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Manuel Zito: “Le coincidenze appartengono alla vita di tutti” – Intervista esclusiva

Forte di oltre 12 milioni di streaming, il compositore Manuel Zito ci racconta il suo ultimo lavoro, Coincidences. Un’occasione per parlare di musica ma anche del suo percorso personale.

Coincidences (Believe Italia) è il secondo album del pianista e compositore Manuel Zito. Con oltre 12 milioni di streaming sulle piattaforme musicali, Manuel Zito nella sua musica ama mescolare richiami neoclassici con suggestioni elettroniche di artisti contemporanei nordeuropei, con un perfetto bilanciamento di strumenti acustici ed elettronici.

Per Coincidences, Manuel Zito si è affidato alla produzione artistica di Massimo De Vita (Blindur) e alla post produzione del sound engineer Birgir Jon Birgisson (Sigur Ros, Bjork, Damien Rice, tra i tanti con cui ha lavorato). E, come se non bastasse, ha scelto di registrare le tracce che compongono l’album al Forum Studios di Roma, luogo in cui hanno registrato maestri come Ennio Morricone, Armando Trovajoli, Riz Ortolani e Piero Piccioni. La scelta non è casuale: Manuel Zito ha voluto ricercare sonorità che fossero vicine al mondo delle colonne sonore cinematografiche. Non a caso, come ci rivela in quest’intervista, ha frequentato il Corso Sperimentale di Cinematografia e considera Morricone uno dei suoi idoli di sempre.

Coincidences è fatto di composizioni scritte tra il 2016 e il 2018, periodo di cambiamenti che Manuel Zito ci racconta. Altre, invece, sono nate durante il primo lockdown, quello della chiusura totale, e altre ancora sono più recenti, legate anche a eventi particolari. Di questo e molto altro abbiamo parlato con il trentaquattrenne compositore campano.

Manuel Zito.
Manuel Zito.

Intervista esclusiva a Manuel Zito

Il tuo ultimo album si chiama Coincidences, coincidenze. E per una strana coincidenza ti sei ritrovato a registrarlo al Forum Studios, dove il maestro Ennio Morricone realizzava le sue composizioni.

Come dico sempre ai miei concerti, le coincidenze appartengono alla vita di tutti. Capitano degli avvenimenti, degli incontri e dei viaggi inaspettati che portano a fare delle scelte o dei cambiamenti di vita. Ognuno, in base alle proprie credenze, può chiamarli caso, destino o via dicendo. E per una coincidenza ho registrato il mio album nello stesso studio di Morricone, uno dei miei idoli non solo per la musica realizzata ma anche per l’idea che stava dietro alla sua musica stessa, qualcosa che mi ha sempre affascinato: l’unione del classico con suoni più sperimentali. Vengo dall’accademismo, dallo studio del piano e della composizione da un punto di vista classico ma ho imparato a lavorare anche su suoni acustici o elettronici, un po’ come lui. E ho anche frequentato il Centro di Cinematografia Sperimentale.

Coincidences è stato realizzato principalmente in un periodo che va dal 2016 al 2018. Sono poi subentrati il lockdown e la pandemia. È occorsa la morte di Ezio Bosso e sono arrivati diversi cambiamenti nella tua vita personale. Tutti elementi che sono confluiti nel risultato finale.

Sono successe varie cose in quel periodo. Prima di tutto, sono diventato pianista per la danza: ho scritto brani per la danza, alcuni dei quali finiti anche nel mio primo e secondo disco. Ho conosciuto, casualmente, tramite Carla, la violinista dei Blindur, Olafur Arnalds e ha rappresentato per me quella spinta che mi ha portato a unire la mia parte classica di studi con musica più moderna, per cui l’uso di suoni acustici ed elettronici (sintetizzatori, drums machine). Subito dopo, con Massimo De Vita (produttore dei miei due dischi), sono andato a registrare il mio primo disco in Islanda. Tornato dall’Islanda, ho proseguito con il mio percorso di ricerca sui suoni e ho scritto brani come Absences o Coincidences.

È accaduto quasi tutto nel 2017: prima di quell’anno, non avrei mai pensato di scrivere dischi. Diciamo pure che il 2017 è stato un anno particolare: ho frequentato il CSC, ho registrato in Islanda il mio primo disco (Fernweh) e mi sono aperto al mondo dell’acustica e dell’elettronica.

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L’apertura all’acustica e all’elettronica ha rimesso in discussione quelli che erano i tuoi parametri?

Tendenzialmente, sono sempre stato una persona molto curiosa. Parallelamente ai miei studi classici, ho suonato in gruppi di musica cosiddetta “leggera”. È stato nell’ambito di vari festival e concerti che ho conosciuto ad esempio Massimo. Il mio mondo musicale, quindi, non è mai rimasto chiuso dentro i confini della musica classica.

