Tra i protagonisti di Do ut des, film con Gianni Rosato che arriva al cinema il 4 maggio, c’è anche il trentatreenne Luca Avallone. Nato a Milano ma di chiare origini campane, Luca Avallone vive a Roma (“non chiedetemi di dove sono, faccio fatica anch’io a rispondere”, ci dice a proposito), città in cui si è trasferito per coltivare il sogno del cinema, un sogno sbocciato in lui da adolescente.
Il mondo dello star system si è accorto abbastanza presto di Luca Avallone. Il suo viso da bravo ragazzo gli ha aperto le porte della Melevisione, il programma per bambini targato Rai, portandolo poco più che ventenne a vestire i panni del principe Leo degli Elfi. Da quel momento in poi il percorso artistico di Luca Avallone è stato un continuo crescendo: Cinzia Th Torrini lo vuole nella serie tv Un’altra vita, aprendogli le porte di quella Rai 1 che dopo lo ospiterà anche nel cast di Il paradiso delle signore (dove interpreta Paolo Bianchi).
Ma non solo: Andrea Pallaoro lo sceglie al cinema per Hannah, in cui recita al fianco di Charlotte Rampling (“un’attrice dalla sensibilità unica”, ci rivela fuori intervista), e Ridley Scott lo dirige in Tutti i soldi del mondo (“era un ruolo piccolo, spesso non dico nemmeno di averlo fatto, ma mi ha dato l’onore di aver potuto confrontarmi con un maestro”).
Protagonista di diversi altri titoli sia al cinema sia a teatro (Coriolano, su tutti), Luca Avallone affronta ora in Do ut des il primo personaggio realmente negativo del suo cammino professionale. A raccontarcelo sarà lui stesso nel corso di quest’intervista in esclusiva in cui pian piano emerge l’uomo che si cela dietro l’attore. In maniera delicata, Luca Avallone ricorda il periodo in cui ha vissuto sulla propria pelle la manipolazione psicologica da parte di chi avrebbe voluto controllare ogni suo gesto ma anche l’emozione di diventare padre a poco meno di trent’anni, una scelta controcorrente in un Paese in cui non si fanno figli.
Ed è proprio con i bambini che Luca Avallone ha un rapporto particolare. Insegna infatti recitazione agli allievi di alcune scuole materne, elementari e medie, consapevole del ruolo che il potere dell’immaginazione ha nella formazione di tutti noi per modulare le emozioni.
Intervista esclusiva a Luca Avallone
Do ut des arriva nelle sale il 4 maggio. Chi interpreti nel film?
Il film trae spunto da un fatto di cronaca da cui pian piano si è però distaccato. Parla fondamentalmente di violenza, subita ed esercitata, fisica e psicologica. Il mio personaggio si chiama Michael ed è il co-protagonista della storia. È amico del protagonista Leonardo, interpretato da Gianni Rosato, e si inserisce perfettamente nel suo mondo, quello dell’imprenditore di successo che ha costruito un piccolo impero. Non essendo capace di costruirsi un proprio impero della stessa portata, Michael in qualche modo approfitta di quello dell’amico e, spinto dal desiderio di volerne un pezzo, mette in atto un atteggiamento da parassita. Cerca, quindi, di trarne il maggior beneficio possibile, sia di tipo goliardico, festaiolo e sessuale, sia di potere, lasciando che la responsabilità rimanga sulle spalle di Leonardo.
Si dice che per trovare un personaggio un attore debba guardare dentro di sé. A cosa hai fatto appello per trovare Michael?
Ognuno di noi ha un proprio metodo di lavoro. Nel mio caso, i personaggi nascono da dentro, sono un incontro tra ciò che è scritto nella carta con la propria psicologia ed emotività. Ho avuto poco tempo a disposizione tra la preparazione e l’inizio delle riprese ma, facendo appello all’emotività, ho lasciato che la carta mi parlasse.
Sembra un’affermazione da guru, anche un po’ strana, ma mi sono concentrato più sulle parole scritte, sui segni grafici neri sulla carta, e sugli spazi bianchi tra una parola e l’altra. Spazi che, in quest’occasione più che mai, ho provato a riempire: ho pensato che la differenza potesse risiedere lì. In Michael ci sono ovviamente aspetti che sono nella mia natura e altri che sono lontani da me ma che, seppur lontani, mi appartengono: il desiderio di evasione, di lasciarsi andare o di perdere il controllo.
Cosa significa per te “perdere il controllo”?
