Con l’uscita nelle sale di La cosa migliore, dal 14 novembre grazie a Lo Scrittoio, Luka Zunic offre un’interpretazione intensa e profonda, in un film che tocca temi forti e attuali come la solitudine, il senso di colpa e la ricerca di appartenenza. Diretto da Federico Ferrone, il lungometraggio racconta la storia di Mattia, un adolescente che vive in una provincia post-industriale del nord Italia, segnato dalla tragica morte del fratello maggiore.
La perdita, il dolore e il senso di colpa spingono Mattia a lasciare la scuola e cercare un rifugio diverso dal passato: lavora in fabbrica e si allontana da tutto ciò che un tempo amava, incluso l’hip-hop, suo sfogo e passione. Quando stringe amicizia con un collega marocchino, Mattia trova nell’Islam una nuova via che sembra offrirgli significato e speranza, in un percorso che, però, si rivela complesso e rischioso, portandolo al limite tra integrazione e radicalizzazione.
In quest’intervista esclusiva, Luka Zunic rivela come la sua personale esperienza di crescita e di ricerca interiore lo abbia aiutato a calarsi nel personaggio di Mattia. “La solitudine è qualcosa che ho vissuto anch’io”, racconta Luka Zunic, spiegando come abbia portato in scena non solo le sfumature di un ragazzo in crisi, ma anche quella ricerca di senso che molti giovani condividono. La cosa migliore si configura quindi non solo come il ritratto di un adolescente, ma come una riflessione profonda sulle insicurezze di una generazione e sull’impatto della mancanza di punti di riferimento.
Luka Zunic porta sullo schermo un personaggio complesso, fragile e rabbioso, in cui molti giovani potranno infatti rispecchiarsi, soprattutto chi vive il senso di essere “diverso” in una società che spesso ignora o giudica. Luka Zunic stesso, con una sensibilità rara, si riflette nel bisogno di Mattia di trovare un proprio equilibrio, riconoscendo come sia una condizione che talvolta porta a scavare dentro di sé e a capire cosa conta davvero, anche se può essere doloroso.
Interpretare Mattia ha permesso a Luka Zunic di esplorare un lato profondo di sé, quell’esperienza del sentirsi fuori posto, “diverso” per la sua storia e le sue origini, ma anche più ricco di sfumature proprio grazie a queste diversità. In La cosa migliore, Luka incarna l’inquietudine, la forza e le contraddizioni di chi cerca un proprio percorso senza compromessi, dando al suo personaggio una sensibilità che va oltre il racconto di una crisi adolescenziale, e si espande in una riflessione sulla ricerca di significato e sulla necessità di sentirsi compresi.
Luka Zunic emerge come uno degli attori più promettenti della sua generazione, capace di portare sullo schermo emozioni crude e sincere, ma anche di riflettere una profondità rara in un giovane uomo. Con La cosa migliore, Luka Zunic mostra non solo un talento naturale ma una straordinaria capacità di introspezione, raccontando una storia che è, in fondo, anche la sua. Il suo percorso, segnato da sfide e scoperte, non è solo una testimonianza della forza dell’arte, ma anche un invito a ogni giovane a guardare dentro di sé e a trovare il coraggio di essere autentico.
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Intervista esclusiva a Luka Zunic
“Mi ha mandato un messaggio bellissimo prima che La cosa migliore fosse presentato alla Festa del Cinema di Roma”, risponde Luka Zunic facendo riferimento a uno dei suoi compagni di scena del film, Fabrizio Ferracane. “Era un audio in cui mi faceva i complimenti e in cui parlava del regista Federico Ferrone e di tutto il progetto in maniera molto positiva: mi ha riempito il cuore. Al di là della sua valenza attoriale, è quello che si definisce un pezzo di pane: la sua gentilezza e il suo modo di approcciarsi mi hanno colpito sin da subito, da quando ci siamo incontrati per una cena prima che partissero le riprese”.
Ed è quello che colpisce dai grandi attori: quanto siano credibili in panni anche diabolici che celano la loro generosità d’animo. Qualcosa che, se vogliamo, possiamo anche rintracciare in te.
È vero, anch’io ho interpretato spesso ruoli borderline ma assicuro di essere un bravo ragazzo (ride, ndr).
