Lyda Patitucci è attesa nella prestigiosa cornice della 24esima edizione del Sudestival, il festival di Monopoli dedicato al cinema italiano (dal 26 gennaio al 15 marzo), per presentare Come pecore in mezzo ai lupi, la sua opera prima. Il giorno a Lyda Patitucci dedicato è il 2 febbraio e si preannuncia come uno dei più attesi dopo che Come pecore in mezzo ai lupi ha conquistato, a pochi mesi dalla sua uscita nelle sale, la top ten dei film più visti su Netflix.
E il nostro incontro con Lyda Patitucci parte proprio da lì, da un nostro post dedicato all’arrivo in piattaforma di Come pecore in mezzo ai lupi. Seguendo la classica condivisione del post sui social, Lyda Patitucci con molta semplicità e anche umiltà, dote che spesso al cinema manca, ci ha scritti un messaggio privato per ringraziarci del sostegno e per dirci di essere anche lei sorpresa: apprendeva da noi in anteprima l’uscita ed era felice della vita che la sua opera prima avrebbe avuto.
Sì, perché Lyda Patitucci sposa la nostra stessa idea: un’opera prima, Come pecore in mezzo ai lupi come qualsiasi altra, ha bisogno di essere sostenuta e accompagnata mano nella mano per non soccombere al mare magnum di produzioni che, giorno dopo giorno, arrivano sotto i nostri occhi. E non ha tutti i torti: non è arroccandosi sul piedistallo dell’autorialità o del “tu non sai chi sono io” che si sostiene il cinema. Lo si sostiene confrontandosi con il pubblico, portando risposte alla gente e aprendosi, creando un flusso di comunicazione che giova a tutte le parti in causa. Un flusso di comunicazione che, fortunatamente, i festival come il Sudestival ancora permettono, divenendo fulcri di cultura e scambio di informazioni, percezioni e suggestioni.
L’intervista che segue è un’ulteriore faro che vogliamo accendere sul cinema al femminile, sul cinema di genere, sugli autori al loro debutto, su Lyda Patitucci e sul suo Come pecore sui lupi, che ha richiesto impegno, coraggio e voglia di vincere una scommessa in essere da oltre dieci anni.
COME PECORE IN MEZZO AI LUPI: TUTTO SUL FILM
Intervista esclusiva a Lyda Patitucci
“Sono molto contenta del percorso che sta facendo il film”, è la prima cosa che Lyda Patitucci mi risponde quando le faccio notare che è passato più di un anno dalla presentazione di Come pecore in mezzo ai lupi al Festival di Rotterdam. “Considerando la quantità di opere prime uscite nell’ultimo anno, credo che sia importante seguire e accompagnare il proprio lavoro per mantenerlo vivo: sono stata in ogni occasione che si proponeva perché sono convinta che la presenza dell’autore o degli attori in sala rimangano un elemento di attrazione che sul pubblico fa la differenza”.
“Sono inoltre molto riconoscente alle piattaforme: sono diventate il videonoleggio 2.0 e per chi come me fa questo lavoro è importante che le proprie storie vengano viste e arrivino al numero più alto di persone possibile”, aggiunge nel momento in cui le sottolineo il successo che Come pecore in mezzo ai lupi ha riscontrato su Netflix qualche settimana fa. “Sono consapevole di quanto il cinema rimanga un’esperienza unica e di come l’esperienza visiva in sala eserciti un impatto unico sulla memoria dello spettatore ma allo stesso tempo attribuisco lo stesso valore all’accessibilità al prodotto”.
Ti ritrovi oggi ad accompagnare Come pecore in mezzo ai lupi al Sudestival. Che significa per te accompagnare il tuo lavoro a uno dei festival più importanti d’Italia dedicato alle opere prime?
Significa continuare ad aiutare il mio film ad avere ancora vita. Portarlo in Puglia vuol dire farlo arrivare in sala in una regione dove al tempo dell’uscita non ha circolato più di tanto: all’epoca, avevo due carissimi amici che, trovandosi lì, continuavano a chiedermi dove fosse possibile vederlo dal momento che non lo trovavano.
