.
Non credi che fosse in anticipo sui tempi? L’anno scorso è uscito ad esempio una commedia sulle tematiche lgbtqia+ su Prime Video, Maschile singolare, che ha anche vinto un Diversity Media Award come film dell’anno.
Si, forse nel 2012 era troppo precoce e forse era un po’ troppo spudorato per essere una commedia. Di film che trattavano la tematica in maniera forte e cruda ce n’erano sempre stati ma non commedie italiane dirette a un grande pubblico. Good As You era comunque un film di nicchia, nel senso che aveva una piccola produzione alle spalle, rispetto a Maschile singolare.
Al di là del gusto, e non è una questione di gusto, ci sono film che restano all’interno di un contenitore, di un recinto, non danno fastidio a nessuno e proprio per questo si possono permettere di essere “accettati” o non censurati. Good As You, invece, aveva l’ardore di uscire dal recinto e di rivolgersi a tutti. Ma, ripeto, era troppo spudorato anche per la comunità lgbtqia+, a cui non piaceva il fatto di rivedersi o di rispecchiarsi in un modo che era e che è parte di noi.
Io trovo assurdo che a dieci anni dalla sua uscita non sia mai e sottolineo mai passato in televisione (lo si trova per intero su YouTube). Torniamo a Mariano. Com’è nata la collaborazione per Allegro, non troppo?
Dopo il film siamo rimasti in contatto, siamo rimasti amici. Non è scontato che accada perché poi, spesso, ci si perde all'interno del proprio settore. Due anni fa, l’anno della pandemia, mi ha parlato dell’idea di fare una stand up comedy che parlasse della tematica lgbtqia+.
Aveva bisogno di un attore che facesse parte della comunità e che potesse rappresentare in pieno tutto ciò che Riccardo Pechini, l’autore, e lui co-autore volevano raccontare dell'universo lgbtqia+: passato, presente e futuro, e contraddizioni. L’idea era quella di proporre una sorta di lente di ingrandimento, anche molto scorretta e cruda in alcuni momenti, su quell’universo. Avevano pensato a me e avrebbe fatto la proposta al Teatro Off/Off di Roma, che poi l’ha accettata.
Mi piaceva molto ma non pensavo di poter essere io a farla. La sola idea di stare sul palco un’ora e mezza con un microfono in mano a parlare con il pubblico per cercare di farlo ridere mi terrorizzava. Per me, era meglio lasciar stare dal principio: la paura mi divorava al solo pensiero!
Tuttavia, Mariano mi ha convinto. Mancavano diversi mesi alla prima e mi incoraggiava che fosse tutto lontano nel tempo. Mi ricordo ancora il debutto a maggio 2021 a Milano. Avevo provato per quasi sette mesi ma avevo ancora paura. Lo spettacolo ha poi avuto bisogno di rodaggio, di qualche data estiva (con poco pubblico per fortuna!), ma già da subito se ne intuiva il potenziale. Il successo vero e proprio è arrivato con le date di novembre a Roma, al Teatro Off/Off.
Allegro, non troppo aveva trovato la sua identità e io avevo raggiunto la mia identità al suo interno, artisticamente e umanamente. Durante quella settimana di repliche, ho smesso di provare più ansia del necessario nel salire sul palco. Non avevo più la paura che mi attanagliava ogni sera. Pensate che, dopo la prima replica, ero stato anche male. Avevo avuto un calo di energie. In qualche modo mi ero ammalato: non so di cosa, forse era il risultato di tutto lo stress e dell’ansia. Fuori scena mi imbottivo di integratori. Ma, quando salivo sul palco, accadeva il miracolo. Ogni giorno peggiorava sempre più ma sono riuscito a riprendermi prima delle ultime repliche. Il pubblico non era cosciente di questo, però lo ero io.
A proposito di pubblico, rispetto al cinema o alla televisione, in teatro hai la possibilità di vederne la reazione immediata. Hai un feedback che ti permette di capire se sei nel mood giusto oppure no.
Rispetto al teatro di prosa classico, dove non hai bisogno costantemente di capire cosa il pubblico sta pensando, nella stand up comedy sei alla ricerca non continua ma costante del consenso e dell’attenzione. Non dico che il pubblico debba ridere in continuazione però è chiaro che ti aspetti la risata, l’attenzione, in determinati momenti.
Non è la prima volta che recito guardando il pubblico in faccia ma è la prima volta che mi cimento nel genere, nella stand up comedy. Cerco di catturare tutta l’attenzione ed è gratificante quando accade, così com’è frustrante quando non succede. Ricordo particolarmente la data del 1° aprile a Torino, una piazza che non conoscevo. Sin da quando sono uscito sul palco, ho sentito un entusiasmo incredibile che mi ha dato una carica enorme di adrenalina.