Tanti ruoli al limite, anche se uno di quelli in cui, personalmente mi hai colpito, è stato in My Soul Summer di Fabio Mollo.
È uno di quei progetti a cui tengo molto e in cui mi è anche piaciuto rivedermi, cosa che solitamente è rara. Ho apprezzato sia l’interpretazione sia il modo in cui il personaggio si evolve dall’inizio della storia alla fine. Tra l’altro, Fabio Mollo è un regista incredibile con cui sono tornato a lavorare per una serie tv che vedrete prossimamente, Hype: mi trovo molto bene e poi mi piace il suo modo di dirigere, devastante ma con un’accezione positiva.
E che tu sia un bravo ragazzo lo si evince anche da questo strano incipit in cui stai trovando una parola buona per tutti…
Ma son pensieri che mi appartengono, non si tratta di marchette o piaggeria, atteggiamenti lontanissimi dal mio modo di essere.
Bravo ragazzo è anche il Mattia che interpreti in La cosa migliore, un diciassettenne che potrebbe essere assurto a simbolo di molti giovani di oggi in grado di non riconoscersi negli altri ma nemmeno in loro stessi. Com’è da attore relazionarsi con la solitudine di un adolescente come lui?
La solitudine è una condizione che ho provato sulla mia pelle. Fino a tre o quattro anni fa ne sentivo molto il peso mentre oggi sono riuscito a trovare un mio equilibrio, sfruttandola per pensare o per riflettere. Sono contento che traspaia dal personaggio perché la solitudine è uno di quegli elementi centrali su cui ho lavorato: Mattia vive un forte distacco da tutto ciò che ha intorno e, inevitabilmente, ho cercato di richiamare ciò che io stesso avevo provato… Mi sono quindi ricordato di quanto brutto fosse non essere compresi o semplicemente non ascoltati anche dalla propria famiglia.
Era la tua una solitudine voluta o imposta dagli altri?
Metà e metà. In adolescenza cerchi sempre di capire cosa ci sia fuori dai confini di casa, ritrovandoti dallo stare con la famiglia a muoverti e viaggiare per vivere le tue esperienze. Direi che un po’ me la sono cercata e un po’ apparteneva alla mia indole: facevo fatica a parlare con le persone, a relazionarmi con gli altri e a dire di “sì” a un’uscita il sabato sera, preferendo rimanere a casa e non scervellarmi per come conquistare la ragazza che mi piaceva ma a cui non sapevo come dirlo. Forse è stato il cinema a sbloccarmi da questo punto di vista.
Era quella solitudine dettata anche dal sentirsi in qualche modo “diverso” per via delle tue origini familiari? Seppur nato in Italia a Riva del Garda, sei figlio di sue genitori dell’Europa dell’Est.
La mia cultura era sicuramente diversa da quella degli altri e ciò ha influito. Sono nato in Italia ma da un padre serbo e da una madre bulgara che erano arrivati da un anno qui e che a malapena parlavano la lingua: ho imparato prima il serbo e il bulgaro e solo dopo l’italiano, alle elementari.
Eppure, quando ti chiedono di dove sei, sei solito rispondere, come ci ha ricordato il regista Luca Severi, “di Torino”…
Verissimo. Sono venuto al mondo a Riva del Garda, in un ospedale che un anno dopo è stato trasformato in un liceo: sono tra gli ultimi nati in paese ma ho pochi ricordi della mia vita là, legati a me contento da piccolo per la mia bella famiglia e il fatto che tutti mi volevano bene. Pochi ricordi, sfocati ma belli… Sono poi cresciuto a Torino: è stata quella la città in cui, da adolescente, ho fatto le mie esperienze e dove ho vissuto la mia solitudine.
Hai oggi un rapporto sereno con le tue origini?
Sì: quel rapporto si è appianato soprattutto recentemente quando, dopo aver cominciato a lavorare, ho trovato anche una mia identità. E oggi sono anche molto fiero di avere quelle origini che, anche nella professione, mi aiutano a esprimermi in maniera diversa.
Sono anche il tuo tratto distintivo, quello che anche fisicamente di permette di emergere e di essere notato. Un tratto che, in continua evoluzione, rende anche a volte complicato riconoscerti da un film all’altro.