Ed è per questo che si è rivelato fondamentale nel 2002 l’ascolto di un disco dei Coldplay?

Ed ecco che ritornano le coincidenze. Me li ha fatti scoprire mio cugino, all’epoca studente universitario. L’album in questione era A Rush of Blood to the Head e, in particolare, rimasi colpito dalla traccia n. 5, Clocks, e dal modo in cui usavano il piano. Ed è nello stesso periodo che ho conosciuto la musica dei Sigur Ros, senza sapere che quindici anni dopo sarei andato a registrare nello stesso studio in cui realizzavano i loro dischi.

Ma con gli islandesi, in generale, son tante altre le coincidenze. Tre anni fa, sono stato a un concerto di Arnalds a Torino: gli ho dato il mio disco, dove c’è una traccia che si chiama Alafoss. Alafoss è il nome di una cascata che è vicina allo studio dei Sigur Ros (non a caso hanno chiamato così una loro canzone). E Arnalds mi ha raccontato in quella circostanza di aver vissuto i primi anni della sua vita in una strada vicino alla cascata…

Absences, che hai citato prima e che apre Coincidences, è un brano che fa riferimento all’assenza di un genitore.

Nello specifico, quella di mio padre: sono otto anni che non c’è più.

E a lui che devi l’inizio dello studio del pianoforte a cinque anni?

Più che altro lo devo a mia zia, la sorella più piccola di mia madre. Era diplomata in pianoforte e ho preso le prime lezioni da lei. Da piccolo, non avevo consapevolezza del fatto che suonare potesse diventare una professione, tant’è che inizialmente non avevo preso sul serio il pianoforte. Il primo ricordo di studio serio dello strumento risale a quando avevo all’incirca dieci o undici anni. Quando ho capito che avevo una certa propensione, ho cambiato insegnante: in famiglia, complici i rapporti personali, si creano dinamiche particolari e necessitavo di qualcuno che fosse estraneo.

Impegnandomi, ho anche sostenuto l’esame di solfeggio in conservatorio, anche se dopo le scuole superiori avevo intrapreso parallelamente il percorso universitario. Ho frequentato per un anno ingegneria e, quando l’ho lasciata, mia madre era quasi dispiaciuta: consapevole che la musica rappresenta una grossa incognita, soprattutto in Italia, sperava che avessi maggiore stabilità. Mio padre, invece, mi ha sostenuto maggiormente nella scelta di continuare con la musica.

Absences è dedicata a lui ma anche a tutte quelle persone che nella vita, in un modo o nell’altro, ci hanno segnati. Non è però un pezzo totalmente triste: c’è sì la mancanza ma anche il ricordo di quello che una persona ti lascia.

Morning Dew è invece una traccia che hai scritto durante il lockdown. Cosa ha significato per te la totale chiusura a causa della pandemia?

Inizialmente, è stata molto produttiva. Lavoro in una scuola superiore, una parte della mia giornata è dedicata a quello, e la chiusura mi ha regalato all’improvviso molto tempo a disposizione per suonare, produrre, ricercare e informarmi. Pian piano, poi, sono invece arrivati i primi effetti, inerenti anche alla sfera affettiva. La mia fidanzata, ad esempio, abitava a 40 chilometri da casa mia: sembrano pochi ma sono diventati tanti perché abitiamo in due province differenti. Idem, molti miei amici. Non potendo uscire, a lungo andare, il lato emotivo ha preso il sopravvento su quello razionale, anche per via delle notizie che sentivamo e che ci confondevano, riducendo anche la produttività: affrontavo periodi di alti e bassi.

I bassi erano legati soprattutto alla produzione. Nel frattempo, alcuni brani – finiti poi nel disco - sono usciti sulle piattaforme digitali e sono andati molto bene. Sono stato molto fortunato.

Non credo che sia solo una questione di fortuna ma anche di bravura.

Purtroppo, viviamo in un momento storico in cui il merito viene evidenziato dai numeri e dai social. È cambiato il modo di far musica ed è difficile emergere in un settore già di per sé complicato come il mio.

Manuel Zito.
Manuel Zito.

Dedichi a Ezio Bosso, uno dei pochi che è riuscito a imporsi, una delle canzoni dell’album, To E.B.. Il brano è anche in qualche modo connesso a un tuo esame al conservatorio, non proprio andato benissimo.

Per Bosso, vale un po’ lo stesso discorso fatto per Morricone: ero da sempre affascinato dalla sua idea di musica. Tutti lo ricordano per la sua partecipazione a Sanremo ma io lo conoscevo già da circa un anno, avendo visto una sua intervista in un programma notturno su Rai 2.

E ho scoperto che in un suo disco c’era un suo pezzo con un preludio di Bach, lo stesso che avevo presentato in un esame di passaggio tra il 7 e l’8 anno di piano, visto che frequentavo il vecchio ordinamento al Conservatorio. Quell’esame non andò particolarmente bene: ero stressato dalla concomitanza con l’esame di maturità e devo aver suonato davvero male, tanto che il professore mi consigliò di smettere di suonare il pianoforte.

