Nella sempre più vasta e variegata offerta televisiva italiana, pochi film riescono a toccare il cuore e la coscienza collettiva come Mascaria, che sarà trasmesso su Rai1 in occasione della Giornata della Legalità il 23 maggio, interpretato da Fabrizio Ferracane, Manuela Ventura e Christian Roberto. Diretto da Isabella Leoni e prodotto dalla collaborazione tra Rai Fiction e Red Film, Mascaria è più di una semplice narrazione televisiva; è un'opera carica di significati profondi e di messaggi potenti, un vero e proprio grido contro le ingiustizie e le oppressioni mafiose.
Al centro dell’intensa ed emotiva storia, troviamo Manuela Ventura, attrice catanese la cui carriera è costellata di ruoli che sfidano e definiscono le convenzioni. Nei panni di Mimma Ferrara, la moglie del protagonista Pietro, Manuela Ventura offre una performance straordinaria, esplorando le profondità di una donna che si trova nel vortice di eventi drammatici che cambiano la sua vita e quella della sua famiglia. La sua interpretazione è un punto di riferimento nel film, fornendo una rappresentazione potente e autentica della forza femminile in contesti di estrema difficoltà.
Il film Mascaria si ispira a eventi realmente accaduti e segue la storia di Pietro Ferrara, un imprenditore siciliano che decide di non sottomettersi più al ricatto mafioso. La decisione di Pietro di denunciare i suoi oppressori scatena una serie di conseguenze inaspettate, trasformandolo da vittima a accusato. Al suo fianco, Mimma emerge non solo come supporto morale e emotivo, ma anche come pilastro di resistenza e saggezza.
Abbiamo incontrato Manuela Ventura per approfondire la sua visione del personaggio e il suo approccio all'interpretazione di Mimma. Ventura ha condiviso riflessioni illuminanti sulla responsabilità di rappresentare donne forti e complesse, sottolineando l'importanza del suo ruolo come voce delle sfide che molte donne affrontano quotidianamente. La sua capacità di portare autenticità e intensità emotiva al personaggio offre uno spaccato significativo sulla resilienza femminile.
Durante la nostra conversazione, Manuela Ventura ha esplorato anche come il suo ruolo in Mascaria si inserisce nel contesto più ampio del suo impegno artistico e civile, riflettendo su come le storie di coraggio e giustizia siano essenziali per stimolare il dialogo e la riflessione nella società. Come donna e come attrice, Ventura si impegna a promuovere la comprensione e l'empatia attraverso le sue interpretazioni, mirando a ispirare e influenzare il pubblico.
L'intervista che segue non solo offre uno sguardo sul processo creativo dietro la realizzazione di Mascaria, ma anche sulla filosofia personale di Manuela Ventura riguardo al cinema come strumento di cambiamento sociale e personale. Con una carriera dedicata a esplorare e a presentare complesse verità umane, Ventura continua a essere una forza motrice nel mondo dell'arte, usando tutta se stessa per elevare e illuminare le realtà spesso nascoste dietro le quinte della vita quotidiana e della lotta per la giustizia.
Intervista esclusiva a Manuela Ventura
“Mascaria rappresenta per me una di quelle situazioni professionali che hanno un’importanza che va al di là del valore intrinseco dell’opera stessa: è come se stessi andando in piazza a manifestare”, mi risponde subito Manuela Ventura quando le chiedo di parlarmi del film in onda su Rai 1 per la Giornata della Legalità.
“Sono felice di aver avuto l’occasione di tornare a interpretare una storia che abbia anche un valore civile a fianco di un collega come Fabrizio Ferracane, con cui avevo già lavorato varie volte e anche, come in questo caso, nei panni di marito e moglie. E sono felice di aver incontrato di nuovo nel mio percorso Isabella Leoni, regista alla quale riconosco da sempre una grande sensibilità, oltre che una grande attenzione per il suo lavoro, per il set e per i suoi attori, che le permette anche di superare ogni tipo di difficoltà logistica”.