Rispetto a Michael, non faccio uso eccessivo di alcol, non ne trovo la necessità, e non faccio uso di stupefacenti (di cocaina, nel suo caso). Non mi reputo una persona bigotta e non condanno chi lo fa però nella vita non ho mai sentito il bisogno degli eccessi.
E rispetto a Luca? Cosa ti fa perdere il controllo?
Sarò banale ma la mancanza di rispetto. Sono un cultore della libertà: ognuno deve essere libero di sentirsi e fare ciò che vuole. Ma non so perdo mai il controllo. Nella vita di coppia, ad esempio, non è mai capitato: sì, posso avere degli scatti di rabbia o ira che nascono per stanchezza o sfinimento ma sono solo attimi. Da quando sono papà stanchezza e responsabilità sono maggiori, per cui a volte lo stress ti porta a mostrare dei lati che non vorresti.
Ognuno di noi deve essere libero di fare ed essere ciò che vuole. Tu ti sei sempre sentito libero di essere ciò che eri?
Non vorrei rendere quest’intervista banale ma mi sono quasi sempre sentito libero. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che mi ha lasciato libero di scegliere e di sbagliare. Non mi sono mai sentito dire dai miei genitori (e non vorrei non farlo con mio figlio) “te l’avevo detto”: mi hanno sempre supportato, anche nell’errore. L’errore è quel qualcosa di cui non ti rendi conto mentre lo fai ma è fondamentale sbagliare perché ti insegna ad assumerti la responsabilità delle tue scelte. Ci sono stati momenti in cui mi sono sentito più libero e altri in cui lo ero di meno ma tendenzialmente sono, grossomodo, chi vorrei essere.
Qual è lo sbaglio più grande che hai finora fatto?
Tendiamo a rimuovere quello che ci fa più male ma, scavando dentro me, il mio sbaglio più grande è stato quello di fidarmi in ambito personale di una determinata persona che, anziché farmi del bene, mi ha profondamente fatto del male. Voleva a tutti i costi controllarmi psicologicamente ed emotivamente.
Quando ti sei reso conto della violenza esercitata?
Subito. L’istinto mi dice subito se qualcosa può andare oppure no. Il problema è poi un altro: in determinati casi, subentrano i sensi di colpa. La psicologia tende a giustificare certe situazioni, a razionalizzarle e farti assumere prospettive diverse dalla tua. Ci si mette empaticamente nei panni degli altri e si cerca d capire il loro punto di vista, finendo con il non tenere in conto il proprio. Non so come funzioni per gli altri ma nel mio caso l’istinto mi parla.
E sei andato via subito?
No. Il problema è stato quello: è subentrata la psicologia e ho impiegato qualche anno a porre fine a quel rapporto. La prima cosa che ho fatto dopo è stata dormire: ho dormito serenamente. La manipolazione che ho subito è piccola rispetto ad altre molte più gravi, come ad esempio quella raccontata da Do ut des: nel mio caso si trattava semplicemente di una persona eccessivamente prepotente e insicura che avrebbe voluto imporsi nella mia vita. Dovremmo imparare ad ascoltare di più l’istinto, ci parla, e non giustificare mai le parole o le azioni del carnefice, sottovalutandole. Capisco che la giustificazione è un meccanismo che mettiamo in atto anche per difesa ma in certi casi non va mai assecondata.
Do ut des è un film in cui agli attori viene richiesto di giocare molto anche con il corpo. Sesso, bdsm e shibari sono parte fondamentale della storia. È stato facile mettersi così tanto in gioco?
Mi sono trovato molto a mio agio sul set. Si era come in una grande famiglia e fondamentale è stata la sintonia che avevo con la mia compagna di scena, Shaen Barletta. Dovevo sentirmi a mio agio con lei: dovevamo girare scene che agli altri possono sembrare divertenti e che, invece, sono profondamente imbarazzanti: nudi in scena, in tutti i sensi, dentro e fuori…
Non conoscevo lo shibari e, a esser sinceri, ancora oggi non lo praticherei perché lo trovo un po’ troppo complicato, forse per mancanza di tempo da parte mia (ride, ndr). Ma è stato divertente scoprirlo: conoscere cose nuove fa parte del lavoro di un attore… è la sete di conoscenza che in qualche modo mi spinge e mi motiva in determinate occasioni!
Ti sei trovato a disagio nel recitare nudo? Quanta fatica comporta il controllo anche sulle reazioni del proprio corpo?
