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Luca Ward: “La tenerezza che manca” – Intervista esclusiva

Luca Ward
Attore e doppiatore, Luca Ward si racconta a The Wom in una lunga intervista nel segno della tenerezza e della nostalgia. Ma anche dell’amarezza per un mondo del cinema che non è più quello che ha conosciuto da bambino, tra i consigli di Mastroianni e le cene con Fellini.
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Luca Ward è con la sua voce il protagonista maschile del cortometraggio Io sono il vento, diretto da Flavio Bernard e prodotto da Piuma Film. Presentato alla XVI edizione del Marateale, Io sono il vento ha un cast d’eccezione che, oltre a Luca Ward, comprende anche gli attori Marilina Succo nel ruolo della protagonista femminile, Daniela Cavallini e Alessandra Paganelli.

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La storia segue Marilina, una giovane donna che ritorna al Sud Italia dopo molti anni trascorsi in una grande città del Nord. L’esperienza nella metropoli l’ha resa dura e diffidente, ma l’arrivo di una mail da parte di uno sconosciuto le offre una nuova prospettiva sulle persone e le situazioni intorno a lei. Io sono il vento esplora sentimenti profondi come la tenerezza, la nostalgia e l'auto-scoperta, e indaga se questi possano resistere alla prova del tempo e degli incontri.

Luca Ward è lo sconosciuto che manda le mail a Marilina o, meglio, la sua voce, dal momento che per gran parte del tempo si sente esclusivamente quella. Una voce che da sempre comunque è stato il tratto distintivo di Luca, tra i più apprezzati doppiatori italiani, oltre che valido attore. Dopo averlo apprezzato di recente in Mameli, lo rivedremo in autunno su Rai 1 nella terza stagione di Mina Settembre, lo ascolteremo nei panni di Dottor Destino per una serie audible e lo troveremo in teatro con uno spettacolo in cui interagirà con il pubblico.

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Ma la voce, tuttavia, non può che essere uno spunto di partenza per il nostro incontro. Croce o delizia che sia, ha segnato il suo percorso professione e personale. La sua è da sempre una famiglia di grandi doppiatori, tradizione che continua a essere portata avanti anche da una delle sue figlie, Guendalina.

Prendendo spunto dai temi del cortometraggio, Luca Ward si lascia pian piano andare a un’intervista che mescola lavoro e vita privata, lasciando spazio a considerazioni sul presente e a ricordi mai prima raccontati. Dalla morte del padre quando era poco più che un bambino ai grandi successi, dalla relazione con i figli all’alchimia con la moglie Giada Desideri, anche lei attrice. E quello che ne viene fuori è un giro sulle montagne russe sulla vita di un uomo che non ha voglia di certo di restare a guardare.

Luca Ward.
Luca Ward.

Intervista esclusiva a Luca Ward

“È complicato, non saprei neanche definirlo”, ci risponde Luca Ward quando gli chiediamo di raccontarci a parole sue il personaggio a cui presta la voce nel cortometraggio Io sono il vento. “Non sappiamo nemmeno se esista realmente oppure no. Di sicuro, usa la mail come strumento per iniziare un dialogo con la protagonista, una sorta di corteggiamento che lei in un primo momento non prende molto sul serio. Ma, poiché sa corteggiare molto bene, lei finisce per cascarci”.

Una dinamica molto attuale, considerando le molte relazioni che nascono grazie al web, anche con presunti corteggiatori che la cronaca ci insegna potrebbero essere inesistenti.

Ho pensato anch’io a tale ipotesi. Il fatto che sia un argomento caldo e molto attuale la dice lunga anche sulla vulnerabilità delle donne o, comunque, delle persone sole, che facilmente cadono preda di individui che non sono mossi da buone intenzioni. Non è il caso del cortometraggio, nato con altri propositi, ovvero quello di mostrare dei luoghi meravigliosi della nostra Italia. È un aspetto su cui dovrebbero puntare tutte le produzioni italiane… abbiamo squarci di terra che purtroppo molto spesso il nostro cinema non valorizza e che invece sono molto apprezzati all’estero.

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Quando gli stranieri si imbattono in un film italiano che presenta ampie paesaggistiche lo stupore è grande. Peccato, però, che non ci siano chissà quante storie in grado di varcare i confini: a livello di sceneggiature, rimaniamo molto provinciali e i nostri prodotti non vengono venduti al di fuori dei confini nazionali.

