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“Chi crede nel successo, non è libero” – Intervista esclusiva al cantautore Luca Carocci

Luca Carocci è al suo terzo disco, fatto di scrittura evocativa e suoni avvolgenti. Ed è un cantautore fuori da ogni schema imposto dal mainstream. Ha portato valigie in giro per il mondo, le ha svuotate ed è ritornato in Italia con un’idea diversa sul chi era o sulle cose di cui aveva bisogno.
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Luca Carocci è al suo terzo album, Serenata per chi è nervoso. Uscito per l’etichetta FioriRari, creata da Roberto Angelini nel 2006, è un lavoro libero e fiero di esserlo, in cui Luca Carocci racconta la sua visione del mondo che lo circonda. Canta di temi come l’amore, l’inclusione e l’amicizia con parole e immagini ricercate che arrivano dritte al sodo e senza girarci mai intorno.

Chi in questi giorni ha visto su Sky Cinema il film Va bene così di Francesco Marioni ha avuto modo di avere un assaggio del lavoro e della musica di Luca Carocci. Marioni si è affidato a lui per la colonna sonora e ha scelto la sua La parte di me, un brano che “parla di perdita e di rimpianto con una leggerezza nella melodia che rende belle e malinconico il ricordo del passato”, per dirla con le parole del regista.

Serenata per chi è nervoso è un album dai mille sapori diversi, tutti dosati dallo stile unico del cantautore romano, nato ad Artena ma da sempre in eterno movimento. Ha lasciato il suo paesino “di briganti” da giovane, dopo il servizio militare come paracadutista della Folgore, per andare in Sri Lanka, una meta all’epoca non certo turistica o da movida. Ha inseguito se stesso e si è trovato scegliendo dopo anni di tornare in Italia e di portarsi le valigie di esperienza che aveva accumulato.

Un’esperienza che ha portato Luca Carocci a non cedere alle sirene dell’effimero. E te ne accorgi ascoltando il nuovo album, che ha interamente prodotto artisticamente e in cui figurano la presenza di voci come Ilaria Graziano, Alessandro Pieravanti e la partecipazione di musicisti come Roberto Angelini, José Ramon Caraballo Armas, Andrea Ruggiero.

Evocativo e mai banale ha una scrittura particolarmente originale. Perché crede innanzitutto in quello di cui canta. Crede nell’essenza piuttosto che nell’apparenza, nell’essere se stessi al di là delle mode o del successo, nell’essere non uniformati e alla libertà di pensiero unico, che nasce dall’incontro e non dall’esclusione. Ma crede anche nell’amore e nell’amicizia, valori che non sempre oggi vengono considerati come vincenti in un mondo frenetico e, ahinoi, bellicoso.

TheWom.it ha incontrato Luca Carocci per conoscere da vicino la sua arte, quell’arte che in epoca pre-Covid  lo aveva portato a suonare persino a Dubai insieme a un gruppo di altri “nuovi” cantautori italiani: Niccolò Carnesi, Dimartino, Margherita Vicario e Lucio Corsi. Ma anche per conoscere lui come persona ed entrare in punta di piedi nel suo mondo.

Luca Carocci (photo by Simone Cecchetti).
Luca Carocci (photo by Simone Cecchetti).

Intervista esclusiva a Luca Carocci

Quando hai cominciato a suonare la chitarra? Com’è stato per te, giovane della provincia romana, lottare per fare il primo disco?

Non sapevo proprio da dove cominciare. Anche se poi, il primo disco l’ho fatto moltissimi anni dopo. Ci sono state bozze di primi dischi che non mi sono mai concretizzate. Separano solo 30 km Artena, dove sono cresciuto, da Roma. Ma ho dovuto fare un giro abbastanza lungo per arrivare a Roma.

La chitarra è uno dei misi strumenti preferiti ma, in realtà, ho cominciato a suonare giovanissimo la batteria. Avevo cinque o sei anni. Sono passato alla chitarra verso i dieci o undici anni. Ma perché mi piaceva una che suonava la chitarra: con la batteria, si rimorchiava poco. Scherzi a parte, era uno strumento che mi potevo portare sempre dietro: non andavo da nessuna parte se non avevo la chitarra! La musica è stata per me qualcosa di fulminante: avevo il bisogno di suonare in tutti i posti e quasi in tutti i momenti. Ho suonato veramente per ore senza aver preso mai una lezione di chitarra. Poi, ho studiato da solo alcune cose e ho fatto ingegneria inversa per capire cos’erano.

