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Lorenzo Cervasio: “Salvato dal sentirmi sbagliato” – Intervista esclusiva

Lorenzo Cervasio
Un viaggio tra arte, solitudine e sogni infranti: Lorenzo Cervasio si svela come mai prima d'ora in un intenso racconto di vita che parte dal suo legame con Edo Zani nella serie Citadel: Diana.
Nell'articolo:

Di fronte a Lorenzo Cervasio, trentatreenne attore milanese, si percepisce subito una profondità d'animo e un'introspezione rara, un'essenza che va oltre l'attore e il personaggio. Quando gli chiediamo di raccontarci come è nato il legame con Edo Zani, il personaggio che interpreta nella serie Prime Video Citadel: Diana, Lorenzo Cervasio ci risponde con una spontaneità che racchiude in sé una storia di aspirazioni e un forte senso di connessione.

“Non avevo ancora letto la sceneggiatura, eppure sentivo che avrei dovuto interpretarlo”, ci confessa, rivelando l’intensità di quel primo approccio emotivo. Dietro questa ammissione si svela l'essenza di un artista che non si limita a "recitare" ma "vive" i personaggi, intrecciando la propria vita e le proprie emozioni con quelle delle figure che porta in scena. Questa intima e naturale sintonia ha guidato Lorenzo Cervasio nel dare corpo e anima a Edo, un personaggio complesso e tormentato, ma al contempo dotato di una determinazione che il giovane attore conosce bene.

Dietro lo sguardo riservato di Lorenzo Cervasio, che vedremo prossimamente in Costanza, la serie tv di Rai 1 tratta dal romanzo di Alessia Gazzola, emerge l'inquietudine e la solitudine di chi vive l'arte come una necessità e, al contempo, come un processo catartico di scoperta interiore. Lorenzo Cervasio ci parla del suo percorso con una rara trasparenza, raccontandoci di come sia arrivato a comprendere il valore della disciplina, dell’immaginazione e della solitudine, elementi che lo accompagnano da sempre e che definiscono non solo il suo stile recitativo ma anche il suo essere umano.

In questa intervista esclusiva, Lorenzo Cervasio ci porta attraverso il suo viaggio di attore e di uomo, condividendo la visione di un mondo che si alimenta di sogni, di grandi temi e di una costante ricerca di sé. Il suo racconto è un invito a guardare oltre la superficie, a esplorare la realtà e le emozioni nascoste dietro ogni gesto, ogni parola e ogni sguardo. Un invito che Lorenzo Cervasio accoglie e che ci permette di scoprire, con delicatezza e sincerità, l’anima di un attore che aspira non solo a “diventare” qualcuno sul palcoscenico, ma a vivere profondamente ogni storia e ogni ruolo.

Lorenzo Cervasio (Press: Valentina Palumbo / La Palumbo Comunicazione).
Lorenzo Cervasio (Press: Valentina Palumbo / La Palumbo Comunicazione).

Intervista esclusiva a Lorenzo Cervasio

“Ho pensato che avrei dovuto interpretarlo: ancor prima di leggere la sceneggiatura, dai primi provini non ho avuto dubbi”, ci confida Lorenzo Cervasio quando gli chiediamo qual è stata la sua reazione quando si è ritrovato tra le mani Edo Zani, il personaggio che interpreta nella serie tv Prime Video Citadel: Diana. “So che sembra una banalità detta e ridetta ma ho sentito subito un aggancio molto forte con il materiale che avrei esplorato. D’istinto, riuscivo già a scolpirlo nella mia immaginazione e avvertivo il desiderio di recitare quelle battute”, prosegue Lorenzo Cervasio entusiasmandosi nel ricordare le sensazioni avvertite.

“Edo Zani è un personaggio molto grande, ha dei poteri dettati dalla famiglia dalla quale proviene ed è di ampio respiro: ho sempre avuto una particolare fascinazione per i caratteri come lui, intenti a muoversi in un universo di spionaggio e con qualcosa che, se vogliamo, richiama alla mente il mito di 007 di cui mi sono imbevuto da bambino con le grandi tematiche con cui confrontarsi e con la tendenza a voler salvare il mondo. In altre parole, me lo sono immaginato come un ragazza che sa quello che vuole”, aggiunge ancora Lorenzo Cervasio nel delineare i tratti salienti del suo Edo. “Ma l’ho visto anche come un ragazzo un po’ solo, sospinto dal grande desiderio di voler cambiare lo stato delle cose… qualcosa in cui mi rivedo”.