Il poster di Io sono il vento.
Il poster di Io sono il vento.

In Io sono il vento si sente la tua voce ma non si vede il tuo volto, un po’ come Scarlett Johansson in Her – Lei di Spike Jonze…

Si tratta di due storie molto diverse, tanto che sul finale il mio personaggio si vede o, per lo meno, ci si immagina che possa essere lui la voce in questione.

…ma il punto rimane un altro: reciti per tutto il tempo solo con la voce. Consideri la tua voce una croce o una delizia?

Da un lato, la definisco una grande fortuna: non si tratta solo di avere una bella voce ma anche di saperla usare. Dall’altro, invece, è quasi una condanna perché tutti mi identificano come doppiatore e non come attore, soprattutto qui in Italia, dove per un modo di pensare, squallido e pregiudizievole, un doppiatore non è un attore. Ci si dimentica che per lavorare come doppiatore a certi livelli occorre avere alle spalle una certa esperienza teatrale o non si è nessuno. Negli ultimi vent’anni c’è stato un piccolo sdoganamento ma si fa ancora molta fatica…

Una fatica che nel mondo del doppiaggio è aumentata anche per via dei social in grado di creare figure come gli influencer che spesso vengono chiamati a doppiare dei film, soprattutto d’animazione.

Comprendo le esigenze di marketing dei grandi distributori ma rimane un grosso problema di fondo: passa un messaggio che è sbagliato. Ognuno è libero di chiamare chi gli pare per un doppiaggio ma quando si affida un grosso protagonista a qualcuno che ha uno o due milioni di followers solo virtuali a un giovane che sta a casa arriva un messaggio che è fuorviante: per affermarsi, non occorre studiare o formarsi ma basta aprire un profilo su TikTok. Ed è devastante, anche perché agli influencer per fare il mio stesso lavoro danno anche molti soldi, spesso anche più di quanto percepisce l’attore più importante d’Italia.

Io sono il vento è un cortometraggio che affronta diversi temi come la tenerezza, la nostalgia e l’auto-scoperta.

Una delle ragioni per cui ho accettato di prenderne parte è proprio perché la sceneggiatura di Flavio Bernard e Maria Francesca Perna affrontava come tema quello della tenerezza in un mondo in cui invece oramai si attacca, denigra e offende chiunque con molta facilità. In una società di leoni da tastiera, il film va in una direzione completamente diversa valorizzando la tenerezza, l’educazione e il rispetto, valori che purtroppo stiamo perdendo di vista tutti quanti quando invece occorrerebbe ricordarsi del voler bene e dell’andare verso l’altro e non solo a parole.

Oggi, ad esempio, sentiamo parlare spesso di accoglienza ma alle belle parole non corrispondono i fatti: basta vedere ciò che si fa con i migranti e il modo in cui vengono trattati… ci sarebbe da vergognarsi e da scappare lontano da questo Paese, che dimentica come chi si ha davanti sono solo povere persone arrivate da noi dopo aver affrontato viaggi il più delle volte senza arrivo. Anziché aiutarle, si lasciano a dormire sotto un ponte o per strada e non si dà loro ricovero, assistenza, lavoro.

Luca Ward.
Luca Ward.

Cos’è per Luca Ward la tenerezza?

È molto importante. In vita mia, ne ho ricevuta tanta, ad esempio, da mio padre finché c’è stato. L’ho perso presto, a tredici anni, ma lo ricordo come un uomo che dava tenerezza e amore, dolcissimo. Il suo posto è stato poi preso da mia madre e dai miei fratelli ma anch’io ho cercato di fare come papà con i miei figli. Provo a farlo ancora oggi di continuo, anche se per lavoro sono poco presente.

So però quanto è importante esserci non solo qualitativamente ma anche quantitativamente: i figli hanno bisogno dei genitori, dell’abbraccio e della presenza, non quando decidi tu ma quando vivono loro un momento di tristezza o di sconforto. È con la presenza che ti accorgi dai loro occhi quando è il momento di esserci…

Ma è un ragionamento che possiamo estendere a chiunque: di recente, è stato guardando una signora anziana negli occhi che ho capito che aveva bisogno di aiuto quando intorno a me c’erano dei trentenni che non alzavano nemmeno lo sguardo dai loro smartphone. È come se la tenerezza stesse scomparendo: il dare una mano all’altro è a tutti gli effetti un gesto non solo di educazione ma anche di tenerezza, sinonimo del buon cuore che si ha e che batte in un certo modo.