Curiosamente, Bosso registrò l’arrangiamento del pianista Siloti, diverso rispetto all’originale. Siloti cambiò la tonalità originale, in mi, nella tonalità di si. In inglese, il mi si dice E mentre il si B… e quindi EB, le sue stesse iniziali.

Hai più incontrato il professore che ti consigliò di smettere?

No. Ma non ho alcun senso di rivalsa nei suoi confronti: accademicamente, aveva anche ragione. Posso comprendere anche i motivi che lo hanno portato ad avere quella certa crudezza nei miei confronti.

In Coincidences, usi due strumenti particolari: la celesta e un pianoforte a muro.

La celesta è lo strumento che si sente nella colonna sonora di La vita è bella e che è totalmente presente in Profondo rosso. Ho registrato proprio con la celesta usata in questi 2 capolavori! È molto particolare e ha un suono che mi è sempre piaciuto. L’altro invece è un pianoforte stranissimo, elettro-acustico, che andrebbe però restaurato. Ne ho voluto inserire il suono perché legato a una colonna sonora di Morricone che mi piace tantissimo (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto). Mi entusiasma l’idea di inserire nei miei lavori strumenti che hanno fatto la storia, in questo caso del cinema.

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Il pianoforte a muro viene usato in Wabi Sabi. Cos’è per te la bellezza dell’imperfezione?

Wabi Sabi è un’espressione che viene dalla filosofia giapponese. Il concetto è abbastanza complesso da spiegare e, quindi, l’ho semplificato nella “bellezza dell’imperfezione”. Siamo soliti cercare la bellezza nella perfezione delle cose quando in realtà ciò che spesso fa risaltare tutto è la sua imperfezione, la sua unicità. Non umani non siamo perfetti e la ricerca della perfezione finisce spesso per sviarci da ciò che siamo: non ci fa essere noi stessi.

O ti fa vivere momenti malinconici e tristi, come quelli che ti hanno portato alla composizione di Mercy.

È stato l’ultimo pezzo scritto per il disco. Purtroppo mi è uscito di getto dopo un episodio spiacevole avvenuto in famiglia. La tristezza e in qualche modo la rabbia mi hanno fatto scrivere questo brano.

Before the Storm è dedicata all’attesa della tempesta. È arrivata per te? E, se è passata, cosa ti ha lasciato?

L’attesa della tempesta è quella sensazione legata alla consapevolezza di qualcosa che sta per accadere. È quel momento in cui sei consapevole che qualcosa di brutto accadrà. Io sto forse vivendo la quiete dopo la tempesta. La tempesta è stata la morte di mio padre, avvenuta dopo una serie di malattie che lo hanno colpito e che hanno, inevitabilmente, segnato l’attesa.

Heartbeats invece ti permette di parlare in un certo senso d’amore. A suggerirti il titolo è stata la tua compagna.

Spesso è lei la prima ascoltatrice delle mie composizioni: la prendo ad esempio di pubblico medio. Ma non in senso spregiativo, ovviamente: viene da un mondo totalmente diverso dal mio, come almeno il 90% di coloro che ascoltano la mia musica. Ascoltando la canzone, ha avuto come la sensazione di sentire dei battiti del cuore, qualcosa che di primo acchito non mi era venuta in mente.

Cos’è che ti fa battere oggi maggiormente il cuore?

Tutto ciò che mi fa star bene: la musica e le persone con cui sto bene… la mia compagna, mia madre, la mia famiglia e i miei amici. Ma anche la bellezza sia delle piccole cose sia dell’arte in generale.

Metamorphosis, altra composizione dell’album, è stata scritta per una coreografia.

È stata scritta insieme ad altri due brani che sono contenuti nel primo disco, Water Dance e Monrome, per uno spettacolo che ho fatto come pianista nel liceo coreutico in cui insegnavo a Roma nel 2016. È stata una delle prime volte in cui mi cimentavo nella composizione per la danza ma tutti mi hanno fatto notare che avevo quasi una predisposizione nel farlo. Non avevo avuto all’epoca modo di registrare Metamorphosis ma non me ne sono dimenticato: ha rappresentato quasi un punto di partenza per il mio lavoro attuale.

Visto che hai frequentato il CSC, ti piacerebbe scrivere una colonna sonora?

Ho composto già per documentari o cortometraggio. Scrivere colonne sonore è il sogno della mia vita ma non per questioni di mero profitto ma per una questione di struttura: un’idea può essere sviluppata meglio rispetto ai pochi minuti di un video o di una pubblicità. Mi vedrei più propenso a comporre per un film drammatico o per una commedia con venature drammatiche, non molto leggera.

Manuel Zito.
Manuel Zito.
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