Come descriveresti Mimma, il tuo personaggio?
Mimma Ferrara è una delle protagoniste della storia, una vicenda di soprusi e di ingiustizie che mette in luce anche aspetti legati al coraggio, alla libertà e a un’ipotesi di futuro. Nel film si racconta delle vicissitudini di suo marito Pietro, un imprenditore siciliano, e della sua volontà di difendere un sogno, un’idea nella quale aveva deciso di investire non solo in termini economici ma anche in termini familiari. Per via dell’incalzare della pressione sempre maggiore e pericolosa della mafia, per Pietro arriva il momento di denunciare ciò che per lui non è più possibile sopportare e la moglie Mimma è al suo fianco in questa decisione.
I due sono legati da un’unione molto solida e forte di amore reciproco e nei confronti dei tre figli. Condividono da sempre lo stesso sogno, lo hanno coltivato insieme e Mimma, da donna dotata di determinazione e comprensione, non può che sostenere il marito: desidera proteggerlo così come desidera farlo con i figli. Quando si rende conto dei pericoli che avanzano, istintivamente o con coscienza, vorrebbe andare a vivere da un’altra parte proprio per permettere ai figli di respirare un’altra aria e di non stare in preda alla paura. Ma, di fronte a una città che è diventata quasi terra di nessuno, comprende, anche grazie al confronto con Pietro, quanto in realtà sia importante rimanere dov’è e affrontare la vita, ben cosciente di come andando via nulla cambierebbe.
Ti riconosci in qualche suo aspetto?
Mi riconosco nel suo interesse e nella sua determinazione di voler sapere le cose, nel non tacere, nel parlare e nella necessità di dialogo con il marito, un bisogno costante che ben si nota durante il film. Mimma chiede perché vuol sapere ciò che accade non solo nelle vicende processuali ma anche nell’animo del marito e dei figli: è lì che può cercare di intervenire, non soltanto con eventuali gesti eclatanti. Come anche altri personaggi che mi è capitato di incontrare, Mimma appartiene alla schiera di coloro che spingono a delle piccole grandi rivoluzioni interne, cercando con la loro gradazione di colore delicata o anche solo in silenzio, affidandosi all’ascolto, di andare in profondità.
Il rapporto che ha con il marito è molto bello, delicato e intimo: ci permette di entrare nelle dinamiche della storia che sarà come se stessimo guardando attraverso le finestre di quella famiglia e ne cogliessimo l’aspetto più riservato. E lo stesso dicasi di quello che ha con i figli: c’è sempre una sua mano che prova ad accarezzarli o ad abbracciarli, anche senza troppe parole.
Nelle dinamiche di Mimma con i figli c’è anche un momento che mi piace particolarmente ricordare: il confronto della madre con il figlio maggiore Riccardo, interpretato da Christian Roberto. Realizzando Riccardo che c’è qualcosa che non va in famiglia, Mimma anche se con uno sforzo doloroso gli rivela la verità, mortificandosi per qualcosa che non avrebbe mai voluto dire: l’essere loro malgrado protagonisti di un’ingiustizia. È un modo da adulta di dare la possibilità di un ulteriore strumento di conoscenza e di consapevolezza al figlio, permettendogli anche di andare incontro a un percorso di crescita personale che lo spingerà a provare anche meno rabbia nei confronti di ciò che sta accadendo e a farsi erede di un progetto di vita che non si interrompe.
Mascaria racconta una di quelle storie che mostrano quanto la parola ingiustizia sia concreta e non fantasiosa.