Inoltre, è per me un’ulteriore occasione per continuare a parlarne con il pubblico e avere un confronto diretto con la gente: lo ritengo un privilegio perché i festival, al di là delle occasioni dei saluti in sala, sono l’unico contesto in cui è possibile tale dialogo, il luogo in cui autori e pubblico si incontrano. Le osservazioni, le domande o gli appunti mossi mi permettono di ragionare ulteriormente su tanti aspetti del mio lavoro e mi piace vedere come le persone reagiscono o quali emozioni provano durante la proiezioni.
Il Sudestival permette, come dicevamo prima, di mantenere viva un’opera prima e quest’anno assume anche una sua particolare rilevanza. Il 2023 è stato l’anno in cui c’è stata una quantità di opere prime importanti e anche di grande livello: in tale contesto, mi fa piacere che Come pecore in mezzo ai lupi si sia fatto una sua strada e continui a mantenersi vivo anche a fronte dei grandi exploit che abbiamo avuto in chiusura dell’anno.
Il dato del 2023 sulle opere prime è interessante: sono stati molti gli attori o le attrici che hanno sentito il bisogno di passare dietro la macchina da presa.
È un dato che ha una duplice lettura. Da un lato, bisogna porre l’attenzione sulla presenza femminile: rispecchia quella che è, finalmente, un’apertura della società alle donne e una riappropriazione di spazi (o appropriazione, perché non c’è sempre stata in passato) che a noi donne, in maniera più o meno diretta o indiretta, erano preclusi. Dall’altro lato, invece, credo che la presenza di tanti attori che esordiscono alla regia non sia soltanto la risposta a una esigenza creativa personale e privata: il loro nome aiuta di certo la visibilità di un prodotto nel mare magnum di produzioni che si avviano ogni anno in Italia. Delle due, mi auguro che quella delle donne registe non sia solo una moda del momento che risponde a un’esigenza di comodità che tutti vogliono cavalcare.
Non possiamo non pensare in questo momento a un titolo come C’è ancora domani.
Il film di Paola Cortellesi arriva a certificare la positività di questo momento. Tutti dovremmo esserle riconoscenti perché ha dato uno scossone al nostro cinema, pari storicamente a quello che in passato è stato dato da Checco Zalone o da Leonardo Pieraccioni ai tempi di Il ciclone. Che a dare questa scossa sia stata una lei è per noi registe veramente importante: è un grande riconoscimento per tutte.
Per il tuo film, Come pecore in mezzo ai lupi, hai scelto per il ruolo della protagonista Vera/Stefania Isabella Ragonese, provvedendo a decostruire quell’immagine di attrice “rassicurante” che da un po’ di tempo si porta con sé. Al suo fianco, troviamo invece Andrea Arcangeli nei panni di suo fratello Bruno. Nel costruire le dinamiche tra i personaggi, si sovvertono le dinamiche di genere caratterizzando Isabella di una tempra prettamente maschile e Andrea di una sensibilità tipicamente femminile.
Credo che i due personaggi rispecchino la trasformazione in atto nella nostra società. Siamo noi a ridefinire i ruoli ma negli ultimi anni assistiamo a un ribaltamento che è indice della libertà del riconoscimento identitario che stanno vivendo le generazioni attuali. La categorizzazione sensibilità femminile e durezza maschile corrisponde più alle vecchie generazioni mentre i giovani di oggi sono per fortuna molto più liberi di vedersi come vogliono. Si tratta di una trasformazione che inevitabilmente sta avvenendo anche nella narrativa e nella drammaturgia: Vera e Bruno ne sono il perfetto esempio.
Indipendentemente da un riconoscimento di ordine d’identità sessuale, dietro loro ci sta un ragionamento sulla possibilità di esprimere se stessi e la propria sensibilità o emotività al di là di come sono sempre state definite le categorie “uomo” e “donna” nel vecchio millennio. Isabella nei panni di Vera si propone in un ruolo per lei inedito, un unicum quasi nella sua filmografia che ha accettato, credo, perché è tra le prime volte che glielo propongono: la caduta dei confini molto rigidi soprattutto femminili che hanno dominato dal punto di vista drammaturgico sta facendo sì che alle attrici si propongano nuovi personaggi e anche nuove area in cui misurarsi e potersi esprimere al meglio.
In tema di gender gap, ha riscontrato difficoltà a cimentarti con un’opera di genere così complessa com’è il tuo film?