Ricordi quali sono stati i primi pezzi che hai suonato? I classici pezzi del cantautorato italiano che un po’ tutti quanti proviamo a suonare o altro?

Ho cominciato a suonare i brani di un disco che mi piaceva molto, Atom Heart Mother dei Pink Floyd. Avevo comprato il libro di spartiti e nessuno ancora li conosceva. A tante ragazze ho dedicato canzoni dei Pink Floyd che dicevo di aver scritto io. Me la potevo giocare facile. De Gregori e gli altri, invece, li conoscevano un po’ tutti… Era un gioco che facevo e che mi divertiva molto.

Poco più che adolescente, hai deciso di lasciare Artena intraprendendo quel percorso lunghissimo che solo dopo tanti anni e chilometri ti ha portato a Roma. Sei partito per lo Sri Lanka. Non era di certo un posto che rientrava negli itinerari turistici consueti.

Il mio primo stacco da casa è stato il servizio militare a diciannove anni, un po’ come per tutti quelli della mia generazione. Ho svolto il servizio nella Folgore, sono un ex paracadutista. Un’esperienza abbastanza formativa. A parte il rigore, la disciplina e l’ordine, ho imparato delle cose specifiche, altrimenti non sarei mai potuto andare in Sri Lanka da solo. Non me la sarei sentita. L’esperienza mi ha aiutato a capire che potevo osare, potevo andare e dovevo andare da qualche parte.

Nel 1996, nessuno pensava di andare nello Sri Lanka. Ero molto affascinato dal poter vivere sull’oceano e in un posto, come dire, abbastanza selvaggio. Avevo anche la passione per il surf e le onde. Un amico mi disse che aveva la dritta di un altro amico per andare in Sri Lanka. Vuoi andare? E sono andato.

Ma non ti fermi lì. Vengono dopo Miami, il Brasile, la Grecia, il Messico. A cosa si deve quest’anima giramondo?

In Sri Lanka sono rimasto all’incirca tre o quattro anni. Quando poi inizia a girare, continui a farlo. Ci avevo preso gusto: andando in un posto dove nessuno ti conosce, hai la libertà di fare ciò che ti pare. A differenza di un posto piccolo come quello in cui sono cresciuto, dove ti conoscono tutti e conoscono la tua famiglia.

Una volta che capisci chi sei, finché non torni a casa, non sai cosa puoi fare o cosa può funzionare. Il viaggio deve finire, altrimenti resti un emigrato.

Luca Carocci

Perché allora decidi di rientrare in Italia? È quasi un controsenso.

Una volta che capisci chi sei, finché non torni a casa, non sai cosa puoi fare o cosa può funzionare. Il viaggio deve finire, altrimenti resti un emigrato. Ho seguito molto il flusso della vita, di quello che mi succedeva. Non ho mai cercato di forzare più di tanto. Per un sacco di tempo, mi sono sentito in balia della vita e delle sue correnti. Che ti portano anche dove non vuoi andare o a fare cose di cui non sei neanche convinto. Piuttosto che star fermo, faccio.

Quando sono rientrato in Italia, ho avuto uno shock fortissimo. L’Italia era completamente cambiata. Dagli anni Novanta ai fine anni Duemila, mi son trovato davanti a tutta un’altra situazione.

Hai allora inciso il tuo primo disco, Giovani eroi. Lo hai prodotto tu. Poi è arrivato Missili e somari, opera seconda. Hai prodotto quello che anche tu?

Artisticamente, il primo disco l’ho prodotto insieme a Gnut, Claudio Domestico. Il secondo disco invece lo hanno prodotto artisticamente Filippo Gatti degli Elettrojoyce ed esecutivamente Pietro Sermonti, un’accoppiata fortissima.

Luca Carocci (photo by Simone Cecchetti).
Luca Carocci (photo by Simone Cecchetti).

Nelle canzoni o nei dischi, ultimamente, si parla sempre di “tu… tu”, nessuno che si esponga in prima persona o si metta nella condizione di far capire agli altri quanto sia importante essere se stessi.

Luca Carocci

E sei arrivato anche al terzo disco, Serenata per chi è nervoso. Quanto è difficile oggi realizzare un disco per un artista in Italia? Viviamo in un momento in cui tutto deve essere a uso e consumo immediato. Lo streaming detta legge e immagino che produrre un disco non sia una passeggiata. Così come trovare chi lo distribuisce e chi ci punta credendoci. Il sistema musica è cambiato tantissimo negli ultimi anni.