Forse oggi siamo disabituati al cuore buono e siamo bersagliati soltanto da schifo. Non è una battaglia contro i social ma contro gli atteggiamenti. Anche perché in Italia sono stato uno dei primi attori a usare i social come strumento di lavoro e a intuirne le potenzialità. Ripetevo a chi era scettico che un giorno i nostri curricula non avrebbero avuto più senso perché non ce li avrebbe chiesti nessuno. Mi rispondevano che la mia era fantapolitica, eppure oggi la discriminante per certi casting non sono più le esperienze passate ma il numero di followers.

Non contano più le esperienze passate così come non contano i risultati? Penso nel tuo caso ad Elisa di Rivombrosa, con una puntata finale da 12 milioni e passa di telespettatori…

…con punte di 20 milioni, un ascolto gigantesco, mostruosa. La prima stagione di Elisa di Rivombrosa è stato l’ultimo grande sceneggiato televisivo mentre le altre due sono crollate a picco, senza che nessuno abbia imparato la lezione. Un tempo, quando qualcosa non andava, si correva ai ripari mentre oggi la sensazione è che non interessi più niente a nessuno: chi paga è solo lo spettatore che si ritrova davanti a programmi che con un eufemismo sono poco interessanti.

La nostalgia… mi sembra di capire che ne viva molta Luca Ward.

Purtroppo, sì. Ho un’età ormai in cui posso dire che l’ambiente in cui mi muovo è cambiato moltissimo da quando ho cominciato. Avevo tre anni quando ho mosso i primi passi su un set e ne avevo sette quando ho preso parte a uno dei grandi sceneggiati della Rai, Il conte di Montecristo, prodotti che si vendevano in 180 Paesi nel mondo e che attiravano l’attenzione dei grandi broadcast statunitensi: arrivavano intere delegazioni per carpirne il modello produttivo.

È chiaro che si sia nostalgia per quella magia che non c’è più e per i grandi produttori come Crisaldi, Ponti e De Laurentis, figure che oggi non esistono più. Chi produce cinema non mette quasi più mano in tasca propria, si punta solo ai finanziamenti ministeriali e lavorano sempre le stesse persone: un giovane, così, non ha nessuna possibilità di riuscire. Eppure, non interessa cambiare sistema.

L’ultimo grande film italiano ad aver preso un Oscar rimane La grande bellezza quando invece negli anni ’50, ’60 e ’70 qualche statuetta era sicuro che arrivava. Così come l’ultimo nostro film a fare il giro del mondo è stato Il postino, più di trent’anni fa… sono riusciti a distruggere una grande macchina come il cinema italiano: Cinecittà, quand’ero ragazzino, era fulcro di centinaia di film, produzioni, comparse, tecnici, attori, macchinisti, costumisti, elettricisti, mentre oggi è quasi deserta, trasformata nella casa del Grande Fratello. Qualche anno fa, lo stesso Hugh Grant si chiedeva come fosse mai stato possibile…

Da ragazzino, quando avevo i turni di doppiaggio a Cinecittà, ero felicissimo di andarci. C’erano i grandi set e da addetto ai lavori avevo accesso a ogni ambiente. Mi capitava così di incontrare maestri come Marcello Mastroianni, Anna Magnani, Vittorio Gassman… devo a Mastroianni uno dei più grandi insegnamenti: “Ricordati una cosa: se dovessi mai fare il mestiere di attore, quando sei sul set non chiedere mai niente perché la gente sta lavorando… se ti scappa di chiedere qualcosa, che sia una sedia: non te la negheranno mai”.

Non c’erano pretese o divismi. Al doppiaggio di Amarcord di Fellini, Giulietta Masina preparava la cena per tutti…

Nel citare Gassman, torna in mente come sia tu sia il grande Vittorio avete doppiato lo stesso personaggio per lo stesso film, realizzato negli anni con tecniche diverse: Mufasa in Il Re Leone.