Mi soffermo su quest’ultima parola, “solo”: quattro lettere che racchiudono un mondo intero.

Quando si ha un’immaginazione fervida, viene quasi naturale anteporla alla concretezza del mondo. Accade a Edo ma accade anche a tanti attori che recitano anche per sfuggire al grigiore della quotidianità. Ciò comporta anche una certa solitudine, che poi non so se definire tale dal momento che, anche quando sto da solo, in me convivono venti personaggi diversi, una specie di orchestra che è lontana dall’idea di tristezza. Personalmente, ho molto bisogno dei momenti di raccoglimento proprio perché per me è festa.

Capisco il suo essere un po’ isolato e solo, caratteristiche che vedo come qualità e pregi in un attore. È una condizione che mi è sempre appartenuta, tanto che da piccolo pensavo di essere diverso o strano rispetto agli altri: è stato quando ho iniziato a recitare che ne ho compreso invece il valore aggiunto… ho il bisogno di farmi i miei bei viaggioni con la fantasia e di ritrovare grazie a essi quei miei mondi interiori che riverso poi nei miei personaggi. Credo che sia una necessità che accomuna chi scrive, chi dipinge, chi danza, chi canta e chi recita: serve sempre un momento di incubazione per trovare ispirazione. E quel momento non può che avere origine dal rapporto che si ha con se stessi e, quindi, dalla solitudine.

Ti appartiene anche la tendenza a voler salvare il mondo?

Anche. Ed è ciò che salva quando nella vita ci si ritrova in tante situazioni in cui ci si sente sbagliati. Mi sono ritrovato a toccare certe corde in diversi momenti ma non perché fossero gli altri a farmi sentire fuori posto: tutto proveniva da me. Non tutti noi troviamo subito la nostra dimensione ideale e io ho sempre ricercato qualcosa che mi permettesse una certa astrazione da ciò che vivevo per focalizzare le mie energie su qualcosa di più forte: così è stato ad esempio per il calcio, che credevo mi salvasse anche dalle delusioni scolastiche o da tutto ciò che non sembrava funzionare.

Quando poi sono salito su un palco per la prima volta, ho compreso cosa si celasse dietro il mio non trovarsi e far fatica a vivere la quotidianità: c’era in me un eccesso di immaginazione che devono incanalare altrove. Tra l’altro, proprio di recente un mio amico durante una conversazione mi ha ricordato come quando già alle elementari tendessi a costruirmi le mie storie: stavo a immaginare in continuazione personaggi e situazioni, un’attitudine che poi ho mollato per riscoprirla a 21 anni, e a raccontare che da grande avrei voluto diventare un attore.

Riscoprendola, decidi di iniziare un percorso accademico e di iscriverti alla Scuola di Teatro Paolo Grassi…

…in cui non mi diplomo perché sono stato espulso per motivazioni che non sto qui a raccontare. Dentro me, avevo tante cose che non erano chiare che sono emerse tutte nel momento in cui ho iniziato a recitare. Riversavo allora l’esplosione di emozioni che vivevo nel teatro e, se vogliamo, mi ero quasi borderline. È stato il lavoro vero che mi ha permesso poi di comprendere come dovessi stare nei ranghi, anche perché, se fossi uscito dal seminato, non sarei stato pagato. In altre parole, in accademia ero una testa matta ma, quando ho imparato a conoscermi meglio, ho realizzato che non ci sono nemici esterni: il limite sei sempre e solo tu stesso.

Lorenzo Cervasio alla premiere di Citadel: Diana (Press: Golin Italy).
Lorenzo Cervasio alla premiere di Citadel: Diana (Press: Golin Italy).

Che fossi un po’ un inquieto è evidente anche dalle tante skills che ancora oggi segnano il tuo curriculum: acrobazia, karate, boxe, arrampicata, hip hop…

Le ho provate veramente tutte. Ed è evidente come chi fa tante cose in realtà sta cercando solo se stesso, non avendo trovato ancora la propria dimensione e il proprio equilibrio. La recitazione pagata mi ha aiutato a comprendere che dovevo portare a casa il risultato e abbandonare la mia tendenza a non finire mai ciò che iniziavo. Il dover stare in scena dall’inizio alla fine mi ha insegnato un’enorme disciplina: non potevo mollare e dovevo restituire ciò che mi si richiedeva.

