Lorenzo Lepore ha solo ventisei anni ma ha pubblicato un album d’esordio, Fuori onda, che non è passato inosservato alla critica musicale che conto. Caleidoscopico, multiforme e variopinto, il primo lavoro di Lorenzo Lepore, uscito per T-Recs Music su tutte le piattaforme lo scorso 20 ottobre, è difficile da etichettare: indie nel suo non esserlo, va ben oltre i confini del genere offrendo echi di un cantautorato familiare che si mischia con qualcosa di nuovo indicibile a parole in cui ogni canzone si disvela un mondo di verità.
E verità, insieme a urgenza, è una delle parole che ricorre spesso nel corso della nostra intervista esclusiva con Lorenzo Lepore. In sintesi, è l’urgenza della verità che lo ha sempre portato alla musica, sin da quando era solo una valvola di sfogo adolescenziale scoperta quasi istintivamente dopo mesi passati ad annotare in un diario, dalla copertina nera, pensieri, umori e riflessioni su una quotidianità ora banale ora eccezionale, come quella di qualsiasi adolescente.
Prodotto e arrangiato da Tony Pujia, Fuori onda con le sue tracce si insinua delicatamente nell’intimo chi lo ascolta, spingendo a osservare da vicino le vulnerabilità di Lorenzo Lepore ma anche le proprie. Perché tutti ci siamo sentiti e ci sentiamo smaniosi di vita ma anche persi, fragili e terrorizzati, senza necessariamente perdere il sorriso.
Intervista esclusiva a Lorenzo Lepore
Cos’è Fuori onda? E da quale esigenza nasce?
Fuori onda è un album che porta un titolo che sento appartenermi molto. Quando l’ho trovato, la mia testa si è illuminata: tutte le canzoni che avevo messo insieme avevano assunto una forma nuova perché in molte si parla di mare, si cita il mare e si fa cenno al navigare controcorrente, anche metaforicamente e a costo di esprimere un’opinione fuori dal coro.
Si tratta di un disco che ha diversi piani di lettura che, al di là del titolo che può assumere diversi significati, nasconde l’esigenza di un grido di emancipazione da una società sempre più frenetica. Il soggetto di ogni canzone, un protagonista che varia sempre, si interroga, si lamenta, grida e piange, si commuove sullo sfondo di una società che spesso e volentieri non dà spazio alla commozione, al pianto o alla rabbia, perché ci vuole tutti uguali anche nel racconto che restituiamo.
Ma il fuori onda è anche qualcosa che in gergo radiofonico o televisivo significa altro: è quel momento un cui un discorso, una parola, una battuta o una frase vengono pronunciati prima che si accendano i microfoni. In questo senso, mi piace vedere l’album come un grande fuori onda. Tuttavia, al di là delle mie spiegazioni, spetta all’ascoltatore fare proprio il messaggio che le canzoni trasmettono e dargli significato. Ciò che mi preme è sottolineare come in ogni caso io non faccia altro che raccontare nei brani verità, verità e verità.
E nel raccontare verità si rischia di esplorare molto di se stessi e di cosa significhi oggi avere vent’anni. L’ansia per il futuro è qualcosa che inevitabilmente emerge.
Non so dire da dove nasce quest’ansia. In Niente di che, la canzone che è stata scelta come singolo di lancio dell’album, che ha vinto un premio a Musicultura e che ho composto due anni fa, racconto come nascono le paure: ci sono dietro meccanismi molto interiori, a volte quasi innati, che non so da dove derivino. Posso raccontare però com’è nato il brano: da un’improvvisazione in spiaggia. Avevo con me una chitarra ed è venuto fuori con estrema facilità, come se fosse un quadro estemporaneo: ho dovuto modificarla pochissimo in una seconda fase.
È stato quasi un freestyle con al centro il flusso di coscienza che è venuto fuori mentre mi trovavo nel posto in cui trascorro le vacanze nelle Marche. Sono emersi improvvisamente la rabbia, la paura e tutti quei sentimenti che tenevo chiusi: mi è scesa in quel momento una lacrima… ho pensato che se stessi piangendo avrebbe voluto dire che ero effettivamente vivo e che ciò che provavo era funzionale a qualcosa di utile. In qualche modo, mi dava speranza.