Fa impressione essere chiamati a interpretare un ruolo che è appartenuto a un gigante del cinema mondiale come Gassman, attore ma anche grande doppiatore così come lo erano stati Adolfo Celi, Ugo Tognazzi, Alberto Sordi e lo stesso Mastroianni. Ai loro tempi, fare doppiaggio non era discriminante, anzi: rappresentava un quid in più.

Per Mufasa, sono stato l’ultimo degli attori a sostenere il provino: non ero nemmeno un’opzione fino a quando dagli USA non hanno richiesto esplicitamente me, “l’attore dal cognome americano” che aveva già dato voce a molti loro grandi attori. Già dopo un’ora dal provino, era arrivata la conferma. Ed essere stato il ‘sostituto’ di Vittorio non solo mi ha fatto piacere ma mi ha anche lusingato perché lo amavo tanto sia come artista sia come persona: il suo Profumo di donna rimane una delle più grandi interpretazioni in assoluto, eppure non avrebbe nemmeno fatto l’attore se non avesse insistito sua madre.

Il lavoro che abbiamo condiviso rimane comunque differente: Gassman ha lavorato su un film animato, io a un live action che mi ha dato anche qualche difficoltà. La produzione chiedeva che Mufasa fosse regale, ad esempio, mentre per me era più un papà che si relazionava con i figlio. Il risultato è stato comunque bello ed è entrato nella storia, tanto che una delle frasi da me pronunciate è la stessa che tanti ragazzi hanno poi scelto di tatuarsi addosso.

È curioso come le tue frasi rimangano nella storia ed entrino nel linguaggio collettivo. Una su tutte: “Al mio segnale scatenate l’inferno” da Il Gladiatore.

Dipendono da chi le ha scritte ma è anche il sentimento o l’emozione che si porta in una frase che fa la differenza, il modo in cui la porgi al pubblico. Ed io ho avuto la fortuna di imparare dai grandi: in sala di doppiaggio trovano i maestri, da quelli citati prima a Ferruccio Amendola… una fortuna che i giovani di oggi non hanno perché oramai in sala si lavora da soli da almeno vent’anni, un altro enorme impoverimento del settore perché se un giovane avesse la fortuna di entrare in doppiaggio con un signore come Francesco Pannofino qualcosa imparerebbe dal vederlo lavorare.

Luca Ward.
Luca Ward.

Una delle tue figlie, Guendalina, ha scelto il tuo stesso lavoro. Come hai reagito quando ti ha detto che voleva far la doppiatrice?

Mi è preso un colpo perché conoscevo le difficoltà del lavoro: se non si è certificati, non ci si sopravvive e non si va da nessuna parte. L’ho avvisata di quanto complesso e difficile fosse ma le è andata bene: è diventata una delle prime voci del doppiaggio italiano, anche se non era per nulla scontato.

La tua è comunque sempre stata una famiglia di grandi doppiatori. Papà, come hai ricordato prima, è andato via troppo presto. Cosa ha significato per te la sua assenza?

È stata una mazzata. Erano gli anni Settanta, mamma aveva solo 32 anni e all’epoca rimanere vedova con tre figli da crescere non era una passeggiata. Da famiglia tradizionale, papà era stato colui che portava i soldi a casa e la sua scomparsa ha generato uno sconquasso, facendoci piombare nella povertà più assoluta. Io stesso ho dovuto fare qualsiasi tipo di mestiere per guadagnare qualcosa: è vero che facevamo già doppiaggio ma il lavoro in sé era poco…

La morte di papà ha un’impronta particolare alla mia vita: se sono oggi l’uomo che sono diventato, lo devo probabilmente all’aver vissuto quella tragica esperienza nel 1973 quand’ero poco più che un bambino.

In chi hai cercato poi una figura maschile di riferimento?

Mi sono sposato molto presto, a 22 anni, e quel ruolo che mancava nella mia vita è stato ricoperto dal padre della mia prima moglie, Claudia Razzi. Era un capo edizioni del doppiaggio italiano, uno dei più importanti dell’epoca, e in quei vent’anni di matrimonio con sua figlia mi ha fatto un po’ da padre, regolando il mio modo di vivere. Prima di conoscere Claudia, ero senza regole e quelle che c’erano non le rispettavo in alcun modo proprio perché ero senza guida: il mio ex suocero mi ha fatto capire che vivere in quel modo era non solo sbagliato ma anche pericoloso. E, pian piano, mi ha riportato sulla retta via.