È il più grande complimento che io possa ricevere. Da sempre, provo ad approcciarmi a tutti i progetti in maniera differente cercando anche di differenziare i miei personaggi e allontanarli. La mia volontà è quella di non caratterizzare il mio lavoro esplorando anche territori differenti in brevissimo tempo: ho girato ad esempio I racconti del mare e La cosa migliore tra giugno e agosto del 2023 ma ho provato a far sì che i due personaggi non si somigliassero.
Il concetto di identità è però forte in entrambi i progetti. Hai trovato la tua recitando ma quando hai capito che avresti voluto fare l’attore?
La recitazione è per me figlia della necessità interiore di migliorare me stesso. Il desiderio di recitare risale a quando da piccolo già facevo teatro: è stata una maestra delle elementari, bravissima, Gabriella, a suggerire a mia madre di farmi continuare su quella strada. Per lei, era palese quanta energia ci fosse in me e come avessi qualcosa da raccontare. Mamma si è gasata subito e, da quel momento, non ho mai smesso di fare teatro. Per me, è stato poi più drastico il passaggio dal teatro al cinema, arrivato con il film Non odiare che mi ha portato al cospetto di un lavoro molto diverso. È stato uno shock ritrovarsi su un set, dove tutto è anche più “macchinoso”, veloce e schematico, nonostante il lato artistico che viene richiesto. Se riguardo i primi progetti a cui ho preso parte, noto quanto la mia consapevolezza sia oggi totalmente diversa…
…sei nel frattempo anche maturato.
Quando sono stato scelto per il film di Mauro Mancini, ero anche un adolescente e stavo ancora crescendo. La vita inevitabilmente mi ha poi messo davanti a delle situazioni che mi hanno fatto capire molte cose.
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La cosa migliore: Le foto del film
1 / 7In qualche modo, Non odiare e La cosa migliore sembrano quasi comunicare tra loro. Nel secondo caso, hai però dovuto confrontarti non con il fanatismo ideologico ma con quello religioso, con le sue regole e le sue imposizioni. Non ti fa paura toccare certe corde?
Se mi fa paura? Beh, peccando anche un po’ di ego, penso di essere la persona giusta per raccontare determinate dinamiche. Lo accennavo prima, mi porto dietro un background culturale diverso, anche dal punto di vista della religione: i miei sono ortodossi ma anche molto atei, ragione per cui non seguivo a scuola l’ora di religione e non ho mai frequentato il catechismo. Quand’ero bambino, vedevo i miei compagni che andavano all’oratorio e li invidiavo anche…
Ma non sarebbe molto più semplice una commedia romantica?
Non mi sottraggo a nessun tipo di provino, per qualsiasi genere di film, ma alla fine vengo scelto solo per determinate storie. Molto probabilmente ai registi interessa più quel mio lato quasi borderline…
Ciò comporta, però, che tu debba cimentarti anche con situazioni molto forti. Penso ad esempio a La ragazza ha volato di Wilma Labate, dove ti sei ritrovato a inscenare uno stupro.
Per quel ruolo, in quel bel progetto, ho sofferto anche tanto. Girare quella scena con Alma Noce mi ha molto toccato e mi ha fatto star male, tanto da dover spegnere il cervello quando l’ho fatto. Con Alma ne abbiamo parlato molto prima e forse ciò ha fatto sì che quella mia prima scena un po’ spinta mi risultasse meno pesante… la difficoltà era tutta psicologica: non solo dovevo stuprare una ragazza ma subito dopo avrei dovuto trasmettere tutta l’ingenuità di chi subito dopo, pensando che sia stato tutto normale, le chiede se vuole un panino.
L’ingenuità spesso si coniuga con spensieratezza, qualcosa che a prima vista sembra non appartenerti.
La spensieratezza non è la mia comfort zone, tutt’altro… ho sempre avuto la tendenza a pensare troppo. Sono però molto istintivo: nella vita come nel set, colgo ciò che mi accade e lo trasformo come stimolo per puntare alla verità. È di fronte a ciò che non mi aspetto che ho le mie reazioni più naturali.
Non hai mai avuto paura di essere cresciuto in fretta?