Da un certo punto di vista, il finale è terribile ma apre il varco per una luce che in qualche modo arriva, con un passaggio di testimone che non risiederà solo sul figlio ma anche all’interno di tutta la famiglia, dei dipendenti dell’azienda e dei compagni di università. Non chiamiamolo lieto fine ma apertura verso il futuro…
È qualcosa che in qualche modo trova riflesso anche nella correlazione che il film ha con la Giornata della Legalità, nata perché ricordiamo la strage di Capaci. Quello è stato un momento deflagrante, in tutti i sensi, per la storia del nostro Paese. Tutti ricordiamo l’esplosione e le vittime ma c’è anche un altro fatto che io ricordo e che a quel 23 maggio 1992 è collegato: ero ragazza e, come me, tanti altri ragazzi hanno sentito il bisogno di ritrovarci in una piazza senza che ci dicessimo nulla. Così come ricordo bene l’ondata di gente che a Palermo ha affollato via Notarbartolo, davanti alla casa del giudice Falcone.
Nonostante ci tremassero le gambe e fosse piombato un velo di paura e di terrore, abbiamo reagito e la nostra reazione è stata accompagnata da un simbolo molto forte: le lenzuola bianche stese ai balconi. Insieme alla tragedia, quindi, c’è stata anche la reazione della società civile, la capacità dei singolo che si fanno gruppo e reagiscono. Nei momenti difficili, la collettività emerge sempre, anche se poi la sua forza nel tempo rischia di disperdersi. Ed io credo nella collettività. Non a caso, tra le varie inclinazioni trovate per esprimermi, ho scelto il teatro: è una forma di collettività, se la intendiamo nella sua matrice più originaria.
Il finale, dunque, visto da questa prospettiva, è un modo per sottolineare che si può e si deve reagire. Parlare e denunciare serve proprio ad allontanare o a cercare di arginare la rassegnazione e il silenzio che sono dietro l’angolo per tutti. Non è facile ma si deve, senza coltivare per questo la logica del supereroe. Pietro Ferrara non è, era un essere umano come tutti noi che con la sua iniziativa è riuscito a essere da traino per tanti altri imprenditori che hanno poi denunciato. Ha dato il via alle indagini, ha avuto coraggio ma il racconto non tralascia le sue difficoltà e le sue paure, annesso il bisogno così umano di chiedere aiuto, confidarsi e cercare il sostegno degli altri.
Tant’è vero che una delle delusioni maggiori è il vedersi chiudere in faccia le porte da persone a lui vicine facendo sì che il fenomeno del mascariamento si concretizzasse: non altro tutto ciò che fa sì che la tua reputazione venga inficiata e macchiata anche agli occhi di chi ha sempre creduto in te.
Mascaria: Manuela Ventura
1 / 12Mascaria si ispira a un fatto di cronaca realmente accaduto. Hai sentito l’esigenza di documentarti maggiormente o ti sei affidata semplicemente alla sceneggiatura?
Mi sono documentata: ho sentito la necessità di farlo e, al di là della storia specifica, esempi di vicende simili ce n’è tantissimi, da nord a sud. Ho trovato una vasta documentazione su imprenditori e costruttori che, come Ferrara, hanno provato a contrastare le iniquità e i soprusi sperando di affidarsi anche alla tutela delle istituzioni per poi ritrovarsi invece a sentirsi da soli. È importante che ognuno faccia la sua parte: occorre denunciare ma contestualmente deve esserci una presa in carico da parte delle istituzioni, un sistema solido in grado di sorreggere tutto l’iter.
È qualcosa di molto attuale e a cui occorre pensare anche quando si parla di violenze di genere: la denuncia deve essere accompagnata da un impegno diverso da parte dei nostri sistemi. Ed è un ragionamento che inevitabilmente porta all’altro film che tu e Fabrizio Ferracane avete interpretato come marito e moglie, Primadonna di Marta Savina.
