Ludovico Fremont è uno degli attori che compongono il nutrito cast del film Good Vibes, uscito nelle sale italiane il 5 ottobre. Nell’opera prima di Janet De Nardis, Ludovico Fremont interpreta Stefano Liguori, un personaggio del tutto inedito rispetto a quelli a cui l’attore in passato ci aveva abituati. L’opera di De Nardis, coraggiosa nell’affrontare le conseguenze della deriva dell’uso delle moderne tecnologie, segna in qualche modo il ritorno sulle scene dell’audiovisivo di Ludovico Fremont, rimasto per diversi anni lontano da macchina da presa e riflettori dello star system.
Il nome di Ludovico Fremont è inevitabilmente legato alla serie tv I Cesaroni, ormai un cult di casa Mediaset che, sbarcato recentemente su Netflix, è tornato prepotentemente alla ribalta. “Gli alti e bassi fanno parte del percorso di ognuno di noi: ogni tanto occorre anche prendersi del tempo per capire chi si è, è una naturale forma evolutiva… seguo tantissimo i miei colleghi e mi rende felice sapere che lavorano o che stanno avendo successo: non ho mai vissuto di gelosie o di invidie”, è una delle prime cose che ci dice quasi sottovoce Ludovico Fremont.
Attore romano (con papà francese), Ludovico Fremont ha un passato carico di esperienze tra cinema, televisione e teatro. Ma la sensazione, parlando con lui, è che sia ormai più orientato al presente e a quello che sta vivendo. Il lavoro? Sì, anche: lo attendono un film in uscita e una serie tv per Rai 1. Ma ciò che più lo interessa è quella serenità che ha finalmente trovato, grazie anche alla pratica buddista che gli ha fatto capire la differenza tra felicità assoluta e felicità relativa. E lui è alla prima che punta.
Intervista esclusiva a Ludovico Fremont
Ti vediamo in questi giorni al cinema in Good Vibes, il film diretto da Janet De Nardis, dove interpreti una tipologia di personaggio per te insolita. Ci vuoi spiegare tu chi è Stefano Liguori?
Preferisco non dire molto sul personaggio per una semplice ragione: mi piacerebbe tantissimo stupire il pubblico, abituato per tanti anni a vedermi in ruoli più positivi. Non raccontarlo è un modo per invitare la gente ad andare al cinema, un’industria che regala sogni e fantasia, e spronarla a scoprire progetti nuovi come ad esempio Good Vibes, il cui titolo suona un po’ sarcastico perché nulla a che vedere con le vibrazioni positive.
Un personaggio, lo possiamo dire, per il quale hai dovuto mettere su peso, prendendo 10 kg.
È una scelta che ho voluto condividere con la regista Janet De Nardis. Esteticamente, ho un aspetto molto giovanile perché mi tengo molto in forma conducendo una vita molto sana, quasi collegiale: mi sveglio presto al mattino, vado a correre, medito e un ottimo rapporto con il cibo. Proprio per questa mia condizione visiva molto giovanile, elastica e sportiva, ho pensato che ridurre anche la mia capacità motoria e raggiungere una corporatura più massiccia avrebbe potuto innanzitutto aiutarmi con il ruolo e offerto l’occasione di mettermi alla prova.
Sono molto felice che Janet abbia condiviso la mia scelta perché è una professionista di cui ho grandissima stima. In un momento in cui si parla molto di dare la giusta equità ai ruoli e ai sessi, il suo è uno dei pochissimi film diretti da una donna che uscirà in sala nel mese di ottobre. Non perché ci abbia lavorato insieme ma Janet è stata una collega che sul set mi ha sorpreso dando tutto quello che poteva: ha dimostrato che la differenza di sesso non comporta una differenza di atteggiamento sul lavoro, a dispetto di quanto spesso sento dire anche da colleghi con ragionamenti che sembrano provenire dritti da epoche passate, lontane e retrograde. Janet è la dimostrazione che non esiste uomo o donna dietro la macchina da presa ma solo un’entità chiamata regista.
