Nel dialogo che segue con Lucio Provenza, ci si trova di fronte a un viaggio introspettivo che va ben oltre il percorso di un attore emergente: si entra nelle pieghe di un’anima sensibile, complessa, che ha trasformato le cicatrici del passato in strumenti di espressione. Lucio Provenza non è solo un interprete di ruoli, ma un giovane che ha saputo affrontare le sfide della vita come atti di un dramma personale, vissuti con intensità e profondità. Roma è oggi la sua casa, il rifugio in cui ha trovato equilibrio e respiro, ma dalle parole traspare un legame inscindibile con la Campania, la sua terra d’origine, che vibra nelle storie che interpreta e che riporta sempre al centro del proprio universo artistico.
L’amica geniale, su Rai 1 dall’11 novembre con l’attesa quarta stagione, e Napoli – New York, il film di Gabriele Salvatores in uscita al cinema il 21 novembre con 01 Distribution, sono più che semplici lavori nel suo percorso: rappresentano tappe di una ricerca identitaria, attraverso personaggi che, come Peppe Greco, camminano su linee sottili tra il bene e il male, mossi da una necessità esistenziale che Lucio riconosce come propria. È un’identità, la sua, costruita su ambizione e necessità, le stesse leve che hanno plasmato la sua arte e la sua resistenza. Ambizione, come dice lui, di vivere un sogno, e necessità di trovare nel mestiere d’attore un luogo di espressione libero dai giudizi e dalle convenzioni, dove può dare voce a un sé autentico e ancora in continua evoluzione.
Questo è un momento importante, carico di attese, per Lucio Provenza, ma è chiaro che la sua forza non viene solo dall’arte. Sostenuto dal ricordo del nonno, primo a riconoscere il suo talento e la sua passione, e dai sacrifici dei genitori, Lucio Provenza porta avanti un’eredità di amore e di sogni mai interrotti, anche se a volte ha dovuto confrontarsi con giudizi e pregiudizi. Il palco per lui è divenuto la sua copertina di Linus, il luogo in cui è sempre stato accolto senza riserve, senza quel peso del dito puntato che lo ha accompagnato fuori scena.
Mentre ci addentriamo in questa conversazione, vediamo un artista che, come lui stesso racconta, si è spesso trovato di fronte al giudizio degli altri e al proprio. Dai momenti di bullismo subiti da ragazzo alla perdita di peso e alla conquista di una sicurezza nuova, Lucio Provenza ha compreso che il processo di scoperta è fatto anche di dolore e di rinascita. La sua è una voce che parla di accettazione, di perdono, di volontà di andare avanti, sempre e comunque, in un mondo dove il ‘no’ è spesso la prima risposta ma che, forse per questo, rende ogni ‘sì’ un traguardo conquistato con il cuore e con la fede.
In Lucio Provenza riconosciamo non solo un giovane attore talentuoso, ma anche un ragazzo che ha imparato a stare in bilico tra luce e ombra, tra sogno e realtà, e che oggi ci offre uno sguardo intimo, sincero e profondamente umano sul valore dell’attesa, della speranza, e sulla bellezza della determinazione.
Intervista esclusiva a Lucio Provenza
“Sempre a contatto con l’attesa però vivo bene a Roma: è una bellissima città e oramai è casa per me”, risponde Lucio Provenza quando gli si chiede come stia e dove viva oggi dopo aver lasciato quella Campania di cui è originario e che fa da sfondo con Napoli alle vicende della serie tv di Rai 1 L’amica geniale, in cui lo vedremo nei panni di Peppe Greco.
Un personaggio, quello di Peppe, che nei romanzi di Elena Ferrante rimane sempre un po’ in ombra ma con cui Lucio Provenza ha imparato a relazionarsi sin da quando gli è arrivato il provino. “Nella descrizione che accompagnava il provino, Peppe non era altro che un ragazzo che per ambizione e per necessità decide di prendere la via del male, facendo una scelta che, a eccezione di Elena, viene condivisa almeno inizialmente da tutto il resto della famiglia. Ma, come la storia ci insegna, una volta intrapresa la via del male difficilmente se ne esce indenni”.
Per Lucio Provenza, questo è un periodo anche particolarmente carico di aspettative e forse è questo che meglio ci fa comprendere quell’attesa a cui accennava in apertura. Dal 21 novembre sarà infatti tra i personaggi che compongono Napoli – New York, il nuovo affresco cinematografico di Gabriele Salvatores portato in sala da 01 Distribution. “Interpreto un giovane medico che accoglie Celestina, la protagonista della storia, e le presta tutte le cure del caso dopo un terremoto. Lo si vede all’inizio della vicenda e ha l’ingrato compito di comunicare alla bambina che la persona con cui viveva, colei che crede sua zia, non c’è più”.