Al di là di Do ut des, mi sono trovato in altri film a girare delle scene di sesso ancora più esplicite. In questo caso, non ero del tutto nudo ma in altre circostanze sì e può capitare che subentri un certo disagio: bisogna avere un lato narcisistico edonistico spiccato per non imbarazzarsi davanti a una troupe!
Però, non puoi avere il pieno controllo del momento. Quando recito, cerco sempre di abbandonare me stesso e di abbracciare il personaggio: mi devo dimenticare di Luca e deve accadere l’incidente.
Il nudo in scena, comunque sia, deve essere sempre giustificato e mai gratuito. Deve rispondere alle esigenze della narrazione e mai superfluo, sarebbe altrimenti e non porterebbe nulla al racconto: in quel caso, direi no.
Che rapporto hai con il tuo corpo?
Credo normale ma non ci ho mai pensato. Ci sono parti di me che mi piacciono di più e altre che mi piacciono di meno ma nel complesso ho un buon rapporto con il mio corpo. Pratico molta attività fisica ma più per una questione mentale che per una questione corporea. Mi fa stare bene e questo si ripercuote positivamente sul mio rapporto con il corpo, che diventa così effetto e non causa della mia attività.
La bellezza è un limite o un vantaggio?
Mi dicono di avere un bel viso ma non mi sento così bello. Forse perché non mi importa: credo che sia tutto relativo, sono un fautore del relativismo estetico (ride, ndr). Nel caso di Do ut des, ho messo questo mio volto un po’ angelico, da puttino, al servizio di un personaggio che di fatto è mefistofelico e che non risulta buono agli occhi degli altri. Tu ti fideresti mai di una persona che è palesemente cattiva dal punto di vista estetico? Ovviamente no. Ho messo dunque questa mia caratteristica a servizio del personaggio, considerandola un vantaggio.
Come pensi che reagirà il tuo pubblico di riferimento abituato a vederti in panni che tutto sono fuorché mefistofelici?
Non credo che il pubblico della Melevisione guardi questo film per la mia presenza: è passato tanto tempo da allora. Ma forse nemmeno quello di Il paradiso delle signore… Pur credendo che un film parli a tutti, chi cerca quelle caratteristiche rassicuranti in me non le vedrà in Michael: è un personaggio che parla in maniera diversa a un pubblico forse diverso.
Ti sei almeno divertito nei panni del cattivo?
Da morire. Quando lavoro, è sempre catartico: ci sono sia elementi di affinità con me che altri molto lontani, come dicevo prima. Per esempio, ho portato in scena uno spettacolo teatrale molto fortunato: Coriolano. Insieme al regista avevamo lavorato sugli aspetti puerili del protagonista, cercando delle affinità con me. Ho quindi spinto sull’innocenza, sulla fanciullezza e sulla purezza, però a differenza di Coriolano nella vita di tutti i giorni non mi sento un condottiero che si lancia in prima linea con due gladi romani a combattere! Ho sempre trovato divertente sperimentare quello che potrei essere ma che in qualche modo ho scelto nella vita di non essere.
Pur senza essere un soldato romano, hai dimostrato anche particolare coraggio nel diventare padre a 29 anni in un momento storico in cui si tende a rimandare sempre più il momento di avere un figlio.
Sì, coraggio e incoscienza. Sono stato molto fortunato perché ho avuto una compagna vicino che mi ha permesso di realizzare quello che non credevo essere un mio sogno. Non è facile diventare genitori, né dal punto di vista economico né da quello sociale. Un tempo, soprattutto al sud, era diversa la concezione di famiglia: c’era in qualche modo una tribù intorno che ti aiutava a crescere un figlio. Oggi è tutto cambiato, i nonni lavorano ancora e la società ha tendenza a isolarti. La definisco la “società della solitudine”: restiamo in casa a guardare le piattaforme, chiamiamo un deliver per il cibo e usciamo sempre meno.
Avere un figlio così presto è una scelta coraggiosa e incosciente in alcuni casi. Ma, se tornassi indietro, la farei ancora prima: avrei più freschezza mentale e più forza per stare dietro a un bambino.
Com’è stato il passaggio da figlio a padre?
Premesso che sono ancora figlio, è stato in qualche modo un’epifania. Ero molto concentrato su me stesso prima di avere mio figlio ma la paternità ha fatto spostare la mia attenzione: improvvisamente, ho capito le scelte di mio padre, i suoi comportamenti e le sue parole. Diventando genitore, mi ha fatto mettere nella prospettiva di mio padre: paradossalmente, posso dire di averlo conosciuto e capito meglio a 29 anni. Anche perché, da neogenitore, non sapendo cosa fare, cerchi inconsciamente un modello di riferimento, qualcosa che hai già vissuto o che comunque già conosci, cercando di capirne pregi e difetti.