In entrambi i film nel rapporto tra marito e moglie ci sono aspetti che ritornano: l’empatia, la solidarietà, l’unione e la parità di ruolo all’interno della famiglia. Non ci sono posizioni di superiorità o inferiorità: uomini e donne si equivalgono e tra loro c’è profondo rispetto. Nel caso di Primadonna, tale rispetto porta la protagonista Lia a fidarsi del fatto di avere dalla sua parte entrambi i genitori, qualcosa che per lei è importante perché le permette di sentirsi riconosciuta e compresa all’interno della sua famiglia. Sara, il personaggio che ho interpretato nel film di Savina, tra l’altro va incontro a un’evoluzione importante: dapprima era restia alla denuncia della figlia perché condizionata dalle voci, da quello che sarebbe giusto fare agli occhi della società, ma da donna intelligente è in grado di cambiare diventando una spalla su cui Lia può appoggiarsi.
“Ce ne dobbiamo fregare di quello che dicono gli altri perché fino a che saranno solo gli altri a parlare sembrerà che la storia sia quella: è solo quando tu prenderai la parola e racconterai la tua storia che allora le sorti potranno cambiare”, dice Sara a Lia. E questo accade realmente.
Manuela Ventura quando ha imparato a fregarsene del giudizio degli altri?
Ho imparato a farlo grazie al teatro perché è quello il luogo dove ho potuto sperimentare mille versioni non tanto di me ma delle possibilità dell’essere umano, avendo anche la possibilità di mettersi in ridicolo. E, quando si indossano tutti questi strati, non puoi uscendo dalla sala prove o dallo spettacolo non sentirti anche più leggero: non c’è un unico modo di guardare alla vita. Ciò ti arricchisce dandoti la possibilità di farti scivolare addosso i giudizi e la ristrettezza di vedute degli altri o portandoti a pensare che possono convivere varie possibilità. L’importante è che l’una non infici la libertà dell’altra, un principio fondamentale a cui tutti quanti dovremmo attenerci sempre e comunque…
Un principio importante e vitale di difesa di se stessi e, in generale, anche degli altri. Perché non dimentichiamoci che bisognerebbe stare con cuore e gli occhi aperti per guardare sempre anche agli altri.
Per Mimma ma anche per Sara è importante essere riconosciuti e compresi anche all’interno del proprio nucleo familiare. Tu ti sei sentita tale?
In linea generale, riguardando a distanza il mio passato, direi di sì. Se guardo però nel dettaglio, c’è stato un momento in cui ciò che sentivo di voler cercare di me non riuscivo a comunicarlo o a farlo comprendere fino in fondo alla mia famiglia. E forse quel momento è coinciso con il periodo in cui, finito il liceo, ho deciso di entrare all’Accademia Silvio D’Amico cominciando a preparare la valigia ancor prima di sapere se poi sarei stata ammessa oppure no.
Dietro a ciò, in maniera ancora inconsapevole, c’era la voglia di scoprire Manuela fuori dalla famiglia: sentivo che avrei dovuto capirmi meglio per potermi poi fare capire. Sono sempre stata, anche da piccola, abbastanza taciturna e, di conseguenza, ho vissuto in silenzio tutto quel lavorio di emozioni che nelle varie gradazioni vanno da quando sei bambino a quando sei adolescente. Avevo un immaginario tutto mio che vivevo nel silenzio della mia stanza, per cui i cassetti della mia cassettiera diventavano delle scatole magiche in cui sotto i vestiti infilavo tutti i ritagli di giornale o per cui la finestra della mia stanza diventava il motore di un film, di una storia straordinaria che vivevo tra me e me.
Ho capito adesso, nel tempo, che il mio lavoro per i miei genitori, che fanno tutt’altro, all’inizio non era facile da comprendere, soprattutto nelle dinamiche pratiche. Comporta ad esempio una precarietà congenita che a un genitore può spaventare. Quando mi hanno compreso le mie aspirazioni, mi sono sentita accompagnata perché mi hanno sostenuto da vari punti di vista, a partire da quello economico (anche se come tutti gli studenti fuorisede mi sono arrangiata cercando di studiare e di lavoro allo stesso tempo) e morale, ascoltandomi a distanza.