Ambizione e necessità, le due parole che hai usato per riferirti a Peppe Greco, tornano inevitabilmente anche nel percorso di u attore. Quanto sono state importanti per te?
Tantissimo. Nel caso di Peppe, corrispondono a due snodi narrativi importanti: ambizione perché vuole sicuramente emulare Marcello e Michele Solara, li ammira e di conseguenza vuole farsi strada e farsi rispettare; necessità perché, senza neanche spoilerare più di tanto, oltre a sopperire alla mancanza di soldi, deve provvedere alle esigenze della malattia della madre… con una situazione economica che non è delle migliori deve mettersi in gioco insieme al fratello e trovare una soluzione.
Nel mio caso, ambizione e necessità, sono sempre state due colonne portanti della mia esistenza. Sin da piccolo, ho avuto l’ambizione di voler fare l’attore a ottimi livelli e la necessità di fare un mestiere che non mi fa sentire giudicato… l’arte è l’unico contesto che mi permette di esprimermi senza sentire nei miei confronti il peso del giudizio né da parte degli altri né da parte di me stesso. In scena, do voce a quello che sento e lo metto al servizio del personaggio che devo interpretare.
Quante volte ti sei giudicato durante il tuo percorso di vita?
Troppe. Mi sono sempre messo in discussione e ancora continuo a farlo. Ho attraversato sin da piccolo fasi che mi portavano inevitabilmente a farlo: sono stato un bambino bullizzato e, anziché provare a reagire, mi giudicavo e mi addossavo la colpa di quello che accadeva. Pensavo che stesi sbagliando io qualcosa e di non essere giusto perché “mangiavo tanto” senza capire che in realtà accadeva perché ero depresso io in primis: mi sentivo emarginato, pesavo 120 chili e mi giudicavo per l’apparenza fisica. Non mi piacevo fisicamente ma solo interiormente ma non riuscivo a mostrare agli altri ciò che avevo dentro perché non me ne veniva mai data la possibilità.
Nella società delle immagini in cui tutti ci fermiamo all’apparenza, non c’era la voglia di capire cosa ci fosse dietro quel bambino. E il momento peggiore è stato quando mi sono dichiarato a una coetanea che mi piaceva tantissimo e che insieme a me seguiva un corso di teatro. Le ho chiesto innocentemente se le andasse di venire a prendere un gelato con me ma non scorderò mai la sua risposta sardonica: “Non ti sembra di mangiarne già troppi?”… Mi ha destabilizzato del tutto. Tant’è che in brevissimo tempo ho perso 60 chili di peso.
In tale contesto, l’unico posto in cui non mi sono giudicato o puntato da solo il dito è stato il palco: in scena ero sempre sicuro di me perché notavo come dall’altra parte le persone riuscivano a vedere cosa contenevo dentro e che ciò che volevo fare era in linea con quello che cercavano. In più, l’aspetto fisico non era un problema: in una commedia, potevo anche interpretare il protagonista e nessuno avrebbe avuto nulla da ridire… avevo i mezzi per padroneggiare il testo e ciò mi infondeva quella sicurezza che tra i coetanei non avevo.
Al di là del teatro e della recitazione, cosa ti aiutava a vincere la sensazione costanze di paura e l’emarginazione che vivevi?
Mi aiutava il supporto costante della mia famiglia. Da questo punto di vista, sono stato fortunato dall’aver avuto un nonno che voleva da giovane intraprendere la carriera di attore a Torino nella scuderia di Barbara Bouchet. Nonno Salvatore era una persona estremamente sensibile che poi, quando si è trattato di dover scegliere tra il lavoro e l’amore, ha scelto nonna e la vita in Campania.
È stato il primo a rendersi conto della mia passione per il cinema. Ogni pomeriggio, rientrando da scuola, anziché volerne sapere dei compiti, mi sedevo al suo fianco e guardavamo insieme dei film, passando da un genere all’altro. Gli si illuminavano gli occhi nel farmi guardare quelle pellicole storiche e nello scrutare il mio punto di vista per capire come mi approcciassi alla materia. Ed è stato uno di quei pomeriggi che mi ha detto che secondo lui avrei dovuto fare l’attore senza che ancora sapesse che in realtà era quello il mio desiderio.
Nonno mi ha sempre supportato, così come i miei genitori. Anche se, inizialmente, mio padre, uomo dal vecchio stampo, era restio all’idea ma semplicemente perché temeva per la mia stabilità o per le difficoltà che il percorso per diventare attore mi avrebbe riservato. Lì per lì, non lo capivo: ho giudicato molto in passato le sue prese di posizione quando invece, crescendo, ho compreso ciò che intendeva. È poi venuto a mancare nel 2018 ma capisco oggi le sue preoccupazioni.
Perdere quei sessanta chili trasformando il tuo corpo non è stato come rimettere in discussione la propria identità?