In Italia credo ci sia grandissima confusione su chi fa cosa. I dischi di musica da intrattenimento ci sono sempre stati, anche in periodi meravigliosi in cui la musica d’autore o di un certo tipo la faceva da padrone. Oggi, purtroppo, quello che mi fa strano è che si è interrotta una linea. Il cantautore piuttosto chi fa musica di un certo tipo ha tirato proprio i remi in barca: non si capisce dove sono, cosa fanno.

Vedo un grande appropriarsi di spazi. Quelli piccoli o più piccoli di quelli dell’intrattenimento sono stati invasi da persone che fanno finta di fare musica e di essere persone perbene. E l’italiano è un popolo di quelli a cui non interessa cosa fai: se gli sei simpatico o dici ciò che vuole sentire, comunque gli vai bene. Guardate adesso: c’è la guerra ma non sento uno che dica la propria. Nelle canzoni o nei dischi, ultimamente, si parla sempre di “tu… tu”, nessuno che si esponga in prima persona o si metta nella condizione di far capire agli altri quanto sia importante essere se stessi.

Un musicista giovane, oggi, con questo tipo di esempi, che eventuale disco può fare? Nessuno. I pochi che hanno le idee chiare, poi, si rimboccano le mani e devono imparare la musica. Solo una volta che l’hanno imparata, sono liberi di farselo il disco. La distribuzione è quella che è. Per fortuna, a casa si riesce con un tremila euro di attrezzatura a registrare più o meno qualcosa.

La critica osanna sempre le stesse cose. In Italia, i critici fanno funzionare chi già funziona. Se un giornalista mette in discussione ciò che funziona, rischia quasi il posto.

Ma l’Italia è anche quel Paese che si fissa con i generi. Se un genere funziona, lo si deve ripetere all’infinito, fino alla nausea. Arriverà il momento in cui si capirà che è proprio la varietà di generi la chiave giusta?

Certo. Altrimenti ci sarà la monocultura. Se si pianta sempre lo stesso grano, spariscono tutte le altre varietà e dopo un po’ il terreno diventa arido.

Serenata per chi è nervoso arriva a cinque anni di distanza dal precedente lavoro. Immagino sia frutto di ricerca interiore da un lato e dall’altro lato di pigrizia, come hai dichiarato in un’intervista. Le tue non sono canzoni “usa e getta”. Ogni brano ha un tema all’interno che, attraverso parole anche giocose, è abbastanza importante. Amore, accettazione non solo dell’altro ma anche di sé, inclusione, amicizia.

In Italia abbiamo dei locali “esclusivi”. Ma siamo impazziti? Non stiamo più attenti alle parole. La parola, comunque, si trasforma in cosa che da forma alle cose, come diceva qualcuno. È importante stare attenti a quello che si dice, le persone ci credono. Non possiamo prendere la musica o la scrittura o la poesia, tutta l’arte in genere, e piegarla a nostro piacimento. Prima o poi, smette di parlarci. Tutti pensano alla propria piscina e mai al mare: si è interrotto il concetto di socialità.

Secondo te, per quale motivo?

Perché ci hanno detto che siamo tutti uguali da qualche anno a questa parte. Questa cosa è distruttiva perché non è vera. Diventa frustrante pensare che io sono uguale a uno del Senegal, per dire. Non sono uguale. Attenzione, non vuol dire che sono migliore.

La diversità andrebbe dunque coltivata e non uniformata.

La colpa è dei social ma anche dei film. Non possiamo non dire che c’è un’industria discografica che poi è collusa con le industrie alimentari piuttosto che di abbigliamenti, di alcolici o quant’altro. Si cerca di dividere tutto per due e non per centomila. Dividere per due è facile: è come dire “ho il veleno e anche l’antidoto”. Puoi essere in accordo o in disaccordo. Non si può essere in accordo su alcune cose e in disaccordo su altre o tirarne altre ancora fuori. Il mio disco è una grande domanda: non c’è nessuna risposta. Chi non collabora ascoltando, la risposta non la trova. Serenata per chi è nervoso non gli lascia niente.

Il ricordo è un futuro non appagato, quindi lo ricerchi.