È strano, per luogo comune, sentir qualcuno parlare così bene dei suoceri…

Sono stato fortunato. Mi sono sposato due volte ed entrambe le volte ho avuto dei suoceri meravigliosi. Tra l’altro, il padre della mia seconda moglie, Giada Desideri (attrice, ndr), se n’è andato poco tempo fa: erano uno dei migliori piloti al mondo…

Dal tuo secondo matrimonio hai avuto altri due figli, Lupo e Luna. Nessuno dei due manifesta velleità artistiche simili a quelle di mamma e papà?

Sono molto confusi sul loro futuro. Sono giovani ma non troppo piccoli per capire che il loro Paese va in una direzione che a loro non piace. Spesso manifestano l’intenzione di voler andare all’estero, Lupo in Australia e Luna negli Stati Uniti dove per questioni di origini sarebbe favorita per i permessi e i documenti necessari. Li vedo dunque molto proiettati verso l’estero ma cosa faranno ancora non lo so.

Molto bella, Luna è stata già adocchiata dal mondo della moda e le piacerebbe anche lavorarci, anche se è consapevole delle difficoltà, mentre Lupo non sa ancora bene cosa fare: è un bellissimo ragazzo e ha una voce meravigliosa, molto più di quella che avevo io alla sua età, ma non voglio forzare in alcun modo la mano lasciandolo libero di scegliere.

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Tu non hai mai avuto la tentazione di andartene?

Sì, assolutamente. E ci ho anche provato qualche anno fa, prima che scoppiasse la pandemia da CoVid. Ho tentato di convincere mia moglie a trasferirci in Florida e avevo anche trovato casa. Avrei continuato a lavorare in Italia dal momento che con la mia età in America non mi si filerebbe nessuno ma quantomeno portavo i miei figli altrove e questo nonostante non la ami particolarmente, la trovo un po’ bigotta e meno fantastica di quella che ci raccontano.

Giada, tua moglie, ha di recente deciso di tornare a recitare dopo anni in cui è stata volontariamente lontana dal set. Con grande giubilo da parte dei fans tornerà nel cast di Un posto al sole, la soap di Rai 3. Come hai preso la sua decisione?

A incoraggiarla a tornare al lavoro sono stato io: aveva deciso di smettere quando è nato il nostro primo figlio per tutta una serie di motivi ed io non ho mai preso bene la sua decisione. Lo consideravo un gran peccato: è una bella donna, una brava attrice, recita in sei lingue ed era lanciatissima non solo in Italia ma anche in Europa… ma non ha voluto ai tempi sentire ragioni: voleva crescere lei i figli, seguirli e star loro vicino.

Ho rispettato la sua scelta ma qualche anno fa ho cominciato a romperle scatole: “Lavoro dal 1963, voglio smettere: se non ricominci a lavorare tu, come campiamo?” (ride, ndr). E alla fine sono riuscito a convicerla… e ora è contentissima di essere tornata sul set e ha ripreso anche fiducia in se stessa: ogni donna ha bisogno di essere indipendente e autoaffermata senza necessariamente dipendere da un uomo.

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Tra l’altro, quello di Un posto al sole è un contesto in cui hai bazzicato anche tu…

Mi sono trovato molto, molto bene su quel set. Ho molte esperienze di lavoro anche all’estero ma non ho dubbi nell’affermare che a livello organizzativo quel set sia uno dei più forti in cui abbia mai lavorato. Lavorare con quei tecnici e quei colleghi è molto facile e semplice, con un rispetto incredibile dei tempi.

Sei fino al 13 agosto in giro con un tuo spettacolo teatrale: Credo di essere tutti e nessuno.

È un impegno molto particolare: non è un monologo ma uno spettacolo fatto insieme al pubblico, motivo per cui ogni sera cambia ed è diverso. Ci sono sì dei fili conduttori e dei punti fermi ma varia in relazione agli spettatori e al modo in cui partecipano volontariamente allo spettacolo. Lo riprenderò anche dopo la pausa estiva.

Luca Ward.
Luca Ward.

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