Cimentandosi coraggiosamente in un film di genere poco praticato in Italia…
Fare un film di genere in Italia presenta molte difficoltà per via dei limiti mentali non del pubblico ma dell’industria stessa: la gente va a vedere le cose se sono fatte bene. È stata una grande sfida e le sfide, affrontate con coraggio e tenacia, portano sempre al risultato sperato e, quindi, alla vittoria.
Good Vibes affronta le conseguenze che l’uso massiccio di smartphone e, per associazione, social comportano. Hai cominciato a far l’attore quando i social nemmeno esistevano vivendo un successo anche grandissimo. A distanza di anni reputi che i social siano d’aiuto per chi fa il tuo lavoro?
I social, in realtà, di social non hanno proprio un bel niente perché sono esattamente l’opposto: creano dei microcosmi totalmente artefatti. Il problema nasce quando questi microcosmi offrono spunto per una sorta di emulazione generando un comportamento che è totalmente sbagliato. Tutto dipende, quindi, da come li si usa: per me, sono una vetrina non per raccontare ciò che non si è ma si vorrebbe essere ma per mostrare la parte migliore di sé e renderla fruibile a tutti… l’esatto opposto di quello che siamo abituati a vedere.
Non voglio essere polemico ma vorrei che da parte dello Stato e delle istituzioni ci fosse maggior attenzione. Personalmente, ho avuto la fortuna di essere vissuto in un’epoca di transizione tra l’analogico e il digitale e ho coscienza di quello che è reale e di quello che è virtuale. Non so come sia per i giovani di oggi… è ovvio che l’educazione di qualunque essere umano proviene dal proprio nucleo familiare e dai mezzi che i genitori danno ai propri figli ma allo stesso tempo le famiglie necessitano di essere sostenute da uno Stato pronto, attivo e reattivo a determinati pericoli.
Non credo che i social siano stati inventati e creati con scopi negativi ma occorre evitare che il rapporto che si ha con questi mezzi o con qualunque altra cosa gli assomigli diventi una sorta di patologia. Come per ogni cosa, d’altronde: mangiare una banana non ha mai fatto male a nessuno, mangiarne 5 chili ti farà sentire male. Evito di soffermarmi sulle persone che tendono ad avere atteggiamenti invidiosi, ci sono sempre state e sempre ci saranno: un tempo, ti dicevano in faccia determinate cose perché comunque fa un po’ parte della natura umana divenire in qualche modo pungente quando è mossa da malesseri. Chiunque sulla mia bacheca è liberissimo di scrivere quello che vuole: non do sicuramente adito ad alimentare sentimenti di conflitto.
E per il tuo lavoro di attore questo è un anno molto particolare. Ti vedremo prossimamente in Amici per caso, il nuovo film di Max Nardari…
È un lavoro che mi è arrivato grazie a Mirko Frezza. Ci eravamo conosciuti sul set di un cortometraggio ed è stato lui a segnalarmi a Nardari pensando che fossi perfetto per il personaggio. Sono stato felice del suo gesto. Mirko è davvero una bella persona: sostengo moltissimo il progetto di educazione che sta portando avanti con i ragazzi della band La Scelta su quale percorso scegliere nella vita, se quello più facile o quello che, apparentemente, sembra difficile ma che poi si rivela il migliore. Su quest’aspetto, ci siamo trovati molto, nonostante io sia buddista e lui cristiano.
… ma anche su Rai 1 nella serie tv La lunga notte, prodotta da Eliseo.
La lunga notte è un progetto molto importante che coinvolge tanti attori altrettanto importanti come Alessio Boni e Luigi Diberti. Sul set, ho ritrovato tanti colleghi e miei amici. Ha la regia di Giacomo Campiotti e interpreto un altro personaggio “particolare”, un ruolo un po’ nell’ombra perché così richiede la storia. Mi ha permesso di lavorare dopo tanti anni con Martina Stella: lei interpreta Clara Petacci e io Marcello Petacci, suo fratello, due nomi che a qualcuno dovrebbero ricordare chi sono e cosa rappresentano nella storia d’Italia. Molto probabilmente anche gli addetti ai lavori hanno visto una mia evoluzione attoriale e mi prendono in considerazione per ruoli molto ma molto diversi dal passato.