Mi piace pensare che le paure e le ansie possano essere esorcizzate dalla musica ricorrendo anche all’ironia. Un po’ come ho fatto in Vietnam, una canzone dell’album in cui dico una cosa per asserire l’esatto contrario.
Quindi, è normale anche per un uomo piangere.
È uno stereotipo che ci portiamo dalla notte dei temi ma l’uomo può piangere: ha il diritto di farlo soprattutto per sentirsi vivo. Fuori onda vuole proprio dire alla gente che occorre piangere: è il mio invito a commuoversi e ad andare in profondità nelle cose…
…e a mostrare le proprie fragilità senza rincorrere necessariamente l’illusione della perfezione. Non hai paura delle eventuali ripercussioni nel metterti così a nudo nei tuoi testi? Chi ti circonda, in fondo, scopre i tuoi pensieri sull’amore, sull’amicizia, sul rapporto con i genitori.
No, perché da sempre per me la vita e la musica procedono in totale simbiosi. Non c’è quasi nulla di costruito nel mio messaggio musicale: tutto ciò di cui canto mi riguarda. Ogni canzone è stata scritta in risposta a un’urgenza. Ho vomitato metaforicamente l’anima e non avrebbe potuto essere altrimenti: le cose migliori solitamente mi vengono fuori proprio nei momenti in cui cerco di imprimere su carta ciò che vivo e penso. Non temo il giudizio degli altri su di me… mi preoccupa di più quello sulla forma, sulle strofe o sulla voce. Molto probabilmente è un trauma che mi porto dietro dai tempi della scuola media, da quando ho vissuto i primi confronti importanti.
Le medie, tra l’altro, coincidono con il periodo in cui hai cominciato a scrivere musica. Lo hai fatto in risposta ai traumi?
Sicuramente. Frequentavo la seconda media quando ho comprato un diario per appuntare quelle che potevano essere le difficoltà che vivevo tutti i giorni, anche per cose che possono essere banali, dalla professoressa che ti mette quattro perché non ti capisce all’ipotesi di una bocciatura. Il diario serviva per parlare con me stesso, per mettere su carta i miei pensieri e per confortarmi. Ce l’ho tuttora quel diario con la copertina nera e continuo ogni tanto a scriverci: il dialogo con me stesso è ancora in corso e dura da oltre dieci anni. Lo chiamerei il “diario delle urgenze”, ci scrivevo sopra con molta regolarità ma con il tempo l’urgenza di farlo si è tramutata in urgenza di comporre subito una canzone.
Non scriverci più tanti è forse il mio più grande rimpianto. Per fortuna, lo custodisco ancora e voglio farne tesoro perché è stato fondamentale anche per il mio percorso musicale. Ho iniziato a scrivere musica durante l’estate che separava la fine delle scuole medie e l’inizio del liceo. Mi avevano regalato una chitarra: dopo tre mesi in cui l’avevo tenuta chiusa in una scatola, un pomeriggio mi sono messo a suonare quasi istintivamente con un mio carissimo amico. Ho così imparato i primi tre accordi con cui tre giorni dopo ho scritto la mia prima canzone. Tra l’altro, anche apprezzata: l’ho fatta sentire al campo scout che frequentavo e in breve tutti l’hanno imparata. Il fatto che gli altri la conoscessero a memoria ha dato una risposta a tante mie domande: era quello che volevo fare… dovevo regalare le mie canzoni alla gente e portarle in giro.
Ho continuato allora a scrivere ma senza sapere a cosa mi avrebbe portato. Seguivo un istinto che ha finito con il salvarmi: negli anni del liceo ero totalmente smarrito. La musica mi ha permesso di esprimermi ed è l’unico mezzo con cui riesco a farlo anche oggi.
E hai portato letteralmente la tua musica in giro, per le strade.
È stata una fase fondamentale del mio percorso. Ho mosso i miei primi passi come artista di strada: ogni domenica andavo a via del Corso a suonare, racimolando i soldi che poi mi sono serviti per andare in studio e finanziarmi il mio primo ep, facendo tutto da solo e senza nessuno a instradarmi. Sono andato da un produttore e gli ho chiesto quanto volesse per quelle canzoni che ancora oggi ascolto e che mi rappresentano molto. Se oggi sto facendo qualcosa, dal nuovo album alle serate piene nei locali, lo devo proprio alla strada, dove ho anche conosciuto persone con cui poi ho instaurato legami forti e che ancora oggi sento.