Poi, è chiaro che la riuscita dipende anche da te. Una stand up comedy si fa in due, metà è realizzata dal pubblico e metà da chi sta sul palco. Mi rendo conto subito della differenza tra una data e l’altra. Anche se, ci sono sere in cui non ne ho la giusta percezione. Mi sono capitate serate in cui la gente non rideva o lo faceva qua e là e non come ci si aspetti da uno spettacolo che ha molte battute. E le motivazioni potevano essere diverse: una battuta non afferrata, gente più silenziosa (non dimentichiamo che la risata è contagiosa, basta che uno rida e gli altri lo seguono) o assenza di pubblico lgbtqia+. E in quei casi portare avanti lo spettacolo diventa un incubo. Poi, di recente, ce n’è stata un’altra che invece a livello di performance per me era disastrosa…
E come si arriva alla fine in quei casi?
La porti avanti: è una palestra. Nell'arco di un’ora e mezza ci sono dei momenti in cui respiri di più rispetto ad altri e in cui a un certo punto inizi rilassarti. Il pubblico, però, era estasiato a fine dello spettacolo. Mariano, lo stesso regista, mi ha detto che ero stato bravissimo, che era una delle migliori serate. Peccato che per me sia stata un incubo. Non vedevo l'ora che finisse.
Io non posso sapere a cosa stia pensando il pubblico mentre sono in scena, diventerei schiavo del fatto che il pubblico debba ridere. Se non lo sentissi, sarebbe come se non mi stesse nutrendo, come se non mi stesse dando da mangiare: mi sentirei perso. Farei tutto in maniera molto tecnica e non vedrei l'ora di portare a termine lo spettacolo, velocizzando un po’ le cose.
In Allegro, non troppo, porti anche la tua esperienza di vita. Non ti chiederò com’è stato il coming out, lo hai raccontato diverse volte. Ma mi piacerebbe invece chiederti del coming in, del processo di auto accettazione che hai affrontato nel momento in cui hai dovuto confrontarti con il tuo orientamento sessuale. Provieni da un contesto familiare abbastanza conservatore e hai un fratello che è anche sacerdote.
Li ricordo molto bene tutti gli anni della crisi e della presa di coscienza. Sono stati gli anni della negazione, quella più forte possibile, in cui ho cercato di adottare qualunque tipo di scorciatoia per nascondermi dalle tentazioni che provavo. Mi imponevo di provare piacere, sessualmente parlando, nel pensare a una donna, o di provare a baciarla. Per fortuna, non mi sono, violentato così tanto: non ho avuto fidanzate. Ho avuto solo un'esperienza con una ragazza che poi sarebbe diventata la mia migliore amica.
Sono stati diversi gli anni segnati da questi pensieri. Sono durati un bel po’ prima di arrivare all'accettazione. E sono stati gli anni della solitudine. Si, è vero, il primo coming out l'ho fatto con il mio miglior amico all'epoca, poi mesi dopo con i miei genitori e dopo ancora con gli altri amici. Sei solo anche in quel momento, però sei all'uscita del tunnel: sei arrivato, per te sta per iniziare un nuovo percorso e, al di là di come andrà, ti stai liberando di qualcosa e ti stai nutrendo di altro.
Gli anni della presa di coscienza con me stesso sono stati segnati da continui pugni allo stomaco e privazioni costanti. Derivavano dalla sensazione di essere sbagliati e dall’idea che, se mi fossi permesso un determinato pensiero, non avrei potuto avere vita facile. Era assurdo perché, anche documentandomi minimamente, sapevo che esistevano omosessuali nel mondo e che molti di questi omosessuali avevano una vita felice. Ma, in realtà, tale percezione era minuscola nella mia testa. Era come se questa consapevolezza fosse a chilometri di distanza da me: quello che avevo, invece, a un metro da me era l'idea che la società mi dava, pur essendo nato nel 1982 e non negli anni Trenta.
Ero convinto che dovevo correggermi: il mio orientamento sessuale non mi avrebbe reso felice, avrebbe deluso la mia famiglia e avrebbe imbarazzato la società. E io non ho vissuto traumi: non sono uno di quelli che è stato cacciato di casa o schiaffeggiato dalla famiglia. Anzi, i miei mi hanno abbracciato quando ho fatto coming out, anche se poi non è stato facilissimo, non è tutto così lineare. Se è stato difficile per me, pensa a chi ha veramente patito l’inferno…
È lodevole il tuo pensiero agli altri ma pensa un attimo a te stesso. Tu, l’inferno, te lo sei autoimposto. Cercavi di annientare la tua personalità, il tuo stesso io. Sei andato contro la tua interiorità e non credo che esista qualcosa di più deleterio per una persona.
Io non so se la mia situazione sia stata peggiore o migliore di altri. Però penso a quello che avrei potuto guadagnare in quegli anni a livello di serenità, di conquiste, di consapevolezza, di scambio con gli altri esseri umani, se non avessi avuto paura di sentirmi giudicato dalla società nel prendere una determinata decisione.