Cosa ha significato per te tornare sul set dopo tanti anni in cui eri stato lontano?
Credo faccia parte della natura umana e non solo degli attori il fatto che la maturazione richiede tempo. Ciò non toglie che nel frattempo io abbia approfondito tutta una serie di tematiche legate al mio essere, al mio mestiere e alla mia vita. Mi è piaciuto in questo periodo di “trasformazione” dedicarmi alle mie passioni per riaffrontare il mio lavoro con una rinata propositività.
È stata una tua scelta stare lontano da cinema e televisione?
È un ovvio risultato del nostro lavoro. Sparire dal cinema o dalla tv non significa stare fermi: mentre mi si vedeva meno, ho fatto molto teatro e ho scritto un libro e diverse sceneggiature. Sono sempre stato nel mio mondo, anche se in maniera forse più sotterranea. Ma anche giustamente, direi. Per costruire qualcosa occorre sempre partire dalle fondamenta, aspetto che talvolta ci dimentichiamo, e lo stesso vale per ristrutturare. È una consapevolezza che mi è stata data dalla mia pratica buddista, che mi ha sicuramente aiutato e non posso che essere felice di questa “evoluzione”.
Tra le tante passioni a cui ti sei dedicato c’è anche la barca a vela.
Sono comandante del diporto e skipper d’altura e, per certi versi, mi sento un po’ come Ulisse. Per me, la barca a vela rappresenta una forma meditativa: è fonte di grande riflessione, di grande ispirazione e di grande trasformazione e, quindi, a oggi è una di quelle cose di cui non posso fare a meno. Non ho però una barca, non me la posso permettere, ma sono stato su diverse barche e anche in Polinesia, dove vive mio padre: sono stato a trovarlo dopo tanti anni in cui non ci si vedeva.
Mi ha offerto lui il viaggio, era il suo regalo per colmare la distanza: tornare alle Marchesi, dove ero stato quando avevo 13 anni, con la mia compagna e rivedere quei posti è stato per me importantissimo. Lì c’è una condizione di vita rispetto alla natura che noi europei ci siamo dimenticati, con ritmi totalmente diversi dai nostri.
Sono sempre stato molto attento al rispetto nei confronti della natura. Non scopro oggi che c’è in atto il riscaldamento della natura: sono cresciuto in una famiglia in cui è sempre esistita la filosofia del “non sprecare” e del “non acquistare” se non c’è una reale esigenza… molto meglio riutilizzare le cose e dar loro una seconda vita. Dobbiamo ricordarci tutti che la Terra, nonostante sembri infinita, è molto limitata: noi siamo tanti e se ognuno volesse ciò che hanno gli altri il pianeta si prosciugherebbe al punto tale che nessuno di noi avrebbe nulla. Occorre dunque capire cosa sono le cose importanti della vita. Nel buddismo, si parla di felicità assoluta e di felicità relativa: la prima va al di là del materiale.
Sei diventato padre di una figlia. Diventare genitore aiuta a rivedersi come figli. Cosa ti ha insegnato la paternità?
L’unica cosa che mi chiedo e che spero di fare è poter dare a mia figlia ciò che, in parte o in toto, i miei genitori hanno dato a me: i mezzi adeguati per affrontare la vita. Questo è per me il ruolo di padre…
Siamo diventati grandi senza nemmeno essercene accorti?
A dir la verità, me ne sono accorto. Ma sono stato comunque molto felice di tutto quello che mi è successo. A volte, abbiamo la tendenza a voler per forza eliminare alcune note meno chiare della nostra vita e, invece, anche quelle sono fondamentali: sono le esperienze che abbiamo accumulato che ci fanno diventare ciò per cui siamo nati. Tutto ciò che è accaduto nella mia vita mi è servito e, nel bene o nel meno bene, devo dirgli grazie perché mi ha dato l’occasione per migliorare me stesso e tutto quello che mi circonda.