Ho anche sviluppato un’empatia maggiore verso tutti e si è accentuato il mio senso di responsabilità. Non mi viene in mente altra gioia più bella che quella di diventare padre, non si può comparare con un altro. Spesso mi fanno sorridere quelli che chiedono “vorresti vincere un Oscar o avere un altro figlio?”, come se fossero gioie comparabili, non concorrono nella stessa categoria e una non esclude l’altra.
Tuo figlio non è l’unico bambino che ti circonda: insegni recitazione nelle scuole materne, elementari e in certi casi anche medie. Cosa significa per te?
Non voglio far polemica ma il teatro dovrebbe diventare materia istituzionale di insegnamento. Viviamo in una società in cui i bambini sono sempre più oberati da attività: vengono spinti a vivere nel fare, nell’avere e nel possedere, e non verso l’essere o il sentirsi, tanto che a volte capita che già in tenera età qualche bimbo non sappia controllare le proprie emozioni.
Il teatro ha la funzione di fargli esperire le emozioni, di fargliele vivere in modo da formare un ragazzo o un adulto equilibrato. Trovo che sia utile far conoscere loro determinate emozioni per saperle poi controllare: è giusto che si sentano tristi senza sentirsi frustrati o che piangano senza sentirsi sbagliati. È alla loro età che occorre sviluppare empatia, capire l’altro, mettersi nei suoi panni e sposarne la prospettiva, sviluppando l’altruismo, una dote che non vuol dire annullare se stessi.
E cosa ricevi in cambio da loro?
L’entusiasmo. Rubo il loro entusiasmo, che poi cerco di riportare e mantenere anche nel mio lavoro. Crescendo, la società prova a spegnerti e deluderti. Quasi sempre ci riesce ma bisogna conservare il fanciullino che abbiamo dentro, senza voler scomodare Pascoli. È importante continuare a vedere il mondo con gli occhi puri e non avere paura della verità.
Si sono realizzati i sogni che avevi da bambino?
I sogni che si fanno da bambini o da ragazzi sono sempre più d quelli che potrai poi realizzare concretamente nella vita: sono infiniti. In parte li ho realizzati e in parte no: quando è subentrata l’età della ragione, ho lasciato andare i sogni che ritenevo impossibili e ho conservato quelli essenziali, veri.
Un sogno impossibile?
Da piccolo volevo essere Batman. Certo, potrei avverarlo interpretandolo oggi al cinema ma dopo aver visto Christian Bale farlo non credo che nessuno possa mai più essere alla sua altezza.
Eppure, il tuo sogno di diventare attore matura appena adolescente: avevi sedici anni quando hai cominciato a frequentare la tua prima scuola di teatro. Contenti allora i tuoi genitori?
I miei hanno sempre appoggiato la mia voglia di provare e sperimentare. Non ho avuto grandi ostacoli da parte loro: hanno in qualche modo capito la mia mia esigenza di comunicare a un livello più profondo delle parole e il mio desiderio di essere anche socialmente utile.
Ovvero?
Una rappresentazione teatrale o un film possono far sorgere qualche domanda o dubbio nello spettatore. Possono farlo stare meglio o male, metterlo in crisi o porlo di fronte a un cambiamento volto generalmente al miglioramento. Qualora riesca in questo compito, sarò stato utile al genere umano e in primis a me stesso. Traggo beneficio nel mettermi nei panni degli altri, siano in carne e ossa o scritti su carta. Ne sono convinto e non sono il solo a dirlo.
Quale personaggio interpretato ti ha cambiato profondamente la vita?
In qualche modo, tutti. Li affronti con la maturità del momento ma ti accorgi negli anni di quale traccia abbiano lasciato.
E da spettatore?
Sono tanti i film che mi hanno segnato. Penso alla visione a scuola di L’attimo fuggente, un’opera che in qualche modo di responsabilizza. Ma ce ne sono altri che non so se mi abbiano cambiato la vita ma che sicuramente mi hanno colpito: M – Il mostro di Düsseldorf di Lang o C’era una volta in America di Leone… chi fa il mio mestiere, guarda anche due film a notte e la lista potrebbe essere molto lunga.
Sogni ancora?
Sì, ma quando dormo. A occhi aperti ho meno bisogno di sognare: sono più felice adesso. Non che prima non lo fossi ma ora mi sento più pieno, realizzato.