Assolutamente. Parliamo del dimagrimento sempre con nonchalance, come se fosse la cosa più facile del mondo quando in realtà significa rimettersi totalmente in discussione. Ricordo perfettamente come, prima di perdere quei chili, dentro me sentivo la necessità di crescermi e di migliorare per ambire alla migliore versione di me, come guardandomi allo specchio non fossi felice ma semplicemente perché ero influenzato da quello che mi girava attorno. Avevo poca fiducia nei miei confronti, ero condizionato anche da rapporti interpersonali che mi scoraggiavano molto, finché un giorno ho detto basta…
E la molla definitiva è scattata quando, proponendomi per un casting, mi sono sentito rispondere che il mio profilo era sì interessante ma non in linea con ciò che cercavano. Sebbene di primo acchito mi sembrasse anche una risposta elegante, quando ho visto quel prodotto finito e il ragazzo che avevano scelto per il ruolo, ne ho capito le motivazioni e le ragioni: teneva “tutto a posto” quando io invece non avevo nulla che lo fosse. “Ma io sono in linea con quello che io stesso sto cercando? Sono ciò che i miei occhi vorrebbero vedere?”: la riposta era ovviamente ‘no’ e, infondendomi da solo forza di volontà, ho iniziato con la palestra prima che la piscina mi facesse poi perdere quel peso che andava eliminato.
Con il sopraggiungere poi della malattia di papà, l’allenamento e la dieta erano diventati la mia valvola di sfogo, quella che mi permetteva di eliminare la frustrazione che avvertivo. Ma, paradossalmente, ancora una volta non venivo capito da chi mi sta accanto, a cominciare dalle fidanzatine dell’epoca. Continuavo a essere giudicato e deriso anche quando il mio corpo stava per cambiare. E, da spugna quale sono, ho assorbito sempre tutte le emozioni negative che mi vengono riversate contro: non riuscivo a essere più forte di quello che le mie orecchie sentivano.
Alla luce di questo racconto, assumono anche un significato diverso i quattro “sì” che hai ricevuto partecipando come concorrente a Italia’s Got Talent. È stata quella la volta in cui hai finalmente potuto darti una pacca sulle spalle?
Decisamente. Ho avuto sempre la necessità di farmi vedere perché sono profondamente insicuro, un demone interiore al cospetto del quale il mestiere di attore mi conduce sempre. Quando con Francesco Ronca ho presentato la Livella Gomorrata, che traeva ispirazione da Totò, su quel palco, la paura mi devastava: ero terrorizzata dall’idea di aver fatto il passo più lungo della gamba ma poi, con la spensieratezza dei vent’anni, con Francesco siamo andati in scena con il desiderio di giocarci il tutto per il tutto.
Seppur consapevoli di come quella rivisitazione avrebbe potuto far storcere il naso a qualcuno, ci interessava riportare un pezzo di storia come Totò in televisione il sabato sera e, per avvicinarlo alle nuove generazioni, non potevamo non tentare la chiave della modernità. Ed è stata la scelta più giusta che potessimo fare, come hanno testimoniato la standing ovation del pubblico, le 20 milioni di visualizzazioni su YouTube e la telefonata della nipote di Totò che ha voluto conoscerci di persona invitandoci a cena… “Se mio nonno fosse stato vivo, si sarebbe complimentato con voi”, una frase che conserviamo ancora con molto orgoglio.
Da quella esibizione si è generato quel senso di rivalsa che ancora oggi mi accompagna. Finalmente venivo visto e preso in considerazione: attraverso l’arte potevo esternare ciò che avevo dentro.
Avete partecipato al programma nel 2017. Hai avuto modo di far vedere a tuo padre quelle immagini per rassicurarlo su come quella fosse la strada che ti avrebbe condotto verso l’affermazione.
Purtroppo, no. La puntata, registrata nel 2017, è andata in onda qualche giorno dopo la morte di papà. E per me rappresenta un grosso rammarico non avergliela potuta far vedere: forse sarebbe stata la risposta a quei suoi primi “no”. Ma l’hanno vista nonno e mamma, nei confronti dei quali ancora oggi non penso di aver fatto molto per ripagarli dei sacrifici che loro hanno invece fatto per me. Sono stati loro ad aiutarmi a trasferirmi a Roma, a mantenermi durante la gavetta o a pagarmi l’accademia o i corsi… e per farlo non hanno esitato a vendere anche tutto l’oro che avevano o ad attingere ai risparmi di una vita.
È un sacrificio che hanno fatto con tanto amore ma che, inevitabilmente, mi fa avvertire sulle spalle il peso di ciò che hanno fatto: è come se non riuscissi mai a restituire loro tanto quanto mi è stato dato. Non nascondo che quando ho firmato il contratto per L’amica geniale sono andato da loro in lacrime per dire che forse ce l’avevamo fatta: abbiamo pianto tutti insieme.