Una delle frasi che mio padre mi ripeteva più spesso quando partivo dopo essere stata in Sicilia era “Vorrei essere così piccolo da potermi infilare nella taschina della tua giacca per seguirti”. Un’immagine che, seppur non sia mai riuscita a rimpicciolire lui o mamma, mi sono portata dietro per molto tempo e che mi è stata di conforto: come ognuno di noi, anch’io ho avuto i miei momenti di vuoto.
Cosa ha comportato allontanarti allora dalle tue radici?
Una sorta di iniziale spaesamento che ho poi dovuto imparare a gestire. Andando via da casa, ti sembra di perdere dei legami: devi fare spazio a delle novità per cui devi o vuoi rinunciare a una parte del tuo mondo che è stato proprio per sperimentare altro. Capita così di perdere dei pezzi e di sentirti inevitabilmente in disequilibrio in alcuni momenti. Almeno a me è capitato così quando, arrivando in Accademia, mi sono fiondata in un contesto che mi ha aperto mille conoscenze e tante porte. Ma tutte quelle emozioni e confusione emotiva a cui cerchi di far posto dentro di te hanno bisogno di essere elaborate.
Ed è da allora che ho cominciato a far lunghe camminate per placare quel senso di ricerca di qualcosa. Rientra ancora oggi tra le mie passioni: cammino senza sapere bene dove devo andare. È come se fisicamente mettessi in moto quel bisogno di cercare o comunque di andare: magari ti arriva improvvisamente una suggestione, una risposta o un’immagine da fotografare che ti aiutino a ritrovare la strada o a scovarne una nuova.
Non hai mai avuto la sensazione di smarrire la strada o che quella nuova non facesse al caso tuo?
Certo. Ancora adesso vivo la sensazione di perdermi troppo. Perdersi va bene e a volte serve ma io temo di perdermi troppo. E il mio lavoro di certo non aiuta tanto proprio perché fatto di incognite e precarietà. Rispetto a quando ho cominciato io, ci sono stati tanti cambiamenti a cui ho cercato di adeguarmi, novità e nuovi modi che spesso mi generano la sensazione di perdermi e mi fanno ogni tanto stare in ansia.
Perché, per citare Emma Stone e una sua recente intervista, anch’io ho l’ansia, ho imparato a riconoscerla e ad ammetterla. Tutti, se vogliamo, ne siamo affetti in misura diversa e in qualche modo può anche diventare fonte di energia perché, riconoscendola, ti stimola e può offrirti anche delle possibilità a livello creativo.
“Il bisogno umano di chiedere aiuto”: quando lo avverti, a chi chiedi aiuto?
Tutta la rete delle amicizie e degli affetti è sempre stata una fonte di ossigeno per me. Credo moltissimo nelle mie amiche e nei miei amici così come credo nel sostegno dei miei affetti e dei miei familiari, di mio fratello anche se è lontano. Anche perché mi lascio andare quando vivo un momento di difficoltà e non lo tengo troppo per me: lo faccio perché trovo il mettersi a nudo un modo non solo per confidarsi e per coltivare la fiducia e l’amore reciproco ma anche per confrontarsi e capire molto di se stessi.
Credo tanto nel sostegno che può arrivare dal chiedere aiuto e a mia volta pratico molto l’ascolto e osservo tanto. Forse, è la cosa che ho più maturato nel tempo visto che da piccola, essendo taciturna, sono stata tanto a guardare e ad ascoltare gli altri: mi piace più che ascoltare me stessa. E sarà per questo che ho scelto anche la recitazione, per togliermi di mezzo e dare spazio ai personaggi che interpreto. Personaggi che hanno una loro dignità indipendente da quella degli attori e che hanno il grande potere di cambiarti o di regalarti qualcosa di nuovo, facendoti scoprire lati di te stesso che fino a quel momento di erano sconosciuti.