All’inizio, non è stato semplice: ero abituato a lasciarmi andare all’impulso e all’istinto quando il mio primo insegnante mi ha fatto capire che il talento da solo è cheap e non mi avrebbe portato da nessuna parte. Lo considero il mio punto di svolta: è stato lì che ho iniziato a innamorarmi anche della disciplina di cui naturalmente all’epoca ero totalmente sprovvisto. Negli anni successivi ho lavorato tantissimo su quest’aspetto e oggi credo di essere molto diverso da allora.

Considerando la tua mancanza di disciplina e il tuo essere milanese, non sarebbe stato più semplice tentare la strada della moda anziché quella della recitazione?

Mi sarebbe mancata la possibilità di esprimermi a pieno. Al di là dei soldi, della fama e della carriera, mi interessava l’opportunità di guardarmi dentro. Già dalla prima lezione, avevo capito che non avrei mai potuto fare altro nella vita: anche se non avessi percorso una strada di successo tradizionale, sapevo che avrei in qualche modo avuto a che fare con la recitazione. Non intravedevo altri percorsi, di certo non essendo mai andato bene a scuola mai avrei pensato di fare l’università, e non avere nessun’altra alternativa si è rivelato un vantaggio: più che una scelta, era destino.

Il non avere un piano B è stata la mia fortuna: avrebbe potuto distogliermi da tutto e reso più complicato il mio percorso. Nei momenti di crisi, anche quando ho lavorato come cameriere e tornavo a casa in bicicletta alle 2 del mattino sudato fradicio e non avevo tempo di studiare come avrei voluto perché dovevo pensare a guadagnare, non ho mai abbandonato mio sogno. Sarebbe stato come gettare via la mia vita, ragione per cui ho continuato a sostenere provini anche quando niente girava per il verso giusto.

Cosa ti ha dunque spinto a diventare attore: l’ambizione o la necessità?

Credono entrambe, al 50% l’una. La sola necessità poteva essere sfogata tirando pugni su un cuscino, ad esempio, così come la sola ambizione, il non mollare e il farsi coraggio, non vanno da nessuna parte se non si è sospinti dal bisogno di credere in se stessi e di difendere con le unghie e con i denti il proprio valore.

E chi ha creduto in te oltre a te stesso?

Eh, domanda difficile a cui fatico a trovare una risposta. Diciamo che ho creduto soprattutto io in me stesso. Del piccolo grande passo che ho raggiunto il merito, anche a rischio di sembrare presuntuoso, va a me stesso: non sono molti i grazie che devo elargire.

Lorenzo Cervasio (Press: Valentina Palumbo / La Palumbo Comunicazione).
Lorenzo Cervasio (Press: Valentina Palumbo / La Palumbo Comunicazione).

Hai mai avuto consapevolezza di come il tuo corpo ti avrebbe aiutato nell’affermarti come attore?

No: viviamo in un’epoca in cui la bellezza estetica, iper valorizzata, fa sì che tutto sembri una giungla, per cui ci sarà sempre qualcuno che esteticamente varrà più di te o un influencer che punterà tutto su quella. Ho cercato sempre di prepararmi al meglio su altri fronti, facendone quasi una mia ossessione: leggo il più possibile, studio quanti più testi ho a disposizione e mi mantengo in allenamento costante per provare a essere un numero uno dal punto di vista delle competenze e della conoscenza, ciò che considero una priorità. Non ho nulla contro l’estetica, non giudico chi punta su di essa ma non è stato il mio caso: per me, è soltanto qualcosa che può sposarsi bene a un personaggio, se questi la richiede.

Cosa hai pensato di fronte al primo “sì” che ti sei sentito dire come attore?

Sono stati diversi i primi “sì” ma ciò che li ha accomunati è stata sempre la sensazione impareggiabile di leggerezza provata. Guardare ogni giorno ai propri obiettivi è come scalare una montagna: dietro un’apparente serenità, si cela lo sforzo che devi costantemente mantenere per migliorarti passo dopo passo e avvicinarti alla vetta. Il sì equivale a raggiungere quasi il Paradiso, permettendoti di vivere i giorni che ti separano dal lavoro effettivo con una leggerezza che ti avvolge e che è stupenda.

…e i “no”?