Il gender gap non ha creato problematiche concrete su Come pecore in mezzo ai lupi perché il film arriva a margine di un lunghissimo percorso che invece rispecchia le difficoltà che ho incontrato io nei precedenti dieci anni per realizzare la mia opera prima. A differenza di coloro che vengono definiti “giovani registi”, sono un’adulta nel pieno della sua carriera, con alle spalle esperienze di montaggio e di produzione, ma ho impiegato ugualmente dieci anni per arrivare al mio esordio.
Ho cominciato a lavorare nel settore in un momento in cui non esistevano le piattaforme, le stesse che oggi scommettono anche sui giovani riuscendo a cogliere istanze che con gli anni verrebbero loro meno. E, quindi, mentre oggi è facile esordire a trent’anni, dieci anni fa quando ero io trentenne la situazione era differente. In più, per fare un’opera prima di genere che richiede un suo budget anche abbastanza alto, occorre trovare l’investitore disposto a scommetterci e avere meno garanzie di ritorno. A ciò aggiungiamoci che sono donna e il quadro si complica ulteriormente.
In questi dieci anni hai però curato la seconda unità di regia di progetti come Il primo re, Veloce come il vento, Smetto quando voglio…
Eppure, il mio primo lavoro da regista l’ho fatto su una serie Netflix, Curon. E anche questo è significativo: mettere una regista a lavorare su una serie tv è più facile e meno rischioso di affidarle un film di genere. Era comunque il 2010 ma credo che l’attenzione per la parità di genere riposta dalle piattaforme abbia aiutato molto il cinema italiano ad aprirsi alle donne.
Quel produttore disposto poi a investire sul tuo film è stato Matteo Rovere, con la sua Groenlandia.
Con Matteo ho un rapporto molto particolare sin da prima che esistesse Groenlandia, la sua casa di produzione. Ho iniziato a lavorare con lui per Veloce come il vento, prodotto all’epoca da Fandango, la società che ha poi distribuito il mio film. Dieci anni di esperienza al suo fianco e di relazione molto stretta mi hanno permesso di lavorare sulla mia opera prima con grande entusiasmo, tranquillità e divertimento. In più, l’amicizia che mi lega a lui, il produttore, mi ha dato un privilegio unico ed enorme: essere completamente libera su tutto, dalle risorse ai tempi di produzione. Anche perché stare al suo fianco sui set mi ha permesso di capire come sfruttare al meglio ciò che si ha a disposizione.
Come pecore in mezzo ai lupi: Le foto del film
1 / 31Come pecore in mezzo ai lupi presenta una storia che in fin dei conti contrappone emotività e necessità. Per te, fare cinema è più emotività o necessità?
Entrambe le cose. Necessità perché non posso assolutamente farne a meno, il cinema è sempre stato più che centrale nella mia vita e sono convinta che la qualità principale di un regista sia proprio la resistenza: ci sono dei momenti in cui tutto ti dice che la scelta giusta sarebbe quella di mollare o di cambiare strada ma la necessità ti impedisce di farlo. L’infelicità sarebbe non provarci.
Ed emotività perché per me il cinema è pura emozione. Non dimentico mai di essere prima di tutto una spettatrice e di voler declinare al femminile tutto ciò che è sempre stato declinato al maschile e realizzato da uomini. Banalmente, sono quelli i film che mi piace vedere e sono quelli che voglio realizzare per vivere ed esprimere emozioni che mi hanno segnato.
Da spettatrice, quali sono il film che hanno segnato indelebilmente il tuo immaginario?
Uno dei film che ha lavorato sul mio immaginario, che mi ha fatto esperire un certo tipo di emozione e mi ha fatto follemente innamorare del cinema horror è stato Profondo rosso di Dario Argento. Ma non posso non ricordare Le avventure del barone di Munchausen di Terry Gilliam: l’ho visto da bambina al cinema e mi ha fatto capire che la materia che c’era sullo schermo corrispondeva a quella della mia fantasia. O Strange Days di Kathryn Bigelow: quando ho scoperto che era stata una donna a girarlo, ho compreso come anche noi ragazze potessimo far quella cosa lì.
Ed è stato facile poi dire a casa che volevi far quella cosa lì?
Fin troppo. Nella mia famiglia, l’estro artistico è più che presente, tra pittori, artisti di arti plastiche e musicisti. La scelta di intraprendere una carriera artistica è sempre stata da tutti più che accettata e accettabile, anche se c’è sempre stata una grande consapevolezza delle difficoltà che ciò comporta. È stato fin troppo facile perché diverse volte nella mia vita ho pensato che se qualcuno mi avesse ostacolata quando ho detto con allegria che volevo far la regista senza sapere neanche cosa significasse forse mi sarei risparmiata tanti problemi.
