Lo scorso 3 marzo è uscito Manuale illusione, il primo disco del trio degli AI!. Interamente registrato negli studi del Locomotiv Club di Bologna è un concept di otto tracce, definite come brevi bonsai concettuali che rimarcano il minimalismo speranzoso che contraddistingue i testi.
Le canzoni di Manuale Illusione degli AI! presentano infatti una lirica lontana dalla struttura pop e, soprattutto, priva di ritornello mentre le musiche non seguono linee canoniche, lasciando spazio all’improvvisazione contaminata dalla tradizione cantautorale degli anni settanta.
Di Manuale Illusione con Gabriele Ciampichetti, autore dei testi e co-autore delle musiche Stefano Orzes. Il terzo AI! è invece Luca Fattori, che presta la voce ai brani.
Intervista esclusiva a Gabriele Ciampichetti degli AI!
“AI! il nostro nome fa riferimento al mondo dei fumetti: l’espressione di dolore “Ahi!” è molto spesso scritta senza h. Mentre Manuale Illusione è da associarsi alle nostre pause silenti, che hanno un gran peso nella nostra musica: non hanno uno spettro sonoro ma si sentono benissimo!”, inizia così la nostra intervista in esclusiva con Gabriele Ciampichetti degli AI!, per parlare di Manuale Illusione, il loro primo album..
Come è nato il disco?
Questo progetto è nato nella primavera del 2020, per cui in pieno lockdown e un po’ in risposta a quello che stava accadendo. Sentivo le sabbie mobili sotto i piedi e ho chiamato il mio batterista, Stefano, con cui ho suonato per una vita, e gli ho chiesto di ricominciare a suonare insieme dal punto in cui avevo interrotto. Ho sempre usato la musica come ancora di salvezza che mi tirasse fuori dai guai e anche in questa occasione è andata così. È stata la risposta alle sabbie mobile, a quella profondità priva di gravità che sentivo e che stavamo vivendo tutti: a quella che possiamo definire quasi depressione o, comunque, assenza di prospettiva verso il futuro.
Tra l’altro, lavoro al Locomotiv Club di Bologna: siamo stati tra i primi a chiudere a causa delle restrizioni della pandemia e non c’era all’orizzonte nemmeno una prospettiva di ripresa. Ricominciare a suonare è stato davvero importante: mi ha permesso di superare quel senso di impotenza e di affrontare un viaggio introspettivo rivelatore che mi ha fatto ritornare in equilibrio. Ci tengo però a dire che Manuale d’illusione non è un disco cupo, anzi: è come se fosse uno slancio per fare un salto e protendersi verso l’alto. Per cui, non c’è nessuna pesantezza ma semplicemente la voglia di riscatto e di vivere appieno il più possibile.
Le canzoni che compongono l’album sono dei piccoli bonsai concettuali senza ritornello, una forma lontana da ogni logica di mercato. Cosa speri che rimanga di loro?
Mi auguro che riescano a entrare nell’immaginario e nel cuore delle persone. Per quanto mi riguarda, sono davvero molto precisi e rappresentano quegli stati d’animo che a me emozionano. Ecco, l’emozione è una delle forze del disco: chi l’ha sentito mi scrive che è stato un viaggio emozionante al di fuori del già sentito che ha suscitato anche ulteriore curiosità proprio perché si va al di là degli schemi. Chiaramente, alla mia età, avevo bisogno di mettere insieme elementi che fossero il più articolati possibili e vicini alla mia sensibilità.
Cos’è per te l’illusione che dà il titolo anche all’intero album?
Non ho mai pensato all’intero disco con l’illusione come tematica all’interno del disco. Tuttavia, Manuale d’illusione, l’omonima canzone, ha un testo che racconta di un momento di passaggio. Quindi, per me l’illusione è la fase di tensione che precede la catarsi, un cambiamento personale nostro intimo. E questo cambiamento in tutti noi è avvenuto proprio quando ci siamo messi a ragionare sui testi e sulla musica: siamo arrivati a un nuovo punto della nostra vita, anche di consapevolezza.
Una consapevolezza che in 24 febbraio ti fa scrivere “per altri ho costruito il mio sogno disperso, volevo essere normale ma sono diverso”.
24 febbraio è un testo dedicato ai lavoratori dello spettacolo, di cui faccio parte. Rappresenta l’essenza di quella mancanza di prospettiva che il CoVid ha portato in tutti noi: avevamo costruito un nostro percorso e vederlo man mano distrutto o abbandonato era molto, molto triste. Causava ovviamente molta preoccupazione e il testo contiene una piccola invettiva nei confronti dello Stato, anche se è lasciata molto in sospeso per evitare che fosse forte. Essere sopravvissuti a quei due anni e mezzo è stato qualcosa di molto vicino al miracolo, un miracolo ottenuto con il coltello tra i denti senza mai mollare e reiventando anche il nostro lavoro.
In Sopra le cose, invece, scrivi “Lasciati andare sopra le cose che non sai domare”.
Penultimo brano del disco, è stato scritto quando la normalità ricominciava a prendere una forma. Tant’+ che il testo racconta di una piccola parentesi al mare, invitando a godersi il momento e a smettere di pensare almeno per un po’ a quello che preoccupa o c’è stato.
“Ricorda che la felicità è l’unico compenso possibile” è uno dei bonsai di Pergamena.