Servono anche quelli: ti rafforzano e devi farci anche il callo perché sono utili per capire se è quello ciò che vuoi veramente. Ogni porta chiusa ti aiuta ad andare avanti, a essere più forte e ad avere una scorza ancora più dura per affrontare gli altri “no” che riceverai.

Ma questa scorza, diventando sempre più dura, non rischia di non farti godere a pieno i sentimenti?

Cito Stella Adler: “Per fare l’attore, devi avere l’anima di una rosa e la pelle di un rinoceronte”.

E cosa fa paura alla tua “anima da rosa”?

Diverse cose ma ciò che più temo, anche in senso politico, è la direzione verso cui si sta andando nella ridefinizione dell’essere artista. Puntando sempre più verso l’intrattenimento, non si dà più priorità all’arte in sé, finendo con il non ascoltare gli artisti e con il dimenticare che sono quelli dell’arte i luoghi in cui una società si rispecchia. Dove sono oggi i Dario Fo, i Carmelo Bene, i Vittorio Gassman, le Anna Magnani, le Monica Vitti, i Lucio Dalla o i Giorgio Gaber? All’orizzonte, non ne vedo mentre prima gli artisti come loro con i loro pensieri e lucide osservazioni avevano un peso e guidavano tantissimo l’opinione pubblica: servivano a elevare e a far da specchio alla società civile.

Anche se, qualcuno risponderebbe che si tratta del classico paradosso del cane che si morde la coda: è l’artista che ha deciso di non avere più voce o la gente che non vuole più ascoltarla?

Come sempre, la verità sta nel mezzo: è responsabilità di entrambe le parti in causa. Per come la vedo io, c’è una grande paura di manifestare ciò che si pensa realmente su tanti temi e ciò conduce a una sottile omologazione del pensiero stesso. Senza voler apparire come uno di quelli per cui “era meglio prima”, in passato c’era molta più libertà ed era molto più sentito il senso del comune: oggi, invece, mi sembra che prevalga la tendenza a pensare ognuno al proprio orticello anziché pensare a un miglioramento o al benessere della collettività.

Tant’è che è quasi scomparsa l’espressione “artista scomodo”…

Sto leggendo in questi giorni Sonny Boy, la biografia di Al Pacino in cui l’attore racconta anche delle scelte che spesso ha fatto nel suo percorso e che l’hanno portato a guadagnarsi nel tempo l’appellativo di attore scomodo. Non esitava ad andare contro registi, produttori o studios, quando qualcosa non gli tornava: io non potrei mai farlo perché mi taglierei le gambe da solo ma è bello vedere come i grandi artisti come lui hanno combattuto in nome di una visione, di un’ispirazione o di un motore che li guidava. Qualcosa che oggi purtroppo vedo molto meno in giro.

Citadel: Diana - Le foto della serie tv

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Quello è il libro in cui Al Pacino asserisce di aver cercato il successo e non la fama…

Seppur spesso usati come sinonimi, sono termini tra loro molto diversi: il primo ha a che fare con qualcosa che è frutto del tuo impegno artistico mentre il secondo può derivare da mille altri fattori extra artistici. Ho aperto un profilo Instagram solo poco prima della messa in onda della serie tv Il grande gioco: mi ha interessato sempre e solo affermarmi e farmi conoscere per le mie capacità di attore e non per altro. Non saprei nemmeno bene come o cosa fare: non amo mettermi in mostra a prescindere per via del mio carattere molto riservato ed estremamente timido.

Divento anche arrogante quando invece si tratta della mia professione e di qualcosa a cui tengo: sono disposto anche a pubblicizzarlo sui social se credo che un mio progetto veicoli un significato intrinseco o interessante. Sia chiaro che non ho nulla contro la fama, tutti noi desideriamo essere visti e riconosciuti, ma a patto che provenga dal successo, dalle tue capacità e dalla fatica che hai profuso per ottenerlo.

Il mio personale successo nasce dalla possibilità di connettermi emotivamente sin da subito con un personaggio o dallo sposare un testo che contiene un bisogno di urlare una verità. Considero un successo, ad esempio, l’essere stato chiamato per la rappresentazione teatrale di Insultati di Caterina Shulha: dopo aver letto il mio monologo, sapevo che dovevo portarlo in scena senza interrogarmi su chi ci fosse o meno con me. La finalità del successo per me da attore è onorare lo scrittore e il personaggio che stai interpretando.