Di cazzate e di scelte che hanno reso il mio percorso individuale e sessuale molto contorto, complicato, ne ho fatte. Anche dopo ho fatto coming out, non è stato facile. Anche se ti accetti, hai il tuo ecosistema, la tua cerchia di amici, le tue relazioni… ed è facile, come è successo a me, di incappare in una serie di dinamiche talmente poco costruttive che ti rendono il percorso umano, spirituale, intimo e sessuale, pieno di insidie, di difficoltà e di passi falsi.
Mi viene spontaneo chiedertelo: sei sereno oggi?
Si, sono molto più sereno di tanti anni fa.
E ci fai anche divertire, come ben sa chi segue il tuo profilo su Instagram. Da dove nasce quel desiderio e quella voglia di giocare?
Quella è una parte di me che esiste da tanto tempo ma che si è espressa solo da qualche tempo, anche con un po’ di ritardo. È venuta fuori in maniera così costante durante la pandemia.
La pandemia è stata una di quelle cose che ha messo in crisi tante persone ma anche me. Dall’altro lato, però, mi ha permesso di volare in alto con la creatività: la prigionia mi ha concesso di trovare vie di fuga creative. Realizzavo video già da tanto tempo ma quelli che vedete ora su Instagram sono un'evoluzione di quello che facevo. Per me, sono fondamentali. Potrei rinunciare a tante cose ma non ai miei video: sono una forma di terapia. Li faccio solo se sono di buon umore. Non me l’ha ordinato il medico per cui “devo” farli. Li vivo come li vivrebbe un bambino, come un gioco, e mi riportano a una fase della mia vita in cui ero più spensierato, a tanti, tanti anni fa.
L’averli fatti mi sta aprendo lentamente qualche porta: la gente si accorge di me, così come alcuni addetti ai lavori. Mi vedono e dicono: “Non sapevo che facessi anche ridere”. Del resto, nasco come attore di stampo drammatico. Il lato comico è esploso più tardi ma rappresenta ciò che sono io, la parte infantile che non vuole invecchiare.
E, poi, far ridere qualcuno è per me la droga più bella che possa esserci. È bello, mi nutro proprio di questo: finché qualcuno si divertirà continuerò a farli!
Hai usato la parola gioco. Giocare in inglese si dice to play, così come recitare. In questo momento, hai portato avanti diversi progetti come attore. Dopo una parentesi in salita, definiamola così per vicende esterne al tuo talento, hai ripreso a recitare in maniera quasi costante. Ti vedremo in un docufilm sullo scrittore Tondelli o in un episodio della serie tv Signora Volpe, ad esempio.
Rispetto a qualche tempo fa, sto riprendendo a lavorare su diversi fronti. La stand up comedy mi ha aperto la strada a un nuovo tipo di pubblico e a un nuovo tipo di esperienza. Così come i video su Instagram rappresentano una dimensione del tutto nuova per me.
Al cinema e in tv si sta muovendo nuovamente qualcosa ma lentamente, molto lentamente. Io sogno ancora di poter un giorno avere un ruolo non dico un protagonista ma almeno fisso. A parte il docufilm su Tondelli in cui sono protagonista con Tobia De Angelis, gli altri sono ruoli più defilati.
Mi sono divertito a prendere parte a Signora Volpe, un’esperienza piccola ma narrativamente carina. Così come mi è piaciuto essere nel cast di una serie francese destinata a Prime Video, Greek Salad, il sequel contemporaneo della trilogia francese di L’appartamento spagnolo, con un personaggio molto divertente.
Quanto pensi che abbia pesato il coming out sul tuo percorso lavorativo?
Non ho una risposta precisa. C'era un tempo in cui pensavo che non avesse inciso assolutamente. E, invece, credo - però è una sensazione, non è una verità assoluta e nessuno è venuto mai a dirmelo – che forse un po’ il dichiararsi incide. Lo vedo nelle vite e nelle carriere di altri attori. Certo, non Italia: nessuno fa coming out!
Se tornassi indietro, rifarei però tutto ciò che ho fatto in maniera identica, anche se qualcuno mi dicesse che non lavorerei più: mi troverei un’altra strada. Non dico un altro lavoro ma un modo mio per potermi esprimere.
Avendo fatto coming out, è chiaro che ricevo proposte o possibilità per ruoli omosessuali: questo ci sta, non mi offende e non rappresenta un problema per me.
C’è chi mi ha detto, anche tra conoscenti e amici, di evitare di fare troppi video in cui mi travesto da donna per mantenere la mia mascolinità… Ci ho pensato ma poi ho detto no, anche perché in tutti i video che realizzo che c’è sempre un personaggio femminile all’interno interpretato da me.
Ho capito che, più te ne freghi delle ipotetiche conseguenze delle tue azioni, più qualcuno ti vede libero e senza filtri, senza problemi, senza imbarazzi, e più hai la possibilità di riprenderti tutto, di mirare in tante direzioni e non a una sola. Motivo per cui oggi mi capita anche di fare tanti provini per ruoli eterosessuali: se non vanno a buon fine, non è perché sono gay. L’orientamento sessuale non fa da discriminante.