Cosa ti ha sorpreso maggiormente scoprire di te?
Ciò che mi piace maggiormente scoprire sono i difetti. Ho scoperto di avere certe volte una cocciutaggine e una testardaggine eccessiva o una certa esigenza di pianificare e organizzare tutto. Mi capita soprattutto nei momenti in cui mi sento più insicura… ma ho scoperto anche di essere una persona piacevole con cui stare per via della propria autoironia. Ho realizzato con il tempo di essere autoironica e l’autoironia è stata per me una piccola ancora di salvezza.
Sei un’attrice siciliana a cui hanno spesso proposto in tv o al cinema dei ruoli da siciliana. Non credi che sia stato un po’ una limitazione delle tue potenzialità?
Onestamente, sì., da un certo momento in poi. Tuttavia, per me è stato importante e continua a esserlo il rapporto che un’attrice o un attore siciliano ha con storie che raccontano la propria terra. Certo, la sento come una limitazione perché mi piacerebbe, come accade a teatro, spaziare e avere la possibilità di esprimermi in altri contesti o in altri ruoli. Uno dei ruoli che più mi ha divertito è stato ad esempio quello della marchesa in Cetto c’è senza dubbiamente, al fianco di Antonio Albanese, eccentrico ed esagerato. Mi ha permesso di usare la mia verve comica, di vestire in maniera stravagante e di sfoggiare un aspetto diverso.
Penso a volte di non riuscire quasi più a ricoprire determinati ruoli perché ho paura di ripetermi: ho ormai fatto ricorso a tutto ciò che sapevo. È bello invece costruire personaggi che hanno storie per te nuove, trovare nuove sfumature e lasciarsi andare a nuove espressioni: mi permetterebbe di sondare le mie capacità recitative e di rimettermi in discussione. Per me, la parte migliore del mio lavoro è la trasfigurazione, la trasformazione, lo stare un passo indietro ai personaggi e il far vivere loro le svariate possibilità che ancora ci sono di raccontare gli esseri umani.
Beh, allora ti avrà divertito il personaggio di Favilla nella serie tv di Rai Lea…
Parecchio. Dar vita a una donna così antipatica mi ha divertito tantissimo: mi ha permesso di lavorare per aggiungere antipatia su antipatia. Speriamo di rivederla presto: c’era nell’aria la possibilità di una terza stagione ma attendiamo conferme.
La valigia che hai preparato prima di lasciare la Sicilia è diventata oggi più pesante da portare o si è alleggerita?
Dipende dalle circostanze. Un po’ si è alleggerita perché ho maturato consapevolezza, sicurezze e conferme, non solo da un punto di vista professionale: crescere è bello anche per questo. E in altri momenti si è appesantita per via delle incertezze che ci riguardano tutti. Basta guardarsi intorno: come fa a non appesantirsi?
E se aprissimo oggi i cassetti di quella cassettiera che troveremmo?
Sempre la stessa curiosità: è molto accesa in me. Quell’immaginario emotivo è per me un rifugio che custodisco e curo. Sono rimasta sempre la stessa persona che resta in silenzio a mirare l’alba, a immaginare e vagare per la natura, con cui da sempre ho un rapporto unici ed essenziale. Sono cresciuta facendo esperienza nella natura: mi permette di sentire di sentire e di sognare le cose.
Guardandoti allo specchio, ti piace l’immagine che vedi riflessa?
Mi piace relativamente alle mattine in cui mi non mi vorrei rivolgere neanche uno sguardo. Non per l’aspetto fisico, ovviamente, ma per la sensazione di aver tralasciato qualcosa che ora sto cercando di recuperare. Però, sì, mi stringo abbastanza la mano. Quando però mi chiedono se rifarei lo stesso percorso, rispondo che proverei strade diverse ma giusto per curiosità, un po’ come Alice nel Paese delle Meraviglie!