Aver aperto un profilo Instagram di recente non ti ha però permesso di sfruttare la fama che poteva derivare dal successo del Paradiso delle Signore a cui hai in passato preso parte.

Avrei avuto oggi migliaia e migliaia di followers ma sono stato coerente con me stesso e con una scelta che non ho mai rinnegato…

..e ciò ha anche fatto sì che una delle prime ricerche su Google sul tuo conto sia legata a scoprire chi sia la tua fidanzata. Per uno strano calcolo degli algoritmi, viene fuori il nome di Fiammetta Cicogna…

…che, ovviamente, non è la mia fidanzata. Credo che sia normale e sacrosanta la curiosità del pubblico sulla vita privata degli attori ma invidio l’epoca in cui i grandi divi come Jack Nicholson, Marlon Brando o lo stesso Al Pacino non avevano la necessità di mostrare la loro vita privata: bastavano i loro film a parlare per loro. Oggi, invece, sembra quasi che il lavoro da attore passi in secondo piano lasciando spazio a una sovraesposizione che riduce persino l’effetto sorpresa e la potenza di una performance quando ti si rivede da un progetto a un altro. Forse è anche per questo, pur rispettando la naturale curiosità degli ammiratori, sono spinto a non rivelare troppo della mia sfera privata.

Nonostante i vari impegni tra cinema e televisione, non hai mai abbandonato il teatro.

Teatro e macchina da presa sono due muscoli differenti che generano energie diverse. E a teatro inevitabilmente l’energia è maggiore perché è frutto dell’immediatezza della risposta del pubblico. E, per chi come me ha un po’ l’ossessione del miglioramento, è pane per i suoi denti: il teatro ti insegna cosa significhi tenere la scena per tre ore, non poter tornare indietro e arrivare con le tue emozioni, il tuo sguardo o la tua pausa, fino all’ultimo degli spettatori seduto in ultima fila. Ed io sento la mancanza di tutto ciò quando per lungo tempo sono assente dal palco. Stando a Roma, per questioni anche di mera sopravvivenza, ho dedicato negli ultimi anni tanta energia ai provini e all’audiovisivo ma non vedo l’ora di poter ritornare in scena in un grande spettacolo e con un bellissimo ruolo. E sono sicuro che accadrà presto.

C’è stata mai una volta in cui ti sei chiesto “Ma chi me l’ha fatto fare?”?

Sempre. Tutte le sacrosante volte che sto per andare in scena mi chiedo perché quando avrei potuto starmene tranquillo a casa. Senti salire forte la tensione, avverti il peso della responsabilità ma anche le aspettative del pubblico. Accumuli e accumuli ma, una volta sul palco, entri così tanto nel flusso da non pensarci più. Dopotutto, si fa questo mestiere anche per quell’adrenalina che si prova in quel momento. E la scarica che ti dà il teatro non ha paragoni.

Sogno di una notte di mezza estate è stato un tuo spettacolo teatrale. Cosa sogna oggi Lorenzo?

Di poter interpretare sempre personaggi coraggiosi e ribelli che siano di ispirazione. Ma anche personaggi che rimettano in discussione lo status quo e persino me stesso.

Cosa ti ha permesso di scoprire la recitazione, sorprendendoti?

Nella vita di tutti i giorni, la maggior parte di noi non entra mai a contatto con la grandezza delle cose, a partire da quella dei sentimenti. Ci illudiamo che sia così quando poi invece è attraverso le parole di autori come Tennessee William, George Bernard Show, Anton Cechov o William Shakespeare che scopriamo un’epica, oggi scomparsa, di fronte alla quale non possiamo che chiederci com’è che ci siamo involuti così tanto. Grazie a quei giganteschi pensatori, ho conosciuto i grandi sentimenti e le grandi paure dell’essere umano…

La recitazione mi ha restituito quell’epica che in qualche modo sentivo mi appartenesse e che nessuno, prima dei miei 21 anni, mi aveva fatto scoprire.

Ma anche un’etica, se permetti il gioco di parole…

Mi ha trasmetto tutti quei valori in cui credo oggi: il teatro è stato tutto per me.

Lorenzo Cervasio (Press: Valentina Palumbo / La Palumbo Comunicazione).
Lorenzo Cervasio (Press: Valentina Palumbo / La Palumbo Comunicazione).
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