Sei consapevole del fatto che I Cesaroni continuano in qualche modo a inseguirti? Appena sbarcata su Netflix, la serie tv è diventata una delle più viste.
A me dispiace per tutti gli altri ma I Cesaroni resta la serie tv più amata degli ultimi vent’anni. Perché era fatta bene e interpretata da attori che erano tagliatissimi per i loro ruoli. Ogni tanto è bello poter gioire dei successi italiani: siamo abituati a vedere sempre prodotti stranieri realizzati in maniera eccelsa ma se una serie tv italiana che ha oramai vent’anni è ancora così vista vuol dire che era fatta bene.
È vero che all’epoca non avevamo gli smartphone ma il messaggio che trasmettevamo era modernissimo e tuttora attuale: al centro c’era una famiglia allargata con problematiche che, a prescindere dalle mode, rimangono ancora le stesse. I Cesaroni riscontrerà successo anche non so tra quanti anni e io sono fierissimo di averne fatto parte: è stato una parentesi di grandissima crescita che mi ha permesso di capire il mio amore per la recitazione.
Come si reagisce quando dopo un successo così grande il telefono non squilla più?
Funziona un po’ come nel surf: non si possono cavalcare tutte le onde e non è detto che, salendo su quello che in gergo si chiama “muro”, tu riesca a portarlo fino alla fine. Per surfare, grande metafora di vita, si va contro le onde e contro la marea… alcune volte occorre passare sopra l’onda o, se è alta, sotto (ricorrendo a quello che si chiama duck drive), altre rimanere ad aspettare quella che reputi giusta con la speranza che qualcuno non ti preceda. E alcune precedenze sono previste mentre altre no: qualche collega ti può passare davanti.
La cosa più importante è ricordarsi di vivere il momento e imparare da quello che si sta vivendo: ti dà la capacità e la tecnica per poter probabilmente prendere più onde in futuro e resistere più a lungo in piedi sulla tavola. I sali e scendi servono a migliorarsi, senza dare la colpa a nessuno: lamentarsi non porta a niente. L’ho imparato con gli anni perché, effettivamente, da piccolo mi lamentavo spesso.
Mai avuta nel frattempo la tentazione di tornare dietro la macchina da presa?
Ho diretto una decina di anni fa The Answer: La risposta sei tu, film presentato come evento straordinario al Festival di Roma e legato ai danni conseguenti alla coltivazione del tabacco. Era un progetto indirizzato alle scuole e ai giovani, che ha avuto anche un bel percorso, sostenuto dalla Regione Lombardia e dalla Regione Lazio: sono stato a promuoverlo nelle scuole di tutta Italia, fianco a fianco con gli allievi di elementari, medie e licei. E la tentazione di tornare alla regia è forte: non nascondo di poter realizzare una delle tre, anzi quattro, sceneggiature che ho scritto.
Good Vibes è un film interpretato da tantissimi attori. Avete avuto modo di confrontarvi sul tema anche se non eravate chiamati a recitare insieme?
Proprio perché eravamo in storie differenti, non molto. Ho però incontrato Mimmo Calopresti una sera e abbiamo parlato: più che altro, sono io che ho ascoltato lui. E lo stesso è accaduto con Vincent Riotta, con cui avevo già in precedenza lavorato: fortunatamente so parlare in inglese…
Ma anche in francese, dal momento che metà delle tue origini lo sono. Mai pensato di varcare il confine per lavoro?
Aspetto che il momento sia maturo, anche se in passato sono stato già fuori dall’Italia e ho viaggiato molto lavorando con gli inglesi, con i sudafricani e in Bulgaria. Mi piacerebbe poter un giorno lavorare in Francia, ci vado anche spesso: lì vivono mio cugino, mia zia, i miei nipoti…