Luca Carocci

I ricordi ti proiettano nel futuro”, dici nel presentare Il segno del costume, una delle canzoni del disco. Ma i ricordi sono sempre legati al passato. Com’è che ti proiettano verso il futuro?

È il passo indietro che fa fare il passo in avanti. Non c’è dubbio. Se invece fai il salto indietro rispetto al passo, allora è un grande problema. Il ricordo è un futuro non appagato, quindi lo ricerchi.

Quali sono i ricordi a te più cari?

Ho delle sensazioni di ricordo, non mi ricordo una cosa specifica. Mi ricordo degli odori, delle luci… sono sempre legate alla natura. Per me l’arrivo della primavera è una cosa meravigliosa, che amo da morire. Oppure il camino in inverno, l’odore del cibo cucinato in un certo modo. È roba per me evocativa e, quindi, la ricerco nel futuro. L’ambiente in cui vivo è fondamentale. Il disco parla più di luoghi che di persone. Nei luoghi devi andarci, non puoi telefonargli. Il luogo ti fa muovere.

Io ho perso tutto quello che era superfluo, tutto quello che non mi andava più di portarmi dietro: viaggiando, devi andare leggero. Anche affettivamente.

Luca Carocci

“Se ho perso delle cose per andare a vedere cose che dovevo vedere… erano cose che andavano perse” è da incorniciare. Campeggia nella copertina del tuo primo disco. E tu cosa hai perso?

Questa non è mia. L’ho estrapolata dalla poesia di un mio carissimo amico, Fulvio Benelli. È un giornalista, ha appena pubblicato un libro con Cristiano Barbarossa, Crimine infinito, un’indagine sulla ‘ndrangheta. Da giovane, ha scritto un volume di poesie da giovane, Il fuoco e le febbri, e le parole appartengono alla poesia Roma – Delhi, solo andata. Io ho perso tutto quello che era superfluo, tutto quello che non mi andava più di portarmi dietro: viaggiando, devi andare leggero. Anche affettivamente. Quello che non ti serve, cominci ad avvertirlo immediatamente come impiccio e, quindi, lo poggi, lo lasci.

Tu mi ricordi l’estate, la prima traccia di Serenata per chi è nervoso, fa pensare molto a Gino Paoli, con l’accostamento che fa del mare alla figura femminile, delle persone ai luoghi. Ed è una canzone che si chiede anche qual è il peso di essere se stessi.

Parla della Sardegna. Lo prendo come un complimentone. Oggi ci si lascia su WhatsApp, ci si lascia su WhatsApp, si parla di cose serissime attraverso i vocali. Roba da pazzi. L’incontro è fondamentale.

Aspetterò febbraio usa la metafora del Carnevale per sottolineare come occorre liberarsi dalle maschere che usiamo nella vita di tutti i giorni. “Mi vestirò da Adamo con una foglia sui testicoli e il sole sopra il culo”. È un invito a essere se stessi e a riscoprire l’essenza sull’apparenza. Un po’ in controtendenza con quello che accade nella società in cui viviamo.

Se uno vuole essere felice, può esserlo. Ai ragazzi, che mi chiedono qualcosa, dico sempre: “Guarda che sai fare tutto. Praticalo. Sai far tutto, quello che non fai dipende da te”.

Il successo è successo: come dice la parola stessa, è passato. Chi crede nel successo non è libero.

Luca Carocci

L’insuccesso mi ha dato alla testa colpisce sin dal titolo, al di là dell’inno alla libertà cantato e dal gioco di rime che prende bonariamente in giro i tormentoni. Cos’è l’insuccesso per te?

È tutto quello che deve ancora succedere. Il successo è cristallizzato nel mantenere una posizione. Un artista non può preoccuparsi di questa roba. Altrimenti, passi la vita a difendere il divano che hai comprato ottomila euro e non ti ci siedi sopra per proteggerlo. Il successo è successo: come dice la parola stessa, è passato. Chi crede nel successo non è libero.

Dopo un anno che avevo scritto la canzone, mi hanno fatto notare che la stessa frase è contenuta in un libro di Ennio Flaiano. Non ne avevo idea. Mi sono andato a documentare e mi son letto quasi tutti i suoi lavori. Mi sembra quasi mio cugino. E mi dispiace che sia morto perché altrimenti mi sarei fatto volentieri una chiacchierata con lui.