Molta. Anche mia madre mi ripete spesso di andarci piano… Sono andato via di casa molto presto e ho bruciato molte tappe: avevo quattordici anni quando ho cominciato a frequentare la scuola a Torino, per due anni ho vissuto dentro un convitto in cui non sono più potuto tornare dopo alcuni avvenimenti, e sono andato in rotta di collisione con la mia famiglia, qualcosa molto tipico tra i ragazzi di quell’età. Sono allora andato via di casa definitivamente e, dopo due anni trascorsi a tentare di cavarmela, è arrivato Non odiare… non sarei mai ritornato indietro senza avere qualcosa in mano: era il mio modo per dire che non ero in giro solo a fare stronzate.
Non temevi di perderti in quel periodo?
Tanto. E forse è per questo che oggi spingo sempre di più per raggiungere il mio obiettivo. Pian piano, sto ponendo le basi… ma non rinnego le esperienze negative e i momenti bui: mi aiutano a tirar fuori quelle emozioni che servono per i personaggi che racconto. Se non li avessi vissuti, non riuscirei a restituire quelle percezioni che servono per descrivere a volte situazioni mai provate. Mi ha quindi aiutato quel mio vivere allo sbaraglio per tre o quattro anni.
Quale sarebbe il tuo obiettivo?
Vivere del mio lavoro e riuscire ad affermarmi come un nome importante nel panorama cinematografico. Continuare a raccontare storie è la mia ambizione, unica a quella di poter realizzare un film da regista e attore protagonista: sto già scrivendo un cortometraggio mobilitandomi in tal direzione. Mi sono accorto della mia attitudine alla regia stando sui set, quando di fronte all’indicazione di un regista a me ne viene in mente un’altra.
La cosa migliore ci ricorda l’importanza di qualcosa che sembra spesso banale: l’importanza di amare e di essere amati. Quando hai imparato ad amare te stesso?
Bella domanda… da poco e forse non ancora del tutto: è solo da circa un anno che ho imparato a fottermene di quello che mi ruota intorno e dei giudizi e a dirmi che ho una mia artisticità, una mia idea che voglio portare avanti anche se non è giusta per tutti. Dovrebbe valere per tutti così ma non sempre è facile realizzarlo: lo noto osservando tanti miei amici che o non hanno idea di cosa vogliono fare o che si muovono solo nella stessa direzione in cui va il gruppo perché non hanno ancora trovato una loro identità. Arriverà anche per loro il momento in cui, di fronte a un evento, capiranno chi sono realmente o cosa desiderano fare senza che altri provino a cambiarli.
Un tuo collega, citando Stella Adler, ha ricordato come l’attore debba avere l’anima di una rosa e la pelle di un rinoceronte. Cosa oggi spaventa tua “anima da rosa”?
Ho tante paure ma la maggiore è quella di perdere determinate persone a me care senza poter mostrare loro l’uomo che sto diventando e quello a cui sto lavorando. Mi terrorizza l’idea di perdere i miei genitori, soprattutto mia madre con cui ho un rapporto fortissimo… Spesso sento la fretta addosso proprio perché desidero farle vedere come mi sto muovendo.
E ciò non ti pone sulle spalle un carico enorme di aspettative?
Ma sono abituato a ciò: è da quando sono bambino che lo sento.
Al di là del giudizio, cosa hai imparato a farti scivolare addosso sulla tua “pelle da rinoceronte”?
Le critiche effimere che non portano da nessuna parte e l’odio della gente. Ne ho sentito molto, soprattutto nei due anni in cui ho fatto le mie esperienze da solo in giro, e ne ho provato molto anche senza motivo, al punto da vergognarmene oggi: non vorrei più prendermela con qualcuno quando in realtà non c’è nessuno che mi sta facendo un torto o che vuole farmi del male. E mi sono fatto scivolare addosso l’indifferenza di chi, in quegli stessi anni, non dava peso al mio desiderio di andare a Roma per un provino: molto spesso coloro con cui mi sono interfacciato a Torino non comprendevano la mia esigenza di recitare, considerandola solo un mio pallino di cui a nessuno non importava molto.
Quel pallino a cui loro non importava si è rivelato poi foriero di premi e riconoscimenti. Che valore hanno per te?