La copertina di Fuori onda è realizzata da Guillermo Mariotto, stilista e giudice di Ballando con le stelle. Cosa accomuna il tuo desiderio di essenza con quello di apparenza che spesso trasuda dal mondo della moda? Non sono i due mondi mossi da esigenze agli antipodi?
Nella moda c’è meno apparenza di quella che può esserci in televisione, dove tutto risponde a logiche diverse in nome dello share e degli ascolti. Lavorando con Mariotto, mi sono reso ad esempio conto quanto nella moda ci sia molta più verità e autenticità di quanto si crede. Lo sto testando io stesso lavorando alle musiche per una mostra sui briganti che si terrà a marzo 2024 al fianco di Guillermo: è una persona molto ispirata, come ispirata è la foto di copertina che ha realizzato. L’idea del bicchiere che ingrandisce l’occhio è sua e non potrebbe essere più azzeccata per restituire il senso dell’album stesso.
Cosa ha rappresentato per te vincere il Premio Amnesty International Voci per la libertà con il brano Finalmente a casa?
È per me un premio dal valore immenso: non è celebrativo dell’artista ma del messaggio che trasferisce una sua canzone. Mi piace quando la musica abbraccia contesti che vanno oltre l’apparenza per concentrarsi sui problemi sociali e sull’umanità, come fa Amnesty che tramite le canzoni vuol dare voce alle piaghe vere e proprio di questo mondo: guerra, razzismo e discriminazione. Temi che sono affrontati anche nel mio disco. Il brano che ha vinto il premio parla di un senzatetto, non è autobiografica ma può essere la storia di uno dei tanti che ho incontrato cucinando per Casa Africa, associazione che ho conosciuto proprio grazie a Mariotto: durante la pandemia, cucinava per i senzatetto e anch’io ho voluto provare un’esperienza che ha finito con il toccarmi molto. Mi è stata utile per capire che non c’è niente di più importante che aiutare gli altri.
Finalmente a casa è una canzone di protesta e di denuncia per tutti coloro che muoiono di freddo sotto i nostri occhi: il protagonista trova casa solo quando smette, definitivamente, di soffrire. Mi chiedo spesso cosa potrei fare io concretamente per loro: mi piacerebbe creare iniziative che possano essere loro d’aiuto. Tanto che vorrei per Natale organizzare un concerto di beneficenza per Casa Africa e supportare nel tempo altre iniziativi che permettano ai senzatetto di ritrovare una dignità o una casa. Si può fare sempre di meglio.
Cos’è per te la malinconia, parola che dà il titolo alla prima canzone di Fuori onda?
È qualcosa di presente in tutte le mie giornate: c’è sempre un velo di malinconia molto personale nelle mie giornate. Ma paradossalmente quella è la canzone più allegra che io abbia mai scritto a livello musicale. Ho voluto omaggiare il mio lato malinconico con il sorriso, prendendomi per i fondelli.
L’album ha anche un ospite, Alessio Bonomo, nel brano Ci avete rotto. Che rapporto vi lega?
È una storia molto lunga che cerco di riassumere brevemente. Ci siamo conosciuti a un concorso per cantautori: lui era in giuria e assegnava delle tracce poetiche ai partecipanti, che dovevamo farci ispirare per comporre una canzone. È nata così Luglio der 60, brano che ho cantato anche su Rai 3 a Il provinciale e che, nonostante le molte soddisfazioni, è rimasto fuori dall’album.
Dal concorso, ho cominciato ad ascoltare la musica di Alessio e me ne sono innamorato. L’ho così contattato per proporgli la collaborazione per un brano come Ci avete rotto, molto vicino alla sua proposta musicale così come a quella di Tricarico, due artisti che scrivono quasi con la prospettiva di un bambino, con semplicità. Non poteva esserci voce migliore della sua per una canzone veramente fuori onda che risponde al desiderio di sottolineare come continuerà a esserci sempre vita nel mondo nonostante la distruzione attuata dai potenti: c’è sempre qualcosa che fiorisce interiormente ed esteriormente.
Sotto la luna è il brano forse più "in onda" dell’intero album.
Ogni tanto, si può anche andare in onda, tuffarsi o sporcarsi un pochino: è vitale lasciarsi andare e respirare.