Ho due figli. Mi sono chiesto cosa potessi dire io a questi bimbi: c’è qualcosa di importante che possa in qualche modo accompagnarli per la vita e dare loro una prospettiva? Ed è nato il testo, completamente proteso verso la volontà di andare al di là, di superarsi e di non fermarsi. Anche per il lavoro che faccio, mi capita di incontrare ragazzi che sembrano disillusi sul domani e mi dispiace sempre: vorrei che non succedesse mai e che credessero tutti nella speranza di un futuro migliore. Io ho sempre cercato di migliorare la mia condizione e di approfondire tutto ciò che riuscivo.
Cosa ha rappresentato per te la paternità?
È stato un momento di passaggio incredibile: la vita di prima non sarebbe più esistita, ne avrei dovuto affrontare un’altra. C’è stato inizialmente un momento di smarrimento utile a capire quale sarebbe stato il nuovo Gabriele, il papà di un bimbo nei confronti del quale hai anche tutta una serie di responsabilità che prima non si avevano. Bisogna necessariamente farci i conti.
Molto banalmente, se prima potevo far fatica nell’arrivare a fine mese, da quel momento in poi non sarebbe potuto più succedere: dovevo procacciare o comunque provvedere all’economia familiare. Questo, ovviamente, ti responsabilizza ma allo stesso tempo ti mette in una condizione di fragilità perché voler bene davvero a un bambino vuol dire soprattutto giocare a carte scoperte. È una cosa che difficilmente si fa e invece i bambini te lo impongono comunque: loro giocano solo ed esclusivamente così… ed è anche un esercizio molto bello mettersi a nudo.
Guardandoti intorno, non ti preoccupa il loro futuro?
Sono molto preoccupato: mi sembra tutto davvero difficile. Mentre la generazione dei mie genitori è cresciuta con l’idea che la società stesse progredendo, la mia è stata la prima che ha capito che in volte non si va avanti ma si torna indietro. Mi auguro che i miei figli non vivano a pieno il tornare indietro come i gamberi ma che abbiano la percezione di andare sempre avanti in una società che sia in qualche modo progressista e riesca a migliorare dai propri errori.
Quest’anno ricorre il 75mo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Secondo te, a che punto siamo messi in tema di diritti?
Onestamente, penso che si siano fatti dei passi avanti rispetto al passato e che molte frizioni siano cadute, anche se non bisogna mai distrarsi per quanto concerne gli aspetti sociali. A proposito di questi, ce n’è uno che mi preoccupa perché ne stiamo parlando in casa. Mio figlio, a nove anni, ha chiesto per la prima volta uno smartphone e io mi sono irrigidito pensando a come il telefonino sia la prima privazione della libertà: dall’iper connessione ai social alla reperibilità in qualsiasi momento. Occorrerebbe attuare delle misure per la gestione di questa tecnologia e liberare un po’ di tempo per tornare a vivere consapevolmente l’istante.
Com’è invece suonare in un gruppo in cui si è tutti uomini?
Bello e stimolante. Siamo persone tendenzialmente affini ma con le nostre diversità. Sarà per questo che suoniamo insieme e riusciamo a comunicare: la nostra musica è fatta quasi sempre di improvvisazione per cui occorre entrare in connessione con gli altri musicisti e iniziare a dialogare. Per me, l’amicizia e il poter stare insieme agli altri è una delle cose fondamentali della vita di ogni persona: c’è bisogno di stare insieme, confrontarsi, vedersi il più possibile, sorridere e piangere, fare tutto ciò che si può fare.
Il futuro di Manuale Illusione immagino sarà la dimensione live…
Facendo parte del Locomotiv Club da 15 anni e facendo una media di 150 concerti all’anno, so che questo disco è davvero complicato da posizionare nel mondo dei live. Mi auguro che possa attirare su di sé attenzione per la bontà della musica e dei testi in modo che si crei una fan base che voglia sentirlo dal vivo. È appena uscito e, quindi, cerchiamo di capire come verrà recepito e quale orizzonti possa aprire. Mi auguro chiaramente di poterlo suonare il più possibile perché suonare è la cosa che più di ogni altra mi piace fare.
150 serate all’anno: come si sopravvive?
E con una famiglia e due bimbi? Smettendo di dormire, fondamentalmente: ho un’agenda cattivissima e, per non sbagliare, vado a incastro a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma si può fare e alla fine è anche molto motivante: sono una persona che ha sempre voglia di fare e mettersi in gioco al 100%.
E cosa ti rimane quando tiri la somma?
La bellezza. La fortuna del mio lavoro è l’avere a che fare sempre con le emozioni, anche a livello musicale. Quando vedo i ragazzi cantare i testi dall’inizio alla fine, anche di qualcosa che non mi piace o non mi rappresenta più, e muoversi, mi fa capire di non fare un lavoro finto ma carico di emozioni.
Ma non è come voler rimanere eternamente giovane?
Può esserci come componente. Tutti abbiamo paura di invecchiare o di morire, anch’io. Ma ho sempre avuto come vocazione quella di tenere al centro la musica e tutto gira sempre intorno al nostro dna centrale. Sperimentiamo, cresciamo, ci evolviamo ma ritorniamo sempre al nucleo centrale della nostra personalità, quella che abbiamo sin da quando siamo piccoli. L’ho sperimentato anche con i miei figli: sono nati con un carattere fatto e finito che influenzava anche la loro visione del mondo.
Ma è la musica che ti gira intorno o sei tu che giri intorno alla musica?
Sono io che giro intorno alla musica.