Oggi, a prescindere che tu sia di destra o di sinistra, manca una divisione fondamentale. Quella tra persone perbene e persone non perbene, tra persone oneste (anche intellettualmente) e persone non oneste. È l’unica divisione che concepisco. E il pezzo parla di questo.

Quando ho deciso di cominciare a fare musica come lavoro e di rimanere disoccupato, ho perso un bel po’ di cose, fidanzate comprese. A quarant’anni mi sono trovato senza un euro in tasca. E un po’ ci prendi gusto: quando impari il tuo mestiere e arrivi a capire perché lo fai, è di per sé una grande ricchezza. Vai a dormire la sera sereno.

A proposito di dormire, canti che dormi anche da sveglio.

Per anni l’ho fatto, sì. Si fa fatica a dire no. Oggi si spende molto di più di una volta. E per cose di cui non abbiamo bisogno. Siamo schiavi di un lavoro che non ci piace per pagare roba di cui non abbiamo bisogno.

L’altro ha gli stessi dubbi miei, le stesse paure. Forse abbiamo ricevuto solo input diversi. Se c’è qualcuno che dà input, c’è qualcosa che non mi quadra su chi ci comanda.

Luca Carocci

E Ogni volta che dormo da sveglio è anche un brano che parla di inclusione. “Ogni uomo è mio fratello”.

Mi sembra normale. L’altro ha gli stessi dubbi miei, le stesse paure. Forse abbiamo ricevuto solo input diversi. Se c’è qualcuno che dà input, c’è qualcosa che non mi quadra su chi ci comanda. Risale a Giulio Cesare, dividi et impera. Non capisco come la gente possa incazzarsi per l’appartenenza a una squadra di calcio diversa, a uno schieramento politico. Sono queste le persone che dovrebbero incontrarsi: quelli di un collettivo musicale dovrebbero andare da quelli di Casa Pound e parlarsi. Altrimenti è inutile parlare con coloro che avvalorano la tua tesi, si creano blocchi che sfociano in scontri devastanti.

È un pensiero che ritorna anche in Roma/Milano: “tutto può coesistere, tranne chi esclude”. Serenata per chi è nervoso, l’ultima canzone dell’omonimo disco, ha invece al suo interno una sorta di stornello. Che dialetto è?

È in artenese, il mio dialetto. È specifico di Artena, paese da diecimila anime che risale al V secolo avanti Cristo e che è molto particolare. Il mio è il paese storicamente dei briganti, antipapale e matriarcale (si adora solo la Madonna). Da noi si dice: pianti un broccolo e cresce un brigante”. Il principe di Artena era quel matto di Valerio Giulio Borghese.

È abbastanza particolare, è arroccato ma è alle porte di Roma. Ha un dialetto diverso dai paesi circostanti. Ho pensato che l’unico modo per raccontare quella dedica a chi semina senza raccogliere era in artenese.

Ed è dedicata a un amico.

Sì, a un amico che non c’è più da poco.

Una delle immagini che ritorna nelle tue canzoni è quella del divano.

Il divano, per me, se è preso dal senso giusto diventa navicella. Dal verso sbagliato, invece, diventa tomba. Non c’è più riposo, c’è solo preoccupazione. In questo periodo, ad esempio, schiafferei dentro un bel po’ di giornalisti. Non si può insegnare alla gente di preoccuparsi di continuo di cose che non può risolvere. Con accanimento e raccontando la guerra non parlando di come uscirne o di pace ma, semplicemente, in maniera voyeuristica. E poi chi ascolta questo racconto è lo stesso che non parla con il fratello, litiga con il figlio o tradisce la moglie. In definitiva, che non risolve cose che potrebbe risolvere. Ci danno l’illusione di preoccuparci di roba che non possiamo risolvere per evitare di risolvere quello che dovremmo risolvere.

Quanto è importante per te suonare live?

A me piace molto suonare, anche se credo di essere uno dei pochi che non ha un booking. Mi conoscono molto gli addetti ai lavori, i musicisti, i cantautori. Suonare è fondamentale per un artista: prima di fare un disco dovrebbe, anzi, suonare tanto. Ogni volta che suoni davanti a qualcuno, acceleri il processo di comprensione di te stesso almeno del doppio. Io mi vedo attraverso gli altri. Non riesco ad avere un’idea di me statica: è importante mettersi alla prova.

Luca Carocci (photo by Simone Cecchetti).
Luca Carocci (photo by Simone Cecchetti).
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