Di fronte a quel primo successo televisivo, chi ti escludeva o bullizzava ha poi cambiato idea sul tuo conto?
No. Ma non giudico chi mi ha fatto del male e me ne è stato fatto tanto. Anzi, li capisco e li perdono: forse anche loro avevano dei sogni o delle ambizioni per cui non hanno avuto la possibilità o il coraggio di lottare perché farlo richiedeva sacrifici, dedizione, soldi, speranza e illusione. Non tutti si è abbastanza pronti per affrontare tutto ciò…
Oggi, tutte le volte che mi sento dare del raccomandato o si allude a chi possa averlo dato per essere riuscito ad affermare il mio sogno, rido: a differenza loro, ho seguito la mia idea fino in fondo, sono stato ossessionato dal trasformare la mia arte in loro ma con autodeterminazione ci sono riuscito. Tutto ciò che mi dispiace di questa storia, al di là dei giudizi e dei pregiudizi, è il notare quanta frustrazione personale possa muovere l’animo umano.
Ce n’è molta anche nell’ambiente dello spettacolo ma fortunatamente appartengo alla schiera di coloro che, quando vedono un collega affermarsi, fanno il tifo e gioiscono per lui proprio perché so quanto sacrificio si può celare dietro: lo trovo un grande atto di umiità nei confronti di chi spesso non sappiamo nulla di ciò che ha dentro o ha attraversato. Ma mi rendo conto di quanto non siamo predisposti ad accogliere: è molto più semplice respingere, anche con forza.
Che rapporto oggi hai con i “no” che possono arrivare da un provino?
Ci vado a braccetto. Spesso li apprezzo anche più dei “sì” perché mi spingono a riflettere su me stesso. Ho imparato con l’esperienza che il “no” non è legato alla mia bravura ma a tante altre dinamiche che entrano in gioco e che io personalmente non posso gestire, a cominciare dal “momento giusto”. Non nego però che in passato soffrivo molto di fronte a un provino non andato come speravo ma accadeva semplicemente perché ero depresso: facendo sempre spalla a spalla con la solitudine e lavorando molto su me stesso, ho imparato dopo a non giudicarmi e a ricordarmi, umiltà a parte, quanto io valga. Se sei consapevole del tuo valore, prima o poi arriverà l’occasione per dimostrarlo: se non è oggi, sarà domani o dopodomani.
L’importante è resistere e sapere cogliere l’opportunità quando si presenta, arrivando a quel momento in pace con se stessi. La guerra interiore non aiuta: portandola fuori, rischi di inficiare anche il tuo lavoro. Mi si sono presentate in passato anche tante altre possibilità ma non ero ancora pronto a gestirle e, anziché farmi un danno, ho preferito non coglierle.
I “no” dunque possono far male fino a un certo punto… Perdere un progetto significa anche dover fare i conti con la necessità di sopperire alle spese, a meno che non si sia già un nome affermato. Ma, se perdo quei soldi, non fa niente, come sempre mi rimbocco le maniche: vado a fare il cameriere, a vestire i morti o a pulire le case, in attesa che arrivi il momento giusto. Dio è grande, ho molta fede, e so che saprà come ricompensarmi.
Napoli - New York: Le foto del film
1 / 20“Depresso” è un termine che è venuto fuori due volte nel corso di questa conversazione…
Di depressione soffro ancora oggi: vivo dei picchi altissimi di felicità ma anche degli strapiombi profondi di depressione, causati dal mio bisogno di affetto. Ho sempre bisogno di circondarmi di persone che mi vogliono bene e di riconoscimento affettivo. Ma nei momenti più cupi non perdo mai la fede: ho sulla scrivania di casa la foto di papà, di nonno e di un’altra nonna ancora, con cui qualche volta mi metto a parlare trovando risposte alle mie domande.
Ed è così che ritrovo la serenità: sarò un illuso ma mi sento meno solo nel farlo. Non auguro a nessuno di sentire il peso della solitudine: non so stare da solo… Ci sto lavorando con la mia psicologa, che è molto paziente con me, ma non è facile non sentire la mancanza dei propri affetti quando, come me, si è molto legati alla famiglia con un cordone ombelicale che non riesco a recidere nonostante oramai da anni io viva a Roma.
L’unica cosa che mi aiuta è pensare che io stia cercando di realizzarmi anche per fare felice loro. Quindi, provo a reagire ballando, andando a fare una passeggiata o pregando in una chiesa. Sono i miei modi per acquietarmi e per dirmi che è sempre e solo una questione di tempo, fede e speranza. Sono stato bravo a scompormi e ricompormi negli anni.
Se incontrassi oggi quel bambino che sei stato, cosa gli diresti?
Sii forte…