E, invece, i miei genitori e mio fratello mi hanno sempre appoggiata, sostenuta e aiutata come hanno potuto. Ma non solo loro: la mia non è una famiglia particolarmente ricca ma è molto variegata e allargata, ragione per cui ho potuto contare anche sul racket degli zii che mi hanno ospitata sui loro divani.
La tua famiglia non è di certo disfunzionale come quella di Vera/Stefania e Bruno nel film Come pecore in mezzo ai lupi. C’è sul finale una scena particolarmente drammatica su cui non spoileriamo nulla che avrà richiesto particolare preparazione per il risultato che ha poi ottenuto.
È la cosiddetta scena madre, quella in cui entrano in gioco una forte componente emotiva che in questo caso era anche fisica. Richiedeva una certa orchestrazione e una dinamica molto stringente al cui centro c’era drammaturgicamente l’emozione. Com’è mia abitudine, ho cercato di preparare tutto prima dal punto di vista dell’organizzazione scenica per poi cogliere sul momento le emozioni dei personaggi e le loro psicologie.
Quella di Vera/Stefania è una psicologia molto forte.
In lei è presente una dualità che è centrale. È una persona sicura che ha tutto sotto controllo quando lavora, soprattutto in condizioni che mettono a rischio la sua stessa vita. Dal punto di vista privato ed emotivo, è invece bloccata completamente nel tempo: è come se fosse rimasta una bambina, un’adolescente. L’inconciliabilità tra privato e pubblico mi ha permesso di ribaltare anche lo stereotipo dell’infiltrato: solitamente è il lavoro che mette in pericolo la sua vita privata mentre nel suo caso accade il contrario… è la vita privata di Stefania che mette a repentaglio e manda in crisi la vita professionale di Vera. Il bello del gioco è stato quello di usare gli archetipi del genere cercando di ribaltarne gli stereotipi connessi.
La causa di tutti i problemi di Vera/Stefania e Bruno è da ricercare nel rapporto con il padre e la sua religione.
Ho voluto appositamente che la problematica al centro del rapporto tra i due fratelli non fosse di tipo economico ma di tipo affettivo: non sono stati cresciuti a pane e amore e ciò è la causa di tutti i loro mali. La chiave in tal senso è la figura del padre: solitamente si presuppone che sia il genitore il primo portatore di amore nei confronti dei figli, ancor di più quando questi è anche un padre spirituale.
Che poi la religione sia associata alla criminalità è un po’ una visione figlia della mia: dovrebbe essere portatrice di un’istanza di unione ma in molti casi genere l’opposto finendo per essere usata come forma di controllo o prevaricazione degli uni sugli altri. In tal senso, non la si può scindere da chi, per ragioni diverse, si trova a vivere a discapito degli altri, come fanno i criminali.
Hai già voglia di ritornare sul set per un tuo secondo film da regista?
Chiaramente si pensa ad andare avanti ed è quello che sto facendo. Non c’è ancora nulla di preciso e stabilito: sto scrivendo e spero che possa essere ciò a cui sto lavorando il mio secondo film ma non ne ho ancora la sicurezza. Scrivere è qualcosa che ho sempre fatto: ho esordito con una sceneggiatura non mia perché, avendo già passato un primo step di sviluppo, avevo la garanzia che sarebbe andato in porto.
Sei originaria del ferrarese, terra che ha dato i natali anche a Florestano Vancini e Michelangelo Antonioni. C’è qualcosa nell’aria che vi porta verso il cinema?
(Ride, ndr) Penso sia la nebbia: si sta come chiusi in un mondo che inevitabilmente alimenta il proprio immaginario. Potrebbe essere quello l’elemento che ci porta nella direzione di dover riempire tutti gli spazi vuoti che si creano: è una condizione fisica e metafisica molto vantaggiosa per quelli che si possono definire come grandi “viaggi” mentali.
A cosa o a chi si deve il tuo nome, Lyda?
Era il nome della sorella di mia nonna, morta poco prima che io nascessi. Era nata negli anni Dieci del Novecento e credo che dovesse il suo nome a un’attrice molto in voga nel periodo, Lyda Borelli. O almeno mi piace pensare che sia così.