Hanno avuto per me un profondo significato: la mia strada era un po’ meno in salita perché, al di là del loro valore intrinseco, erano anche un lasciapassare per i lavori o i casting successivi. E poi mi hanno dato un’emozione incredibile perché sono stati una sorta di conferma. Noi attori siamo anche molto paranoici a volte, non sappiamo mai se abbiamo lavorato bene e non riusciamo a giudicare il nostro lavoro con facilità: l’arrivo di un premio è dunque un sospiro di sollievo, una conferma di come qualcuno abbia notato lo studio e l’impegno profusi.
E, in tale clima di “paranoia”, come si sopravvive ai “no”?
È la resistenza ai “no” che spesso fa la differenza. Ho visto negli anni anche tante persone validissime demordere e abbandonare il loro sogno proprio perché non avevano emotivamente la forza per continuare e capire che non è mai dettato da un rifiuto personale: a volte può equivalere anche un “arrivederci” a un ruolo più giusto per te. È solo quando riesci a leggerlo come un “forse ci rincontreremo” che si riesce ad affrontare la delusione del momento. Ne ho avuti molti di progetti, anche grossi, sfumati all’ultimo call back, ci sono stato anch’io malissimo ma si deve andare oltre.
Che rapporto hai con la tua bellezza?
Sono consapevole di quanto riesca a trasmettere attraverso i miei occhi perché mi viene ripetuto spesso. Tuttavia, frequentando anche ambienti lontani dal mondo del cinema, mi sono confrontato con gente che reputavo molto più bella di me, più alta o più palestrata, e nel mio cervello si è instillato quel pallino del cavolo che mi fa dire di non essere nulla di speciale. Forse è per questa ragione che mi metto alla prova con personaggi un po’ più introversi per cui non si punta all’aspetto esteriore.
E con il successo?
Penso di non averlo ancora provato e, quindi, non saprei come rispondere. Posso però dire quanto, in occasione di festival o eventi, mi piaccia quella sensazione che provo quando la gente si avvicina a me per parlarmi, per farmi i complimenti o per confrontarsi intelligentemente sulle mie idee su un film e sulle loro. Quei momenti sono per me speciali… Non punto di certo alla fama, non è quello a cui ambisco: mi muove la voglia di raccontare qualcosa e non il desiderio di farmi chiedere le foto in giro.
Cosa non ti piacerebbe che si scrivesse o dicesse di te?
Ciò che più mi dispiace è quando si travisa il rapporto con la mia famiglia. Mi è capitato di aver parlato dei miei in un’intervista e che chi l’ha raccolta abbia travisato le mie parole: è vero che ci sono state incomprensioni ed errori, come accade più o meno in tutte le famiglie, ma i miei hanno cercato di crescermi con tutto l’amore che potevano pensando in quel momento che le loro fossero le scelte giuste per me. In quell’intervista, invece, ne uscivano con un’immagine non veritiera da “scappati di casa” quando così non è mai stato: mi aveva dunque fatto molto male perché non vorrei mai che mio padre o mia madre leggessero una cosa del genere… So quanto amore hanno provato a darmi e so quanto anch’io a volte sia stato una testa di cazzo.
Quand’è l’ultima volta che vi siete detti “ti voglio bene”?
Ieri, durante una telefonata: siamo sempre lontani per il mio lavoro e il telefono è il mezzo che abbiamo per farlo.
Attore oggi per necessità o per ambizione?
Sorrido. Da due anni studio recitazione con Alessandro Prete e in una delle prime lezioni in un diario avevo definito la recitazione come “ossessione”… mi ha fatto sostituire quella parola con “necessità”: la necessità di raccontare qualcosa è il motore di oggi. Qualche anno fa forse avrei risposto riscatto personale ma la necessità oggi mi permette di mettere da parte anche i dolori provati.
Sei felice oggi, Luka?
Felicissimo, nonostante l’ansia che in alcuni momenti mi coglie. Ma non posso dire di essere triste.
E come superi l’ansia?
Vedendo tanti film, stando con la mia ragazza e cercando di pensare a qualcosa che non sia il mio passato.
Cosa ti fa ridere?
Tante cose… ma non resisto di fronte alla spontaneità dei gesti, miei o altrui.